I

Questo primo sonetto è quasi propositione de l'opera ne la quale il Poeta dice di meritar lode d'essersi pentito tosto del suo vaneggiare, et essorta gli amanti co 'l suo essempio, che ritolgano ad Amore la signoria di se medesimi.

Vere fur queste gioie e questi ardori
Ond'io piansi e cantai con vario carme,
Che poteva agguagliar il suon de l'arme
4E de gli heroi le glorie e i casti amori.
E se non fu de' più ostinati cori
Ne' vani affetti il mio, di ciò lagnarme
Già non devrei, che più laudato parme
8Il ripentirsi, ove honestà s'honori.
Hor con gli essempi miei gli accorti amanti,
Leggendo i miei diletti e 'l van desire,
11Ritolgano ad Amor de l'alme il freno.
Pur ch'altri asciughi tosto i caldi pianti,
Et a ragion tal volta il cor s'adire,
14Dolce è portar voglia amorosa in seno.

  • 1a. «Vere fur queste gioie»: cioè questi piaceri, o questi diletti. E «veri» son quelli (come scrisse PLATONE nel Filebo) de' quali si nutriscono i buoni, perciochè gli huomini malvagi si rallegrano dei falsi piaceri ch'imitano i veri, ma in un modo degno di riso. Si dee ciò nondimeno intender del nutrimento de l'animo e de l'intelletto, ch'è quella ambrosia de la quale favoleggiano gli antichi poeti.
  • 1b. «questi ardori»: [cioè] «questi amori», imperochè l'amore è chiamato «fuoco» e «fiamma». E dice il Poeta che gli amori suoi sono stati veri, per dimostrar che 'l vero amore, o i veri amori, sono il vero soggetto del poeta lirico, come scrive il PETRARCA nelle sue Epistole latine. Tuttavolta intorno ad esso favoleggia, non altrimenti che faccia l'Epico, come fa il medesimo autore in molti suoi componimenti, e particolarmente ne la canzona de le trasformationi, et in quella «Standomi un giorno solo a la fenestra» et un quell'altra «Tacer non posso, e temo non adopre», nè meno ch'in alcuna altra ne la canzona ov'egli fa citare Amore avanti la Ragione, Ma il soggetto amoroso in tutto falso è proprio del comico poeta: laonde molte s'ingannavano coloro che portavano opinione che 'l Poeta non fosse acceso di Laura.
  • 2. «Ond'io piansi e cantai»: il cantare e 'l piangere sono effetti d'Amore convenevolissimi al poeta lirico. Il quale gli accoppia insieme come il PETRARCA, dicendo «Del vario stile in ch'io piango e ragiono». E 'l BEMBO: «Piansi e cantai lo stratio, e l'aspra guerra» o gli divide come il PETRARCA «I' piansi, hor canto» et «Cantai, hor piango».
  • 3. «Che poteva agguagliare il suon de l'arme»: ha risguardo a quel detto di QUINTILLIANO nel giudicio ch'egli fa di Stesichoro: «Stesicorum quam sit ingenio validus materiae quoque ostendunt maxima bella, Et clarissimos canentem Duces, et epici carminis onera lira sustinent». E conforme a questa è l'opinione di DANTE ne la Volgare Eloquenza, che l'arme siano soggetto ancora de la canzona.
  • 5. «E, se non fu de' più ostinati»: ne l'amor concupiscibile non può essere costanza, ma ostinatione. Ma l'amore, il quale è habito nobilissimo de la volontà, come dice s[an] TOMASO ne l'Operette, è costante nel ben che si propone per oggetto.
  • 8. «Ove honestà s'honori»: ne le corti de gli ottimi Principi.
  • 9. «Hor con l'essempio mio»: dimostra il fine che si dee preponer il poeta ne lo scrivere e nel publicare le sue poesie.

II

Dimostra come l'amore acceso in lui da l'aspetto de la sua Donna fusse cresciuto dal suo canto.

Havean gli atti soavi e 'l vago aspetto
Già rotto il gielo, ond'armò Sdegno il core,
E le vestigia de l'antico ardore
4Io conoscea dentro al cangiato petto.
E di nudrire il mal prendea diletto
Con l'esca dolce d'un soave errore;
Sì mi sforzava il lusinghiero Amore,
8Che s'havea ne' begl'occhi albergo eletto.
Quando ecco un nuovo canto il cor percosse,
E spirò nel suo foco, e più cocenti
11Fece le fiamme placide e tranquille.
Quando ecco un nuovo canto il cor percosse,
E spirò nel suo foco, e più cocenti
14Fece le fiamme placide e tranquille.

  • 2a. «Già rotto il gielo»: imita il PETRARCA in que' versi «E d'intorno al mio cor pensier gelati, | Fatto havean quasi adamantino smalto, | Ch'allentar non lasciava il duro affetto» et intende de lo sdegno o de l'ira, perchè l'ira invecchiata è odio, come dice ARISTOTILE ne la Politica. E se l'amore è habito, parimente è habito il suo contrario. Per ciò malamente si può mutare. Se l'uno si chiama fuoco, l'altro si può nominar giaccio.
  • 2b. «ond'armò Sdegno il core»: mostra che la bellezza de la sua Donna fu molto maggiore di quella di Laura celebrata dal Petrarca. Perchè Laura vinse il PETRARCA disarmato, come si raccoglie da que' versi «Tempo non mi parea di far riparo| Contra i colpi d'Amor, però n'andai, | Secur senza sospetto, onde i miei guai, | Nel comune dolor s'incomianciaro. | Trovommi Amor del tutto disarmato, | Et aperta la via per gli occhi al core, | Che di lacrime son fatto uscio e varco». Ma il Poeta è vinto, armato di quell'arme delle quali pensò di provedersi il BEMBO: «Io che di viver sciolto havea pensato| Questi anni adietro, e se di giaccio armarmi». Ma tanto ancora è maggiore la vittoria de la Donna amata dal Poeta, quanto è maggiore sicurezza l'armarsi, che 'l pensar d'armarsi. Bembo fu vinto ponendo in terra l'arme, il Poeta ritendendole; il Bembo con la mano, il Poeta con il dolcissimo canto. Laonde si comprende che l'amor del Bembo fosse assai materiale, et questo più spirituale. Però che più spirituale è il senso de l'udito che quello del tatto.
  • 3-4. «E le vestigia de l'antico ardore | Conoscea già»: imita VIRGILIO nel quarto de l'Eneide: «Agnosco veteris vestigia flammae» et DANTE nel Purgatorio«Cognosco i segni de l'antica fiamma».
  • 7a. «Sì mi sforzava il lusinghiero Amore»: se sforzava era violenza, se lusingava, persuasione; dunque la violenza era mista con la persuasione.
  • 8b. «l'albergo eletto»: se l'elettione è operatione de la ragione, segue che questo amore fosse ragionevole.
  • 9a. «Quando ecco»: assomiglia il suo desiderio al fuoco, e 'l canto de la sua Donna al vento che l'infiamma.

III

Descrive la bellezza de la sua Donna et il principio del suo amore, il quale fu ne la sua prima giovinezza.

Era de l'età mia nel lieto aprile,
E per vaghezza l'alma giovenetta
Gia ricercando di beltà ch'alletta,
4Di piacer in piacer, spirto gentile,
Quando m'apparve Donna assai simile
Ne la sua voce a candida Angeletta;
L'ali non mostrò già, ma quasi eletta,
8Sembrò per darle al mio leggiadro stile.
Miracol novo: ella a' miei versi et io
Circondava al suo nome altere piume,
11E l'un per l'altro andò volando a prova.
Questa fu quella il cui soave lume
Di pianger solo e di cantar mi giova
14E i primi ardori sparge un dolce oblio.

  • 1. «Era de l'età mia nel lieto aprile": metafora di proportione, come insegna ARISTOTILE ne la Poetica, perchè la giovinezza si può dire «l'aprile» de l'età o de la vita, e la primavera si potrebbe chiamare la giovinezza de l'anno. [Così] DANTE «In quella parte del giovinetto anno».
  • 2. «E per vaghezza l'alma giovanetta": ad imitatione parimente di DANTE il qual disse: «L'anima pargoletta, che sa nulla», percioch'ella è a guisa di tavola rasa, la qual non ha scritto in sé alcuna cosa, come vuole ARISTOTILE, e non è più antica del corpo, o è infusa dal cielo con l'Idee o con le specie di tutte le cose, come stimò PLATONE, il qual giudicò che 'l sapere non fosse altro che ricordarsi.
  • 3-4. «Già ricercando di beltà, ch'alletta, | Di piacer in piacer spirto gentile»: con ogni beltà è congiunto un piacere: con la beltà del corpo il piacere del senso, con la beltà de l'animo il piacer de l'animo, con quella de la mente il piacer de l'intelletto. Dunque, di bellezza in bella ascendiamo al cielo per via di resolutione, come insegna Socrate ne l'Amoroso Convito. E dopo lui ALCINOO; filosofo platonico. E per la medesima strada, et con l'istesso methodo risolutivo possiamo salir di piacere in piacere, cominciando da quel de l'udito e de la vista. E dice «spirto gentile» per escludere ogni diletto sozzo e materiale, il quale fosse impedimento a questa resolutione e quasi morte del corpo.
  • 5-7a. «Quando m'apparve Donna assai simile | Ne la sua voce a candida Angeletta. | L'ale non mostrò già»: «l'ale» de l'anima sono le virtù o gl'istinti al vero et al bene, come vuole il FICINO. E non gli conobbe subito, perchè la sua Donna per cortesia celava il suo alto proponimento, o perchè la beltà non si possa nascondere, ma la virtù si possa celare, come dice MELANCOMIO appresso STOBEO.
  • 7b-8. «ma quasi eletta, | Sembrò per darle al mio leggiadro stile": i Poeti son cosa volatile, come dice Socrate ne l'Ione, o del furor poetico. Et ENNIO di se stesso «Vivus volito per ora virum». E VERGILIO parimente di se medesimo «Victor volitare per ora».
  • 9a. «Miracol novo»: leggi un maraviglioso cambio de l'ali de la Fama e di quelle d'Amore.

IV

Seguita a mostrar con altra metafora come, avisando di trovar la sua Donna senza difesa, fosse da lei vinto e superato.

Io mi credea sotto un leggiadro velo,
Trovar inerme e giovenetta Donna,
Tenera a' preghi, o pur in treccia e 'n gonna
4Come era all'hor che parvi al sol di gelo.
Ma scoperto l'ardor, ch'a pena io celo,
E 'l possente desio, ch'in me s'indonna,
S'indurò come suole alta colonna,
8O scoglio, o selce al più turbato cielo.
E lei d'un bel diaspro avolta io vidi,
Di Medusa mostrar l'aspetto e l'arme,
11Tal ch'i' divenni pur gelato e roco.
E dir voleva, e non volea ritrarme,
Mentre era fuori un sasso e dentro un foco:
14- Spetrami, o Donna, in prima, e poi m'ancidi. -

  • 1a. «Io mi credea»: dimostra quanto i giovani siano incauti e quanto sogliono spesso ingannarsi.
  • 1b-3b. «sotto un leggiadro velo, | […] | […] o pur in treccia e'gonna»: descrive l'habito giovenile de la sua Donna.
  • 3a. «tenera a' preghi»: allude a quel d'OVIDIO: «Casta est quam nemo rogavit».
  • 4. «Com'era all'hor che parvi al sol di gelo»: cioè nel tempo che prima vide la sua Donna.
  • 6. «e 'l possente desio, ch'in me s'indonna»: chiama «possente» il desiderio, perchè s'usurpa l'imperio de la ragione, de la quale è proprio il signoreggiar ne l'anima, e quella signoria somiglia quella de' re leggittimi. Però dice il PETRARCA: «Fatto citar dinanzi a la Regina». Questa altra è somigliante a la tirannide, laonde dal PETRARCA Amore è chiamato tiranno: «…e non questo tiranno | Che del mio stratio ride, e del mio danno».
  • 7-8. «S'indurò come suole alta colonna, | O scoglio, o selce al più turbato cielo»: la sua Donna, conoscendo ne l'amante perturbato l'ordine de le potenze de l'animo e 'l senso signoreggiare, ché questo significa «indonna», si sdegnò e divenne simile ad alta colonna per l'altezza, a scoglio et a selce per la durezza. Et imita Monsig[nor] DA LA CASA in quel luogo: «…come alpestra selce, | Che per vento, e per pioggia asprezza cresce».
  • 9. «E lei d'un bel diaspro avolta io vidi»: segue DANTE in que' versi: «…la qual ogn'hor impetra | Maggior durezza, e più natura cruda, | E veste sua persona d'un diaspro». Il diaspro e 'l diamante ne' nostri poeti sono simbolo de la castità.
  • 10. «Di Medusa mostra l'aspetto e l'arme»: l'arme di Pallade, figurata da' Gentili dea castissima. Leggi le Stanze del POLITIANO ne le quali Simonetta spogliata di quelle arme rimase «in treccia, e 'n gonna». A l'incontro la nostra valorosa Donna se ne veste. Imitatione dal contrario, o emulatione più tosto, con maggior laude.
  • 13. «Mentre era fuori un sasso e dentro un foco»: dimostra la maraviglia e lo spavento per lo quale era simile ad un sasso, e l'amor occulto che lo faceva dentro tutto di foco.

V

Descrive come ne l'età giovenile per l'inesperienza fosse preso dal piacere d'una gentilissima e nobil fanciulla.

Giovene incauto, e non avvezzo ancora
Rimirando a sentir dolcezza eguale,
Non temea i colpi di quel raro strale
4Che di sua mano Amor polisce e dora.
Nè pensai che favilla in si breve hora
Alta fiamma accendesse et immortale;
Ma prender, come augel ch'impenna l'ale,
8Giovenetta gentil credea talhora.
Però tesi tra' fior d'herba novella
Vaghe reti, sfogando i tristi lai
11Per lei, che se n'andò leggiera e snella.
e 'n gentil laccio io sol preso restai
E mi furo i suoi guardi arme e quadrella,
14E tutte fiamme gli amorosi rai.

  • 1a. «Giovene incauto»: seguita il Poeta a dimostrare quanto egli fosse incauto per l'età e l'inesperienza.
  • 1b. «e non avezzo ancora»: o perchè la bellezza de la sua Donna fosse maggiore, o perchè l'età del Poeta fosse più soggetta a l'amorose passioni.
  • 4. «di quel raro strale»: due sono le saette d'Amore e, come si legge nel primo de le Trasformationi d'OVIDIO, l'una d'oro che genera amore, l'altra di piombo che fa contrario effetto.
  • 5-6. «Nè pensai che favilla in sì breve hora | Alta fiamma accendesse et immortale»: perchè s'attribuisce ad Amore non solamente l'arco e la faretra, ma la face. Gran maraviglia ch'una favilla in breve hora accendesse alta fiamma, et immortale, perchè le cose che tosto s'accendono, tosto s'estinguono. Dice «alta» per l'obbietto; «immortale» per la fama.
  • 7. «Ma prender, com'augel ch'impenna l'ale»: ha risguardo a quel terzetto di Dante nel Purgatorio: «Novo augelletto, due o tre aspetta | Ma dinanzi da gli occhi de pennati, | Rete si spiega indarno, e si saetta».
  • 9-10a. «Però tesi tra' fior d'herba novella | Vaghe reti»: tra i fiori, intende tra i fiori della poesia, perchè così sono chiamati da PINDARO: «[…] ἄνθεα δε ὕμνων νεωτέρων» et in altri luoghi da l'istesso e da ANACREONTE e dal PETRARCA «A coglier fiori in que' prati d'intorno», overo i fiori e l'herba significano i piaceri e le delitie, o morbidezze che vogliam dirle. Come s'intende ne' Trionfi: «... E Cesar, ch'in Egitto Cleopatra legò tra' fiori e l'herba».«Vaghe reti» ad imitatione similmente del Petrarca, ma con maggior maraviglia: però che colui che tendeva vi rimase incappato e divenne, come si dice in uno altro luogo, «preda» di «predatore».

VI

Mostra che la sua Donna, benché fosse vestita in habito giovenile assai leggiadro, non merita d'esser numerata fra le Ninfe, ma è più tosto degna di celeste honore.

Mentre adornò costei di fiori e d'herba
Le rive e i campi, ogni tranquilla fonte
Parea dir, mormorando: - A questa fronte
4Si raddolcisce il mio cristallo, e serba.
Se non disdegna pur Ninfa superba
Riposto seggio, ove il sol poggi o smonte,
Et ogni verde selva, ogni erto monte
8Par che l'inviti a la stagion acerba. –
Ma sembrò voce uscir tra' folti rami:
- Donna con sì gentil e caro sdegno
11Non è nata fra boschi o poggi et acque;
Ma perchè 'l mondo la conosca et ami
Scesa è dal cielo in terra, e dove nacque
14Di sua bellezza honor celeste è degno. –

  • 1-2a. «Mentre adornò costei di fiori e d'herba | Le rive e i campi»: da gli effetti l'assimiglia a la dea Flora, o più tosto al Sole, il quale «Le rive, e i campi di fioretti adorna», e ciò detto per maraviglia, o per vaghezza poetica. Come disse il GUIDICCIONE «Io giuro Amore per la tua face eterna, | E per le chiome, onde gli strali indori, | Ch'a prova ho visto le viole, e i fiori | Nascer sotto il bel piè quando più verna».
  • 2b-3a . «ogni tranquilla fonte | Parea dir, mormorando»: parea cioè al Poeta perchè imaginatione è senso e fa quasi una prosopopea dando le parole al fonte.
  • 7. «Et ogni verde selva, ogni erto monte»: continua ne la figura cominciata, preponendola in questa guisa a le Ninfe de' fonti e de le selve e de' monti.
  • 9. «Ma sembrò voce uscir tra' folti rami»: che non è alcuna delle già dette.
  • 12a. «Ma discesa dal cielo»: laonde è meritevole d'honori assai maggiori di quelli che possono far le selve e le fontane e le montagne.
  • 12b-13. «e dove nacque | Di sua bellezza honor celeste è degno»: non dice simplicemente che sia degno di lei honor celeste, perchè ciò si potrebbe intendere dopo la peregrinazione de l'anima. Ma per accrescer la maraviglia afferma che in terra è degna «d'honor celeste», assomigliando lei a gli Imperatori et a gli Augusti, i quali in terra furono chiamati Divi, e questa è suprema lode, che da' Greci è detta.
  • [14]. [«A ciò che 'l mondo la conosca et ami»]

VII

Mostra quanta dolcezza sia ne le pene amorose.

Se d'Amor queste son reti e legami,
O com'è dolce l'amoroso impaccio;
Se questo è il cibo ov'io son preso al laccio,
4Come son dolci l'esche, e dolci gli hami.
Quanta dolcezza a gli inveschiati rami
Il vischio aggiunge et a l'ardore il ghiaccio;
Quanto è dolce il soffrir, s'io peno e taccio,
8E dolce il lamentar, ch'altri non ami.
Quanto soave ancor le piaghe interne,
E lacrime stillar per gli occhi rei,
11E d'un colpo mortal querele eterne.
Se questa è vita, io mille al cor torrei
Ferite e mille, e tante gioie haverne;
14Se morte, sacro a Morte i giorni miei.

  • 1. «Se d'Amor queste son reti e legami»: materialmente intende i capelli de la sua Donna; spiritualmente i suoi desideri.
  • 2. «O com'è dolce l'amoroso impaccio»: «impaccio» perchè è impedimento a conseguire il fine posto ne l'attione o ne la contemplazione.
  • 3 . «Come son dolci l'hesche, o dolci gli hami»: «esche et hami» chiama i diletti de le cose sensuali. Così il PETRARCA: «In tale stella io presi l'esca, e l'hamo». Et in quell'altro luogo: «Il cor preso, ivi come pesce a l'hamo». Et in quelli similmente: «Ne però smorso i dolci inescati hami» [e] «Preghi, che sprezzi il mondo, e i suoi dolci hami». Monsignor DE LA CASA similmente «Io come augel del ciel scende a poca esca».
  • [6]. Il «vischio» è figura del medesimo.
  • 7-8. «Quanto è dolce il soffrir s'io peno e taccio | E dolce il lamentar, ch'altri non ami»: ad imitatione di quel sonetto «Dolci son le quadrella, ond'Amor punge» sia[no] dette queste cose e le seguenti.
  • 12a. «Se questa è vita»: mostra di dubitar se questa dolcezza mescolata d'amaritudine sia vita o morte. La stima vita però che la vita ci diletta, come dice ARISTOTILE, et dal piacer che sente, non solo argomenta d'esser vivo, ma desidera di viver in cotal modo. La giudica a l'incontra [14]«morte», perchè la vita è di quelle cose che sono care, et amate per se stesse: ma questa è gradita non per sè, ma per gloria de la sua Donna, e per maraviglia de la sua bellezza. E dice di consacrare a morte i suoi giorni, cioè di vivere continuamente in altrui. Nè si può in altro modo meglio conoscer la vanità degli amanti, i quali non si posson chiamar nè vivi nè morti, laonde quanto la vita o contemplativa o attiva ci piace, tanto dobbiamo schifar l'amor sensuale.

VIII

Dice haver veduta la sua Donna su le rive de la Brenta e descrive poeticamente i miracol che facea la sua bellezza.

Colei che sovra ogni altra amo et honoro,
Fiori coglier vid'io su questa riva;
Ma non tanti la man cogliea di loro,
4Quanti fra l'herbe il bianco piè n'apriva.
Ondeggiavano sparsi i bei crin d'oro,
Ond'Amor mille e mille lacci ordiva;
E l'aura del parlar, dolce ristoro
8Era del foco, che de gli occhi usciva.
Fermò suo corso il Rio, pur come vago
Di fare specchio a quelle chiome bionde
11Di se medesmo, et a que' dolci lumi.
E parea dire: - A la tua bella imago,
Se pur non degni solo il Re de' fiumi,
14Rischiaro, o Donna, queste placide onde. -

  • 1. «Colei che sovra ogni altra cosa amo et honoro»: cioè colei ch'avanza ciascuna altra di bellezza e di virtù. Peroché Amore segue la bellezza, e l'honor la virtù quasi necessariamente.
  • 2a. «Fiori coglier vid'io» : ad imitatione di quei leggiadrissimi versi latini «Quantum vos tota minuetis luce refectum | Fecundo tantum per noctem rore resurget». O più tosto di quelli altri toscani «Terra, acqua, legno e sasso | Verde facea, chiara e soave l'herba | Con le palme e co' pié lieta e superba» e di quegli similmente «Costei, che co' begli occhi le campagne | Accende, e con le piante l'herbe infiora». Ma de primi ha imitata la contrapositione, e de gli altri la maraviglia, ne la quale i nostri Toscani hanno voluto superare gli Antichi: e non è miracolo nondimeno che se 'l desiderio de gli amanti non regolato da la ragione è de le cose impossibili, l'imaginatione sia de l'impossibili parimente.
  • 7a. «E l'aura del parlar» : così il PETRARCA: «Farei a l'aura del mio ardente dire».
  • 9a. «Fermò suo corso il Rio»: maraviglie poetiche et amorose, le quali eccedono l'altre: perciochè si accoppiano insieme l'amore e la poesia, ciascuno de quali per sua natura è vago de l'impossibile e del maraviglioso: laonde congiungendosi l'uno inganno con l'altro, più agevolmente sono manifesti gli errori de l'imaginatione e 'l diletto nasce non sol da la varietà de le cose imaginate, ma dal conoscer com'altri per soverchia passione inganni se medesimo.

IX

Si lamenta che la sua Donna non lasci il guanto.

Lasciar nel ghiaccio o ne l'ardore il guanto,
Amor più non solea,
Dapoi che preso e' suo poter m'havea
Nel laccio d'oro, ond'io mi glorio e vanto.
5Mentre io n'andava ancor libero e scarco,
Il candor m'abbagliò di bianca neve,
Sì che non rimirai la rete e i nodi.
Poi che fui colto, e di spedito e leve
Tornai grave, e'mpedito e caddi al varco,
10Coperse il mio diletto, e 'n feri modi
Sdegnò la bella man preghiere e lodi.
Ahi crudel mano, ahi fera invida spoglia,
Chi fia che la raccoglia,
Nè sdegni i baci e l'amoroso pianto?

  • 2. «Amor più non solea»: chiama Amor la sua Donna, come fece il PETRARCA dicendo «Quando Amore i begli occhi a terra inchina», et in quell'altro luogo «Ove già vidi Amor fermar le piante».
  • 4. «Nel laccio d'oro, ond'io mi glorio e vanto» : segue parimente il PETRARCA: «Del laccio d'or non fia mai, chi mi scioglia».
  • 6b. «di bianca neve»: aggiunto, che ne l'oratore sarebbe per aventura vitioso, come insegna ARISTOTILE nel terzo de la Retorica, ma nel poeta è convenevole.
  • 8-9. «Poi che fui colto, e di spedito e leve | Tornai grave, e 'mpedito»: anthiteti, o contraposti, che sono convenevolissimi ne l'ornata maniera di parlare, come insegna DEMETRIO FALEREO.
  • 10b-11. «e 'n feri modi | Sdegnò la bella man preghiere e lodi»: attribuisce a la parte quello ch'è proprio del tutto: perchè non si sdegna la mano. Lo sdegno nondimeno de la Donna può manifestarsi in qualch'atto de la mano.
  • 12b. «ahi fera invida spoglia»: chiama «spoglia» il guanto, come chiamò il PETRARCA «Chi hebbe al mondo mai sì dolci spoglie?». E la chiama «fera», et «invida» affettuosamente, perchè gli ricuopre il suo diletto. E tutta questa ballata è fatta ad imitatione di quella del PETRARCA «Lasciar il velo per sole, o per ombra» e con la medesima testura.

X

Invita gli occhi a rimirar la sua Donna

Occhi miei lassi, mentre ch'io vi giro
Nel volto in cui pietà par che c'inviti,
Pregovi, siate arditi,
Pascendo insieme il vostro e 'l mio desiro.
5Che giova esser accorti, e morir poi
D'amoroso digiun, non satij a pieno,
E fortuna lasciar ch'è si fugace?
Questo sì puro e sì dolce sereno
Potria turbarsi in un momento, e voi
10Veder là guerra ov'è tranquilla pace.
Occhi mirate, hor che n'affida e piace
Il lampeggiar di bei lumi cortesi,
Con mille amori accesi,
Mille dolcezze senza alcun martiro.

  • 1a. «Occhi miei lassi»: ad imitatione di quella altra del PETRARCA la qual comincia nel medesimo modo, e ne l'istessa maniera è tessuta: in quella gli occhi sono persuasi a l'accortezza, in questa a l'ardire; in quella gli spaventa la crudeltà, in questa gli assicura la pietà.
  • 5. «Che giova esser accorti, e morir poi»: gli persuade a non perder l'occasione, perch'è miglior l'avvertenza che giovi, de l'accortezza che non sia giovevole.
  • 8. «Questo sì puro e sì dolce sereno»: con la metafora presa da l'aria e dal cielo, mostra quanto facilmente possano turbarsi gli occhi de la sua Donna.
  • 11a. «Occhi mirate»: per maggior affetto torna a pregar gli occhi che rimirino gli occhi de la sua Donna.
  • 12. «Il lampeggiar di bei lumi cortesi»: metafora presa dal cielo, il qual co' lampi suol predir il caldo e l'ardore de la state.
  • 13-14. «Con mille amori accesi, | Mille dolcezze senza alcun martiro»: scopre l'infermità amorosa di chi s'inganna ne la cognitione del proprio male, laonde è simile a quegli infermi che quanto meno s'avveggono, tanto sono più vicini al pericolo de la morte.

XI

In questo dialogo fra il Poeta e l'Amore, si dimostra come ne gli occhi de la sua Donna sia il premio de la sua servitù.

- Dov'è del mio servaggio il premio, Amore? -
- In que' begli occhi al fin dolce tremanti. -
- E chi v'inalza il paventoso core? -
- Io; ma con l'ali de' pensier costanti-
- E s'ei l'infiamma in quel sereno ardore? -
- Il tempran lagrimette e dolci pianti. -
- Ahi, vola et arde, e di suo stato è incerto. -
- Soffra, che nel soffrir è degno merto. -

  • 1. «Dove è del mio servaggio il premio, Amore»: «servaggio», parola antica leggiadramente ritrovata da Monsignor DE LA CASA: «Doglia morte, e servaggio, assai m'è caro | Da sì begli occhi, e pretioso dono».
  • 2. «In que' begli occhi al fin dolce tremanti»: così disse il PETRARCA: «... Alfin dolci tremanti | Ultima spene de' cortesi amanti». Egual cortesia è de l'uno e de l'altro amante, e de l'uno e de l'altro poeta: perchè il primo ripone ne gli occhi l'ultima speranza, il secondo l'ultimo premio.
  • 4. «Io; ma con l'ali de' pensier costanti»: dà «l'ali» al pensiero, come diede il PETRARCA prima di lui: «Volo con l'ale de' pensieri al cielo». Chiama «costanti» i pensieri che si prepongono sempre in un obietto medesimo; ma se il pensiero è costante conviene ancora che sia costante l'obietto. E non potendo essere che una costanza ne le cose terrene e mortali, è necessario che l'obietto sia immortale; ma i pensieri de le cose humane e caduche, sono simili a le saette che non sono drizzate a segno stabile, ma a caso.
  • 5. «E s'ei l'infiamma in quel sereno ardore»: ne le cose naturali lo spaventa l'essempio de la farfalla, e ne le favole quel d'Icaro.
  • 7. «Ahi, vola et arde, e di suo stato è incerto»: mostra quanto gli amanti siano temerari e quanto lusinghevole et insieme crudele la passione amorosa.

XII

Loda gli occhi de la sua Donna

Sete specchi di gloria, in cui riluce
Eterno raggio d'immortal bellezza,
Occhi leggiadri e lucide fenestre,
E chiari fonti ancor di pura luce,
Da cui descende rio d'alta dolcezza,
Non come fiume di montagne alpestre.
E rote, e sfere, anzi celesti segni,
E soli da scacciar nebbia di sdegni.
S'illuminate voi l'oscura mente,
Occhi voi sete, occhi non già, ma lumi;
e 'l seren vostro, è 'l mio novo oriente,
E l'horror si dilegua, e l'ombra e i fumi
Fuggon, luci, da voi, luci serene,
Ch'accendete desio d'alti costumi.
Luci e lumi, il cui raggio al cor se 'n vene,
E 'n lui, come farfalla, arde la spene.

  • 1. «Sete specchi di gloria, in cui riluce»: poco diversamente il GUIDICCIONE: «Fidi specchi de l'alma, occhi lucenti». Oltre a ciò gli occhi fra le cose corporali sono come fra l'intellegibili la mente: ma la mente da san BASILIO e da gli altri è assomigliata a lo specchio. Dunque gli occhi ancora per metafora possono chiamarsi «specchi».
  • 3b. «lucide fenestre»: così il PETRARCA: «O alte, o belle, o lucide fenestre, | Onde la via d'entrare in sì bel corpo | Trovò colei che tutto il mondo attrista». E prima di lui LATTANTIO FIRMIANO: «Mors per sensoria tanquam per fenestras».
  • 4. «E chiari fonti ancor di pura luce»: assomiglia gli occhi al sole, il quale da poeti è detto fonte di luce.
  • 7-8. «E rote, e sfere, anzi celesti segni, | E soli da scacciar nebbia di sdegni»: «rote e sfere e soli» sono chiamati per la figura e per lo splendore. E questo luogo è da la difinitione primo fra tutti gli altri: benchè paia ch' insieme gli lodi da gli effetti in quelle parole «da scacciar nebbia di sdegni», metafora simile a quella usata da EURIPIDE nella Medea«νέφος οἰμωγῆς».
  • 9-10. «S'illuminate voi l'oscura mente, | Occhi voi sete, occhi non già, ma lumi»: dopo il luogo de la defintione, usa l'altro da l'ethimologia o nota.
  • 11. «E l'horror si dilegua, e l'ombra e i fumi»: luogo da gli effetti.
  • 16. «E 'n lui, come farfalla, arde la spene»: luogo del simile.

XIII

Scherza intorno al nome de la sua Donna.

Donna, sovra tutto altro a voi conviensi,
Se LUCE e RETI suona, il vostro nome,
perchè m'abbaglio a lo splendor del viso
E caggio poi con gli abbagliati sensi
Al dolce laccio, e da le bionde chiome
Legato sono, e da la man conquiso,
Che basta a la vittoria inerme e nuda,
Più bella e casta, ov'è men fera e cruda.

  • 1a. «Donna, sovra»: seguendo l'opinione di Cratilo dice che 'l nome di Lucretia è conveniente a la sua Donna e dimostra le cagioni de la convenienza, dividendo il nome in due parti co'1 difetto d'una lettera solamente; e l'una vuol che derivi da «luce», l'altra da «retia», parola che fra' Latini significa «reti». Rende poi la cagione perchè ella habbia preso il nome da la luce, e da le reti, lasciando da parte tutto quello che si potesse dire altramente interpretando questo nome, col derivarlo dal nome Lucrum, che fra' Latini significa guadagno, o dal nome Lucus che significa bosco sacrato, tutto che questo sia anch'egli derivato dal nome «luce». I misteri più secreti co' quali si fanno partorire i nomi, sono lasciati adietro ne la nostra interpretatione, come propria di GIULIO CAMILLO, o commune di coloro c'hanno seguitata la dottrina de gli Hebrei.

XIV

Descrive maravigliosamente i miracoli che fa la sua Donna con la sua bellezza, per la quale tutti i dolori si convertono in piacere e l'altre passioni nel suo contrario.

Se mi doglio talhor, ch'in van io tento
D'alzar verso le stelle un bel desio,
Penso: - Piace a Madonna il dolor mio, -
4Però d'ogni mia doglia io son contento.
E se l'acerba morte allhor pavento,
Dico: - Non è, se vuole, il fin sì rio, -
Tal che del suo voler son vago anch'io
8E chiamo il mio destino e tardo e lento.
Non cresce il male, anzi il contrario aviene,
S'ella raddoppia l'amorosa piaga
11E sana l'alma con sue dolci pene.
Miracolo è maggior che d'arte maga:
Trasformar duolo e tema in gioia e spene,
14E dar salute, ove più forte impiaga.

  • 3-4. «Penso: Piace a Madonna il dolor mio, | Però d'ogni mia doglia io son contento»: dimostra come il piacer nasca dal dolore: perchè dolendosi di non poter amar la sua Donna così altamente come conviene, e piacendo a lei questo dolore, si compiace di tutto ciò ch'a lei piace e del suo dolore medesimo. ARISTOTELE nel primo de la Fisica, insegna come un contrario nasca da l'altro, o dopo l'altro. PLATONE nel dialogo Dell'immortalità de l'anima, introduce Socrate condannato a morte a raccontar un picciolo apologo, nel quale dice che non potendo gli Iddij congiungere insieme queste due nature così contrarie, com'è quella del piacere e del dolore, le congiunsero almeno ne le loro estremità, laonde suole avenire il più delle volte, che l'estremo del riso assomiglia il pianto.
  • 5-6. «E se l'acerba morte allhor pavento, | Dico: Non è, se vuole, il fin sì rio»: nel medesimo modo mostra il Poeta come il timor de la morte si converta in desiderio. Ne l'istesso concetto si legge ne gli Asolani del BEMBO una leggiadrissima poesia: «Quando io penso al martire | Amor, che tu mi dai gravoso, e forte, | Corro per gire a morte, | Così credendo i miei dolor ferire. | Ma poich'io giungo al passo, | Ch'è porto in questo mar, d'ogni tormento, | Tanto piacer ne sento, | Che l'alma si rinforza, ond'io nol passo».
  • 9. «Non cresce il male, anzi il contrario aviene»: mostra la medesima mutatione ne' contrari da l'infermità, ne la salute.
  • 11. «E sana l'alma con sue dolci pene»: le pene sono medicamenti, come si raccoglie dal Gorgia di PLATONE.

XV

Loda gli occhi de la sua Donna, dicendo che son di purissimo lume come il cielo, la cui fiamma non arde e non consuma, e mossi da Amore come da loro intelligenza.

Del puro lume, onde i celesti giri
Fece, e 'l sole e le stelle il Mastro eterno,
Formò i vostri occhi ancora, et al governo
4Vi pose Amor perchè gli informi e giri.
E solo un raggio che di lor si miri,
Lunge sgombra da noi la notte e 'l verno
De gli affetti terreni, e 'l foco interno
8Di leggiadri v'accende alti desiri.
La fiamma fra gli spirti a lei sembianti
E non consuma i nostri cori o sface,
11Ben che purghi le voglie impure e miste.
Non è tema, o dolor, che mai n'attriste,
Serena è come voi la nostra pace,
14E son pianti di gioia i nostri pianti.

  • 1a. «Del puro lume»: gli occhi, come vuole ARISTOTELE, sono di natura d'acqua, e ciò era necessario per ricever le specie de le cose sensibili, dovendosi far la vista per cotal ricevimento, altri portarono opinione che ne la vista si mandassero fuori i raggi. E, come dicono, «Visus fieret per extromissionem radiorum». E tra gli altri DEMOCRITO estimò che gli occhi fossero di natura di fuoco, avendo risguardo ai raggi. Questa opinione fu seguita da' poeti: ma il Poeta dice che se gli occhi de la sua donna sono di fuoco, non è di questo fuoco elementare, ma di quel celeste, il quale è purissimo.
  • 3b-4. «et al governo | Impose Amor perchè gli informi e giri»: pone Amore ne gli occhi de la sua Donna, come una intelligenza, e tocca l'opinione d'alcuni filosofi che l'intelligentie «Non solum assistent, sed informent».
  • 5. «E solo un raggio che di lor si miri»: paragona gli occhi al sole da gli effetti che fanno ne gli animi nostri di scaldare e d'illuminare.
  • 9. «La fiamma fa gli spirti a lei sembianti»: cioè sottili e chiari et ardenti, havendo risguardo a quel verso di PETRARCA «Nè de l'ardente spirto».
  • 10. «E non consuma il nostro core o sface»: è proprietà del fuoco celeste, il quale è sommità de l'altro, come dichiara SIMPLICIO ne' libri del Cielo.
  • 14. «E son pianti di gioia i nostri pianti»: i nostri pianti nascono d'allegrezza, nè sono amari come le lagrime prodotte dal dolore, per testimonianza de' medici e del sig[nor] LORENZO DE' MEDICI.

XVI

Loda il petto de la sua Donna

Quella candida via sparsa di stelle
Che 'n ciel gli Dei ne la gran reggia adduce,
Men chiara assai di questa a me riluce,
4Che guida pur l'alme di gloria ancelle.
Per questa, ad altra reggia, a vie più belle
Viste, il desio trapassa, Amor è duce,
E di ciò ch'al pensier al fin traluce,
8Vuol che securo fra me sol favelle.
Gran cose il cor ne dice, e s'alcun suono
Fuor se n'intende, è da' sospir confuso,
11Ma non tacciono in tanto i vaghi sguardi.
E paion dirli: - Ahi, qual ventura o dono,
Quello ch'a te non è coperto e chiuso,
14Rivela a noi, mentre n'avampi et ardi. -

  • [1]. La via Lattea, che da Greci è detta Galassia, come piace ad ARISTOTELE, una impressione de l'aria, generata da l'esshalatione calda e secca. GIO[VANNI] GRAMMATICO e DAMASCIO et altri filosofi portarono più tosto opinione ch'ella fosse un'apparenza del cielo nata da lo splendor de le stelle che sono più spesse in quella parte. Comunque sia, i poeti favoleggiando dissero che Fetonte uscendo dal zodiaco per lo spavento de le fiere e de' mostri che in quello si vedevano, accendesse quella parte del cielo in guisa che vi rimase perpetuamente il segno de l'incendio. La qual opinione tocca DANTE, ove egli dice: «Quando Fetonte abbandonò li freni». OVIDIO particolarmente nel primo de le sue Metamorfosi, narra come gli Iddii per questa candida e maravigliosa strada sogliono andare a la regia del cielo, ne la quale si ragunano a concilio. Il Poeta paragona questa via a quella per la quale è guidato da la sua Donna.
  • 5-6a. «Per questa, ad altra reggia, a vie più belle | Viste»: cioè a gli intellettuali regni et a la contemplatione de le cose intelliggibili.
  • 6b. «il desio trapassa»: il desiderio de la mente che propriamente è detto volontà.
  • 7-8. «E di ciò ch'al pensiero al fin traluce, | Vuol che securo fra me sol favelle»: il pensiero è il parlar de l'anima, del quale è imitatione questo parlare esteriore, come afferma PLOTINO. Et PETRARCA di questo ragionamento del pensier disse: «Soleano i miei pensier soavemente | Di loro obietto ragionare insieme».
  • 11. «Ma non tacciono in tanto i vaghi sguardi»: «Sola la vista del mio cor non tace».

XVII

Loda la gola de la sua Donna.

Tra 'l bianco viso, e 'l molle e casto petto,
Veggio spirar la calda e bianca neve,
E dolce e vaga, onde tra spatio breve
4Riman lo sguardo dal piacer astretto.
E s'egli mai trapassa ad altro obietto,
Là dove lungo Amore ei sugge e beve,
E dove caro premio al fin si deve
8Ch'adempia le sue gratie, e 'l mio diletto,
Cupidamente hor quinci riede, hor quindi,
A rimirar come il natio candore,
11Dal candor peregrin sia fatto adorno.
- E mandino a te (dico), Arabi et Indi,
Pregiate conche, e dal tuo novo honore
14Perdan le perle, con lor dolce scorno -.

  • 1. «Tra 'l bianco viso, e 'l molle e casto petto»: descrive a guisa di geografo i confini de la gola, la quale egli non nomina per proprio nome, perchè questa voce fu schifata dal PETRARCA e da gli altri più gentili poeti.
  • 2b. «sì calda e bianca neve»: «E calda neve il volto» disse il PETRARCA, figura usitissima fra' Toscani, ne la quale s'implica contraditione tra l'aggiunto e 'l nome a cui s'aggiunge, come in quegli altri: «E dannoso guadagno, et util danno | E gradi ove più scende chi più sale, | Stanco riposo, e riposato affanno, | Chiaro disnore, e gloria oscura e nigra, | Perfida lealtate, e fido inganno». Questa figura dal poeta e da l'oratore è ricevuta per ornamento, dal dialettico altrimenti è considerata, come la considera ARISTOTELE nel secondo libro de l'Interpretatione. Imperochè, quando ne l'aggiunto è qualche cosa de gli opposti la qual sia seguita da la contraditione, non è vero, ma falso quel che si dice: come il dire l'uomo morto, che non è più huomo. Parimente la neve calda non è neve, o [la] neve animata, come disse DANTE: [d.].
  • 5-7a. «E s'egli mai trapassa ad altro obietto, | Là dove lungo amore ei sugge o beve | Ne la bocca e negli occhi»: e s'imita quel luogo di VIRGILIO: «Et longum oculis bibebat Amorem».
  • 7. «E dove caro premio al fin si deve»: ne gli occhi parimente, come s'è detto di sopra ne l'Amoroso dialogo.
  • [10-11]. Per «natio candore» intende la candidezza natural de la gola. Per «candor peregrin», quel de le perle, de le quali la Donna celebrata portava il monile.
  • 12. «E mandino a te, dico, Arabi et Indi»: dimostra l'eccellenza de la Donna, e la stima che di lei s'è fatta.
  • 14. «Perdan le perle»: così il PETRARCA «La 've il sol perde non pur l'ombra e l'aura».

XVIII

Rende la cagione perchè la sua Donna andasse vestita di bianco e d'incarnato.

Bella donna i colori, ond'ella vuole
Gli interni affetti dimostrar talhora,
Prende, o da verde suol, che più s'infiora
4Di candidi ligustri e di viole,
O da vel che dipinge ad Iri il Sole,
O dal bel manto de la vaga Aurora,
E, dal ceruleo mar, che si colora,
8L'essempio spesso ella pigliar ne suole.
Da la terra e dal cielo, over da l'onde,
Non gli prendete voi, ma più sembianti
11Sono i colori a sì leggiadre membra.
Forse sdegnando haverne essempio altronde,
Così mostrar volete a' vaghi amanti
14Che degno è sol di voi, quel che v'assembra.

  • 1-2. «Bella Donna i colori, ond'ella vuole | Gli interni affetti dimostrar talhora»: ha risguardo a que' versi del PETRARCA «Se 'l pensier che mi strugge, | Com'è pungente e saldo, | Cosi vestisse d'un color conforme» et a quegli altri: «Certo, cristallo, o fonte | Non mostrò mai di fuore | Nascosto altro colore, | che l'alma sconsolata assai non mostri | Più chiari i pensier nostri». Perchè gli affetti, e le passioni de l'animo si dimostrano co' vari colori. Lande essendo i pensieri de la sua Donna vaghi e giovenili, dovevano manifestarsi con habiti de' colori somiglianti. E propone l'imitatione di quattro cose vaghissime: prima de colori che mostra la terra ne la primavera quando è vestita d'herbe e di fiori; poi i colori de l'arco celeste, che altrimenti è detta Iride, la qual nasce per reflessione de raggi del sole ne le nubi; ultimamente i colori del mare e de l'Aurora; e ne la vaghezza è simile ad OVIDIO, il quale ne' libri de l'Arte de l'amare parla de colori de le vesti, in que' leggiadrissimi versi: «Aeris ecce color, tum cum sine nubibus aer, | Nec tepidus pluvias concitat Auster aquas. | Ecce tibi similes, qui quondam Phrixon et Hellen | Diceris Inois eripuisse dolis. | Hic undas imitatur habet quoque nomen ab undis; | Crediderim nimphas hac ego veste regi: | Ille crocum simulat: Croceo velarur amictu | Roscida luciferos cum dea reagir equos.: | Hic Paphias myrtos, hie purpureos amerhistos, | Albenese rosas, Threiciamve gruem: | Nec plandes Amarilli tuae, nec amigdala desunt: | Et sua velleribus nomina cera dedit». Ma diverso è il Poeta da OVIDIO, o più tosto la sua Donna da l'ammaestrate da lui in que versi che seguono «Pulla recer niveas, Briseida pulla decebat, | Cum rapta est, pulla tum quoque, veste Fuit. | Alba decet fuscas, albis Cephei placebas, | Sic tibi vestitae pressa Seriphos erat». Ma ne l'altre si considera l'artificio del vestire, in questa l'alterezza e 'l disprezzo de l'arte e la confidenza de la sua propria e natural bellezza. Dimostra adunque il Poeta come la sua Donna, sdegnando tutte queste similitudini, non si veste d'altri colori che di quelli che son propri e naturali de le sue carni, cioè il bianco e 'l porporino, forse per darci in questa guisa a dividere ch'ella non ha bisogno d'alcuno ornamento, o d'alcuna vaghezza esteriore. Ma potrebbe alcuno affermare a l'incontro, ch'ella s'assimigli ne' colori all'aurora, la qual da' poeti è descritta bianca e purpurea: ma costui non ragiona de colori de l'aurora intieramente, perchè più avicinandosi il sole, il purpureo si converte in rancio. Laonde disse DANTE de le sue guancie «Per troppa etate divenivan rance». Et HOMERO, et il TRISSINO a sua imitatione, la descrisse «Con la fronte di rose, e co' piè d'oro». Ma il PETRARCA altrimenti «Con la fronte di rose, e co' crin d'oro». Ma l'uno ci vuole descriver le mutationi che veggiamo farsi ne l'oriente per la vicinanza del sole. L'altro porci innanzi a gli occhi la bellezza d'una vaga giovine somigliante a la sua Laura.

XIX

Loda la bellezza de la sua Donna, e particolarmente quella de la bocca.

Bella è la Donna mia, se del bel crine
L'oro al vento ondeggiar avien ch'io miri;
Bella, se volger gli occhi in vaghi giri,
4O le rose fiorir tra neve e brine.
E bella, dove poggi, ove s'inchine,
Dov'orgoglio l'inaspra a' miei desiri:
Belli sono i suoi sdegni, e que' martiri
8Che mi fan degno d'honorato fine.
Ma quella, ch'apre un dolce labro e serra,
Porta de' bei rubin, sì dolcemente,
11È beltà sovra ogn'altra altera et alma.
Porta gentil de la prigion de l'alma,
Onde i messi d'Amor escon sovente,
14E portan dolce pace, e dolce guerra.

  • 1a. «Bella è la Donna mia»: mostra che la sua Donna è bella in tutti i modi, et ha belle tutte le parti, e che son belli parimente i suoi tormenti, cioè le sue amorose passioni, essendo per così bella cagione.
  • 9-10. «Ma quella, ch'apre un dolce labro, e serra, | Porta di bei rubin»: chiama la bocca porta di rubini, havendo risguardo al vermiglio colore de le labra. Il PETRARCA l'ebbe a la bianchezza de' denti, quando egli disse: «Muri eran d'alabastro, e tetto d'oro, | D'avorio uscio, e fenestre di zaffiro, | Onde il primo sospiro | Mi giunse al core, e giungerà l'estremo». Perciochè in questo suo maraviglioso edificio, ch'egli allegoricamente descrive, la bocca era l'uscio e gli occhi le fenestre. FAVORINO similmente appresso STOBEO assomiglia la bocca a le porte in quelle parole «Quid enim aliud faciunt, qui ora mutuo tangunt quam animas coniungunt? Simodo corporis sui terminum transire possent, quod cum nequeant circa corpus veluti fores astare supplices videntur».
  • 12. «Porta gentil de la prigion de l'alma»: altri chiamarono il corpo «sepolcro», perciochè σῶμα fu detto quasi σῆμα, altri «prigione», fra' quali il PETRARCA: «Aprasi la prigione ov'io son chiuso». Et altrove «Ne la bella prigione ond'hora è sciolta, | Poco era stata ancor l'alma gentile».
  • 13-14. «Onde i messi d'Amor escon sovente | E portan dolce pace, e dolce guerra»: simili a que' versi tersi del PETRARCA «Indi i messi d'Amore armati usciro | Con saette e con foco, ond'io di loro, | Coronati d'alloro, | Pur come hor forse ripensando tremo».

XX

Descrive che 'l pensiero gli descrive la bellezza de la sua Donna e s'unisce con lei in guisa che gliela rende sempre presente.

De la vostra bellezza il mio pensiero
Vago, men bello stima ogn'altro obietto;
E se di mille mai finge un aspetto,
4Per agguagliarlo a voi, non giunge al vero.
Ma se l'Idolo vostro ei forma intero,
Prende da sì bell'opra in sé diletto;
E 'n lui pur giunge forze, al primo affetto,
8La nova maraviglia, e 'l magistero.
Fermo è dunque d'amarvi, e se ben v'ama
In se stesso, et in voi non si divide,
11Ma con voi ne l'amar s'unisce in guisa,
Che non sete da lui giamai divisa
Per tempo o loco; e mentre ei spera e brama,
14Vi mira, e mirerà, qual prima ei vide.

  • [1]. Assomiglia il pensiero al pittore convenevolmente, perchè la fantasia o la memoria, come dice ARISTOTELE, è simile ad una pittura ne la quale se per vecchiezza alcuna volta si cancellano l'imagini, bisogna rinovarle. San BASILIO similmente assomiglia l'intelletto al pittore, altri a lo scrittore, il PETRARCA a questo e a quello, come in que' versi «C'haver dentro a lui parme | Un che Madonna sempre | Dipinge, e di lui parla; | A voler poi ritrarla, | Per me non basto; e par ch'io me ne stempre». Et in quegli altri «Ma molte cose ne la mente scritte | Vo trapassando, e sol d'alcune parlo». E per mente in questo luogo intende la materiale, o la memoria, ne la quale scrive l'intelletto agente.
  • 3-4. «E se di mille mai finge un aspetto | Per agguagliarlo a voi, non giunge al vero»: Zeusi da cinque donne prese l'essempio in Crotone per formar la sua imagine, ma il pensiero da mille; nondimeno confessa ch'egli sia vinto nel suo magistero.
  • 5a. «Ma se l'Idolo vostro»: si compiace de la bellezza de la sua Donna come d'opera propria e d'imaginatione fatta da lui.
  • 9a. «Fermo è dunque d'amarvi»: perchè l'amore è habito, come dice san TOMASO. Et in questo luogo il Poeta non si numera fra gli incontinenti, come negli altri. [9b-10a] E se ben v'ama in se stesso, et muor in se stesso, ciò è ne imaginatione intellettuale ch'egli ha formata.
  • 10b. «et in voi»: ne la vostra propria bellezza non si divide, cioè non ama sensualmente, come si dichiarerà ne' Dialoghi delle Quistioni Amorose.
  • 11. «Ma con voi ne l'amar s'unisce in guisa»: l'amore intellettuale segue la cognitione de l'intelletto, ma de l'intelletto e de la cosa intesa, o de la specie intelligibile, come di ARISTOTELE nel terzo de l'Anima«Fit magis unum quam ex materia, et forma». Grandissima visione adunque è quella tra l'intelletto e la forma, ch'egli intende non minore tra la volontà e la cosa amata ne l'amore intellettuale: laonde si può chiamar più tosto desiderio d'unità, che d'unione, come si discorre altrove.

XXI

Parla con la sua Donna ne la sua partita dicendo che se la Fortuna gl'impedisce di seguitarla, non può impedire il suo pensiero, il qual la segue e la vede per tutto.

Donna, crudel Fortuna a me ben vieta
Seguirvi, e 'n queste sponde hor mi ritiene;
Ma 'l pronto mio pensier non è chi frene,
4Che sol riposa quanto in voi s'acqueta.
Questo vi scorge hora pensosa, hor lieta,
Hor solcar l'onde, hora segnar l'arene,
Et hora piagge, et hor campagne amene
8Su 'l carro sì, com'ei corresse a meta.
E nel materno albergo ancor vi mira
Far soavi accoglienze, e 'n bel sembiante
11Partir fra le compagne i baci e 'l riso.
Poi, quasi messaggier che porti aviso,
Riede, e ferma nel cor lo spirto errante,
14Tal che di dolce invidia egli sospira.

  • 1a. «Donna, crudel Fortuna»: la Fortuna può far violenza al corpo, ma non a l'animo, perch' ella ha signoria sopra l'uno, non sopra l'altro.
  • 4. «Che sol riposa quanto in voi s'acqueta»: il pensiero, detto da' Latini cogitatio, è moto de l'animo e s'acqueta ne l'obietto.
  • 5. «Questo vi scorge hora pensosa, hor lieta»: descrive il viaggio de la sua Donna, et insieme l'operationi del suo pensiero.
  • 8. «Su 'l carro sì, com'ei corresse a meta»: s'era partita la sua Donna in barca, e poi era montata in cocchio per andare a Padova, là donde parea che s'allontanasse dal suo fine e quasi da la meta. Però accenna quelle parole d'HORATIO ne la prima oda a Mecenate: «Metaque fervidis evitata rotis». O pur l'usanza de gli Antichi ne' lor giuochi, ch'era di correre intorno a le mete con le carrette.
  • 12. «Poi, quasi messaggier che porti aviso»: assomiglia il pensiero al messaggio, come il PETRARCA l'assomiglia al segretario, anzi pur al secretario divenuto messaggiero, dicendo «Amor mi manda quel dolce pensiero, | Che secretario antico è fra noi due».
  • 13. «Riede, e ferma nel cor lo spirto errante»: «errante», cioè vago, come se 'l pensiero confortandolo fosse cagione ch'egli non morisse, o tramortisse.

XXII

Ragiona co 'l suo pensiero, pregandolo che cessi da le sue operationi e che consenta che 'l sogno gli rappresenti la sua Donna.

Pensier, che mentre di formarmi tenti
L'amato volto, e come sai l'adorni,
Tutti da l'opre lor togli e distorni
4Gli spiriti lassi al tuo servitio intenti.
Dal tuo lavoro homai cessa, e consenti
Che 'l cor s'acqueti, e 'l sonno a me ritorni,
Prima che Febo, homai vicino, aggiorni
8Queste ombre oscure co' bei raggi ardenti.
Deh, non sai tu, che più sembiante al vero,
Sovente il sogno il finge e me 'l colora,
11E l'imagine ha pur voce soave?
Ma tu più sempre rigido e severo
Il figuri a la mente, et ei talhora
14La ritragge al mio cor pietosa e grave.

  • [1]. Il pensiero in tutti i tempi fa le sue operationi, ma più ne la notte che ne gli altri. Però il MOLZA disse: «Alto silentio, ch'a pensar mi tiri | In mezo de notturni e foschi horrori, | Cose, onde gli altri e me medesmo honori, | E viva dopo morte, et ami et spiri». Et in quella parte de la notte che i Latini chiamano Concubia, gli amanti scompagnati sogliono affettuosamente darsi in preda al pensier de' loro amori, laonde, dopo la descrittione de la meza notte, seguita VIRGILIO nel Quarto de l'Eneide la sua narratione con queste parole: «An non infelix animi phoenissa, nec unquam Solvitur insomnos, oculisque aut pectore noctem | Accipit, ingeminant curae rursusque resurgens | Saevit Amor». Però il Poeta nel medesimo tempo prega il suo pensiero che non impedisca il sonno e non desvij gli spiriti da l'operationi naturali.
  • 5a. «Dal tuo lavoro»: cioè dal formar l'imaginatione de la sua Donna.
  • 6a. «Che 'l cor s'acqueti»: perch'il sonno il quale, come dice EUSTRATIO del primo de l'Ethica, è otio de l'anima, lega il senso comune nel cuore, laonde cessano l'operationi di tutti i sentimenti esteriori.
  • 7. «Prima che Febo, homai vicino»: dimostra che ne' pensieri ha consumata tutta la notte, laonde era homai vicina l'alba.
  • 7b-8. «aggiorni | Queste ombre oscure»: usa questo verbo aggiorna in significatione attiva, com'usò il BEMBO «e 'l sol che le mie notti aggiorna».
  • 9. «Deh, non sai tu, che più sembiante al vero»: paragona l'operationi del pensiero volontarie con quelle del sogno che son naturali: bench'alcuni sogni siano demonici, come dice ARISTOTELE, o divini, i quali sogliono apparirci.

XXIII

Dice che essendo vinto dal dolore, gli apparve in sogno la sua Donna e lo racconsolò.

Giacea la mia virtù vinta e smarrita
Nel duol ch'è sempre in sua ragion più forte,
Quando, pietosa di sì dura sorte,
4Venne in sogno Madonna a darle aita.
E ristorò gli spirti, e 'n me sopita
La doglia a nova speme aprì le porte;
E così ne l'imagine di morte
8Trovò l'egro mio cor salute e vita.
Ella, volgendo gli occhi in dolci giri,
Parea che mi dicesse: - A che pur tanto,
11O mio fedel, t'affligi e ti consumi?
E per che non fai tregua a' tuoi sospiri,
e 'n queste amate luci asciughi il pianto?
14Speri forse d'haver più fidi lumi?

  • 1a. «Giacea la mia virtù»: «Giacer» si prende sempre in cattiva parte appresso il PETRARCA, come osserva l'oppositore del Caro ne la Replica. Qui si prende per argomento di soverchia debolezza. I medici dicono «giacere la virtù».
  • 2. «Nel duol ch'è sempre in sua ragion più forte»: il PETRARCA disse: «e da la morte in sua ragion sì rea», quasi alcuno sia reo usando ragione: volle forse intender de la morte naturale, che si distingue da la violenta: «Aequo tamen pulsat pede | Regum turres, et pauperum tabernas | Beate Sesti». Et questa equità è la sua ragione, come accennò il PETRARCA in un altro luogo, dicendo «Chi le disaguaglianze nostre adegua». Ma par che sia più tosto una sorte di giustitia correttiva, poi ch'ella non ha risguardo a' meriti de le persone. Il Poeta attribuì la ragione a la morte in un altro luogo, che si troverà appresso. In questo, al dolore, volendo significare che 'l suo dolore non fosse violento, ma ragionevole. Gli Stoici portarono opinione ch'ogni dolore fosse «malus, et praeter naturam». Ma i Peripatetici, e particolarmente ALESSANDRO, estimavano altrimenti, perch'alcuni dolori sono convenienti e ragionevoli, come il dolersi de' vitij de l'amico, e de la morte del padre. Si potrebbe tra questi annoverar la penitenza, ch'è dolor de' propri peccati. Il Poeta si dolea per l'infermità de la sua Donna, e perch'era lontano da lei. Però questo dolore era ragionevole, ma forte ne l'usar la sua ragione.
  • 5b-6a. «e 'n me sopita | La doglia»: metafora presa dal fuoco, che resta occulto sotto le ceneri.
  • 7. «E così ne l'imagine di morte»: il PETRARCA chiama il sonno parente de la morte, VERGILIO similissimo de la morte. Et a questa imitatione disse il Poeta [7] «E così ne l'imagine di morte».
  • 11a. «O mio fedel»: [così] il PETRARCA: «Fedel mio caro [...] | [...] | dice, e cose altre d'arrestare il Sole».
  • 12. «E per che non fai tregua a' tuoi sospiri»: elocutione del PETRARCA similmente: «Non ho mai tregua di sospir co 'l sole».

XXIV

Ne l'istesso soggetto.

Onde, per consolarne i miei dolori,
Vieni, o sogno pietoso, al mio lamento,
Tal ch'al tuo dolce inganno homai consento,
4Cinto di vaghe imagini ed errori?
Le care gemme, e i pretiosi odori
Dove furasti, e i raggi e l'aure e 'l vento,
Per farmi nel languire almeno contento
8Pur come un de le Gratie, o de gli Amori?
Forse involasti al ciel tua luce, e 'l sole
Teco m'apparve? E dal fiorito grembo
11Parte sentia spirar gigli e viole;
E sentia quasi fiamma ch'al ciel vole,
La bella mano, e quasi fresco nembo
14Sospiri, e soavissime parole.

  • 1-2a. «Onde, per consolarne i miei dolori, | Vieni, o sogno pietoso»: destosi il TASSO, parla co 'l sogno che l'ha consolato. Onde ciò è da la porta di corno, da la quale vengono i sogni veri, o da quella d'avorio, da cui si partono i falsi, come si legge in HOMERO et in VERGILIO, che nel sesto de l'Eneide volle imitarlo: «Sunt gemine somni portae quarum altera fertur | Cornea, qua veris facilis datur exitas umbris: | Atera candenti perfecto miter elephanto. | Sed falsa ad Caelum mittunt insomnia manes».
  • 3. «Tal ch'al tuo dolce inganno homai consento»: mostra che sia uscito da la porta d'avolio, il quale è più denso del corno, laonde non è così trasparente, cioè da l'inganno de la sua Donna, la qual celava la verità sotto le sue parole, in guisa che non traspareva. Et ciò è più conveniente, perchè la porta d'avolio significa la bocca, sì come dice SERVIO, e quella di corno gli occhi. Imperochè non le cose vedute, ma l'udite e le promesse erano state cagione di questo sogno ingannevole.
  • 5-6a. «Le care gemme e i pretiosi odori | Dove furasti»: detto con molta vaghezza.
  • 7. «Per farmi nel languire almen contento»: ad imitatione del PETRARCA «Beato in sogno, e di languir contento», il quale in questa guisa burlò ARISTOTELE, che nel primo de la Filosofia de' costumi disse che gli infelici da felici non erano differenti, ne la metà de la vita, la quale è quella che si dorme, o più tosto si rise de la sua vera infelicità, la quale non havea altra consolatione, che quella de l'imaginata felicità. Forse il sogno è questa vita presente, in cui non è vera felicità, nè vera contentezza.

XXV

Si lamenta con Amore che la sua Donna habbia preso marito e la prega che non si sdegni d'esser amata e celebrata.

Amor, tu vedi, e non hai duolo o sdegno,
Ch'al giogo altrui Madonna il collo inchina,
Anzi ogni tua ragion da te si cede.
Altri ha pur fatto, oimé quasi rapina
5Del mio dolce tesoro; hor qual può degno
Premio agguagliar la mia costante fede?
Qual più sperar ne lice ampia mercede
Da la tua ingiusta man, s'in un sol punto
Hai le ricchezze tue diffuse e sparte?
10Anzi, pur chiuse in parte,
Ove un sol gode ogni tuo ben congiunto.
Bel folle è chi non parte
Homai lunge da te, che tu non puoi
Pascer, se non di furto, i servi tuoi.
15Ecco già dal tuo regno il piè rivolgo,
Regno crudo e 'nfelice; ecco io già lasso
Qui le ceneri sparte, e 'l foco spento.
Ma tu mi segui, e mi raggiungi, ahi lasso,
Mentre dal mal sofferto in van mi dolgo,
20Ch'ogni corso al tuo volo è pigro e lento.
Già via più calde in sen le fiamme i' sento,
E via più gravi al piè lacci e ritegni;
E come a servo fuggitivo e 'ngrato,
Qui, sotto al manco lato,
25D'ardenti note il cor m'imprimi e 'l segni
Del nome a forza amato;
E perch'arroge al duol ch'è in me sì forte,
Formi al pensier ciò che più noia apporte.
Ch'io scorgo in riva al Po Letitia e Pace
30Scherzar con Himeneo, che 'n dolce suono
Chiama la turba a' suoi diletti intesa.
Liete danze veggio io, che per sono
Funebri pompe, et una istessa face
Ne l'altrui nozze e nel mio rogo accesa.
35E come Aurora in oriente ascesa,
Donna apparir, che vergognosa in atto
I rai de' suoi begli occhi a sé raccoglia,
E ch'altri un bacio toglia,
Pegno gentil del suo bel viso intatto;
40E i primi fior ne coglia,
Que', che già cinti d'amorose spine,
Crebber vermigli infra le molli brine.
Tu, ch'a que' fiori, Amor, d'intorno voli
Qual ape industre, e 'n lor ti pasci e cibi,
45E ne sei così vago e così parco,
Deh come puoi soffrir ch'altri delibi
Humor sì dolce e 'l caro mel t'involi?
Non hai tu da ferir saette ed arco?
Ben fosti pronto in saettarmi al varco
50All'hor che per vaghezza incauto venni
La' ve spirar tra le purpuree rose
Senij l'aure amorose;
E ben piaghe da te gravi io sostenni,
Ch'aperte e sanguinose
55Ancor dimostro a chi le stagni e chiuda,
Ma trovo chi l'inaspra ogn'hor piùanalo cruda.
Lasso, il pensier, ciò che dispiace e duole,
A l'alma inferma hor di ritrar fa prova,
E più s'interna in tante acerbe pene.
60Ecco la bella Donna, in cui sol trova
Sostegno il core, hor come vite suole
Che per se stessa caggia, altrui s'attiene.
Quale hedera negletta hor la mia spene
Giacer vedrassi, s'egli pur non lice
65Che s'appoggi a coler ch'un tronco abbraccia.
Ma tu ne le cui braccia
Cresce vite sì bella, arbor felice,
Poggia pur, nè ti spiaccia
Ch'augel canoro intorno a' vostri rami
70L'ombra sol goda, e più non speri o brami.
Nè la mia Donna, perchè scaldi il petto
Di novo amore, il nodo antico spezzi,
chè di vedermi al cor, già non l'increbbe;
Od essa, che l'avinse, essa lo spezzi,
75Però che homai disciorlo, in guisa è stretto,
Nè la man stessa, che l'ordio potrebbe.
E se pur, come volse, occulto crebbe
Il suo bel nome entro i miei versi accolto,
Quasi in fertil terreno arbor gentile.
80Hor seguirò mio stile,
Se non disdegna esser cantato e colto
Da la mia penna humile.
E d'Apollo ogni dono in me fia sparso
S'Amor de le sue gratie a me fu scarso.
85Canzon, sì l'alma è ne' tormenti avezza
Che, se ciò si concede, ella confida
Paga restar ne le miserie estreme.
Ma se di questa speme
Avien che 'l debil filo alcun recida,
90Deh, tronchi un colpo insieme,
Ch'io bramo e 'l chiedo, al viver mio lo stame
E l'amoroso mio duro legame.

  • 3. «Anzi ogni tua ragion da te si cede»: le ragioni d'Amore sono le sue leggi. Fra le quali è principalissima: «Amore a nullo amato amar perdona».
  • 5°. «Del mio dolce tesoro»: de la sua Donna. Così il PETRARCA: «Morte m'ha tolto il mio dolce tesoro».
  • 14. «Pascer, se non di furto, i servi tuoi»: chiama «furti» gli amorosi piaceri de gli amanti, havendo riguardo a quel detto di CATULLO: «Furtivos hominum vident Amores».
  • 23. «E com' a servo fuggitivo ingrato»: imita ANACREONTE, il qual disse: «Εν ἰχίοις μὲν ἴπποι | πυρὸς χαραγμ᾿ ἓχοισι | καὶ παρθίοις τις ἄνδρας | Εγνώρισεν τιάραις | ἐγὼ δε τοις ἐρῶντας | Ιδὼν επισαμ᾿ αθύς | Εχoισι γαρ τι λεπτὸν | φυχῇς ἔσω χάραγμα».
  • 30. «Scherzar con Himeneo»: Himeneo è Iddio de le nozze, figliuolo d'Urania, habitator di Parnaso, così chiamato da' Greci come Talassio da' Latini.
  • 33b. «et una istessa face»: perchè Himeneo si dipinge con la face.
  • 40. «E i primi fior ne coglia»: chiama «fiori» de l'Amore i baci, a differenza de frutti.
  • 44a. «Qual ape industre»: assomiglia Amore a l'ape, come prima havevan fatto i poeti greci.
  • 51-52. «Là've spirar tra le purpuree rose | Sentij l'aure amorose»: per «rose» intende le labra; per «aure amorose» le parole.
  • 61b-62. «hor come vite suole | Che per se stessa caggia, altrui s'attiene»: paragona la sua Donna a la vite, come fece CATULLO: «Ut vidua in nudo vitis, quae nascitur arvo, numquam se extollit, etc.».
  • 77-78a. «E se pur, come volse, occulto crebbe | Il suo bel nome»: imita HORATIO: «Crescit occulto Velut arbora evo | Fama Marcelli».

XXVI

Ragiona con Amore, andando a ritrovar la sua Donna

Amor, colei che verginella amai,
Doman credo veder novella sposa,
Simil, se non m'inganno, a colta rosa
4Che spieghi il seno aperto a' caldi rai.
Ma chi la colse non vedrò giamai,
Ch'al cor non geli l'anima gelosa;
E s'alcun foco di pietate ascosa
8Il ghiaccio può temprar, tu solo il sai.
Misero, et il là corro, ove rimiri
Fra le brine del volto e 'l bianco petto,
11Scherzar la man aversa a' miei desiri.
Hor, come esser potrà ch'io viva e spiri,
Se non m'accenna alcun pietoso affetto,
14Che non fian sempre vai i miei sospiri?

  • 3-4. «Simil, se non m'inganno, a colta rosa | Che spieghi il seno aperto a' caldi rai»: imita il Poeta parimente CATULLO, il quale assomiglia la Vergine al fiore del giardino, et la sposa a quel ch'è già colto, in que' versi: «Ut flos in septis secretus nascitur hortis | Ignotus pecoris».
  • 5a. «Ma chi la colse»: intende il marito.
  • 6. «Ch'al cor non geli l'anima gelosa»: il cuore è la sede, come dicono i filosofi, de l'anima nostra. Ma per la gelosia, ch'è una specie di timore, si agghiaccia o si raffreda il sangue ch'è intorno al cuore: «Frigidus [..] coit in precordia sanguis». ARISTOTELE ne' Problemi, rende la cagione perch'il sangue quando l'huom si vergogna corra al volto, o si sparga per le guancie, ma ne la temenza si ritiri al cuore. Ma questo effetto più chiaramente apparisce nel timor di morte, ch'in quest'altra specie di timore il qual è per la cosa amata. Nondimeno i poeti a la gelosia ancora attribuiscono il ghiaccio, come il PETRARCA: «Amor, ch'accende il cor d'ardente zelo, | Di gelata paura il tien costretto, | E qual sia più fa dubbio a l'intelletto, | La speranza, o 'l timor, la fiamma o 'l gelo. | Tremo al più caldo, ardo al più freddo cielo, | Tutto pien di paura, e di sospetto, | Pur come Donna in un vestire schietto | Celi un huom vivo, o sotto un bianco velo». Monsignor DA LA CASA similmente disse a la gelosia: «E mentre con la fiamma il gelo mesci | Tutto il regno d'Amor turbi e contristi».
  • 9. «Misero, et io là corro»: correa di notte per andar a vedere il suo male.
  • 13. «Se non m'accenna»: quasi i cenni bastino a gli amanti.

XXVII

Caminando di notte, prega le stelle che guidino il suo corso.

Io veggio in ciel scintillar le stelle
Oltre l'usato, e lampeggiar tremanti
Come ne' gli occhi de' cortesi amanti
4Noi rimiriam tal'hor vive facelle.
Aman forse là suso, o pur son elle
Pietose a' nostri affanni, a' nostri pianti,
Mentre scorgon le insidie, e i passi erranti
8Là dove altri d'Amor goda e favelle?
Cortesi luci, se Leandro in mare
O traviato peregrin foss'io,
11Non mi sareste di soccorso avare.
Così vi faccia il sol più belle e chiare,
Siate nel dubbio corso al desir mio
14Fide mie duci, e scorte amate e care.

  • 1-2. «Io veggio in cielo scintillar le stelle | Oltre l'usato, e lampeggiar tremanti»: de lo scintillar de le stelle rende cagione ARISTOTELE nel secondo de la Posteriore, e vuol che paia così per la distanza, per la quale tremano i raggi visuali. Ma la cagione che paiono scintillar oltre l'usato, può essere o amorosa imaginatione, o debolezza di vista, o refrattione, o rompimento, per così dire, de' raggi a gli specchi. Cioè a quelle minute stille, de le quali è sparsa l'aria ne le nubi, doppo la pioggia, come disse il PETRARCA: «Non vidi mai dopo notturna pioggia, | Gir per l'aere sereno stelle erranti | E fiammeggiar tra la rugiada e 'l gelo, | Ch'io non havessi i begli occhi davanti. E convenevolmente gli occhi sono paragonati a le stelle, perchè le stelle sono quasi occhi del cielo, come dissero i nostri poeti.
  • 5a. «Aman forse là suso»: ciò è detto per rispetto di Marte, di Febo, di Mercurio e de gli altri erranti, de l'amor de' quali favoleggiarono gli scrittori greci e latini.
  • 7. «Mentre scorgon l'insidie, e i passi erranti»: ha risguardo al luogo già citato di CATULLO: «Aut quam sydera multa, cum tacet nox, furtivus hominum vident Amores».
  • 9. «Cortesi luci, se Leandro in mare»: Leandro, giovene d'Abido, s'accese de l'amor di Hero, vergine di Sesto, e passava di notte quel breve spatio di mare, ch'è tra l'uno e l'altro luogo. Come disse DANTE «Ma l'Hellesponto, dove passò Serse | [...] | Per mareggiare in fra Sesto et Abido, | Tanto odio da Leandro non sofferse». La favola è descritta in lingua greca leggiadrissimamente da MUSEO, et in questa dal signor Bernardo TASSO, padre de l'Autore.

XVIII

Appressandosi a la sua Donna, dice a' suoi pensieri et a' suoi affanni che si partano da lui.

Fuggite egre mie cure, aspri martiri
Sotto il cui peso giacque oppresso il core,
Che per albergo hor mi destina Amore
4Di nova spene e di più bei desiri.
Sapete pur, che quando avien ch'io miri
Gli occhi infiammati di celeste ardore,
Non sostenete voi l'alto splendore,
8Nè 'l fiammeggiar di que' cortesi giri,
Quale stormo d'augei notturno e fosco,
Battendo l'ale inanzi al dì che torna,
11A rischiarar questa terrena chiostra.
E già, s'a certi segni il ver conosco,
Vicino è il Sol che le mie notti aggiorna,
14E veggio Amor che me l'addita e mostra.

  • 1-2. «Fuggite egre mie cure, aspri martiri | Sotto il cui peso giacque oppresso il core»: «Egre cure», dice il Poeta, perchè fanno gli huomini infermi, come «pallida mors».
  • 3-4a. «Che per albergo hor mi destina Amore | Di nova spene»: quasi ne l'amore habbia luogo il destino, ma non sempre, cioè non quando ripugna a l'appetito del senso, ma hora che mi lascio conducere ove gli piace.
  • 4b. «e di più bei desiri»: inganna se medesimo a guisa d'innamorato, quasi preponendo Amore a la Filosofia.
  • 5a. «Sapete pur»: perchè n'haveva fatta altra volta esperienza, laonde era lieto per la presenza de la sua Donna, e dolente per allontanarsene.
  • 9a. «Quale stormo»: paragona la sua Donna al sole e i suoi dolenti pensieri a gli uccelli notturni, i quali non aspettano la luce, volendo forse accennar la civetta uccello sacrato a Pallade, perch'egli fu sempre desiderosissimo di sapere.
  • 13-14. «Vicino è 'l Sol che le mie notti aggiorna, | E veggio Amor che me l'addita, e mostra»: il sole non ha bisogno alcuno d'esser mostrato a dito, perchè a tutti è manifesto per la sua chiarissima luce. Ma Amore tratta il Poeta da cieco, quasi stimandolo una civetta a que raggi. Et questo è uno scorno fattogli per disprezzo de la filosofia, overo ha risguardo al sole, che già comincia ad apparire. «addita»: come [13] «aggiorna», non si trova usata dal PETRARCA se non passivamente: «Che per cosa mirabile s'addita, | Chi vuol far d'Helicon nascer fiume». Il Poeta nondimeno l'usò attivamente ancora, come prima havea fatto DANTE: «Che questo, ch'io t'addito, | È miglior fabro del parlar materno».

XXIX

Dice che quando vede la sua Donna rimane così contento de la sua cortesia, che si scorda tutti i tormenti i quali ha sopportati per lei.

Veggio, quando tal vista Amor impetra,
Sovra l'uso mortal Madonna alzarsi,
Tal che rinchiude le gran fiamme ond'arsi
4Maraviglia, e per tema il cor impetra.
Tace la lingua allhor e 'l piè s'arretra,
E son muti sospiri accesi e sparsi;
Ma nel volto potrebbe ancor mirarsi
8L'affetto impresso quasi in bianca petra.
Ben essa il legge, e con soavi accenti
M'affida, e forse perchè ardisca e parle,
11Di sua divinità parte si spoglia.
Ma sì quello atto adempie ogni mia voglia,
Ch'io non ho che cercar, nè che narrarle,
14E per un riso oblio mille tormenti.

  • 1. «Veggio, quando tal vista» gareggia con SAFO, non traducendo, ma recando altre cose a l'incontro. I versi saffici son questi «Φαίνετεἱ μοι Κεῖνος ἴσος θεσιση | Εμμεν᾿ ἀνὴρ ὅστις ἐναντίον τοι | Ιζαν᾿ ει, καὶ πλασίον ἁδὺ φωνού- | σας ὑπακούει | […] | Καὶ γελώσας ἱμερόεν τό μοι τὰν | Καρδὶαν ἐν σήθεσιν εκ᾿ | ὅασεν, | Ως ἴδον δε, βρόγχον· ἐμοὶ γαῥ αὐδᾶς | Οὐδέν ἔθ᾿ ἥχει | Αλλὰ καμμ γλῶας ἔαγ᾿, αύδέ λεπτ᾿ | Αὐρικα κρῶ πῦρ ὑποδεδρόμακεν. | Ομμὰ τεασιν δι᾿ ἐδέν ὂρημι βομζεῦ- | σιν δ᾿ ἀκοαι μοι | Καθ δι᾿ ιδρὼς ψθχρὸς χέεται τρὸμος δέ Ε | Πᾶσαν αἱρεῖ χλωροτέρη δέ ποίας | Εμμί· τεθναν᾿ αι δι᾿ ολίγου δέοισα, | Φαινομαι ἄπνοισ·». Ne' quali [versi] SAFO agguaglia ad un Dio, anzi vuol che superi gli Iddij, s'è lecito dirlo, colui che ti siede a l'incontra e ti riguarda e t'ascolta. Dapoi quasi dimenticatasi d'haverlo fatto felice come un Dio, il fa misero et infermo d'amorosa infermità, come fece parimenti CATULLO: «Ille mi par esse Deo videtur. | Ille si fas est, superare Divos. | Qui sedens adversus identidem te | Spectat, et audit, | Dulce ridentem: misero quod omnes | Eripit sensus mihi, etc.». Ecco come subito per un riso diviene misero d'Iddio. Ma il Poeta [14] «per un riso oblia mille tormenti», e paragonando la sua Donna a le cose immortali et divine, e se stesso a gli infermi, numera i segni de l'infermità, lo stupore, l'ardore, la pallidezza, l'impedimento della lingua, o 'l silentio. Ma s'assomiglia nondimeno a quegli infermi, che ricuperano la salute, in que' versi: [12-13]«Ma sì quello atto adempie ogni mia voglia | Ch'io non ho che cercar»: imperochè sana è quell'anima che più non desidera. Di questa infermità di Safo, simile a quella d'Antioco, s'avide il buon filosofo PLUTARCO, medico de gli animi, quando egli disse: «Sapphica illa ei contigerunt, vocis suppressio. Haesitatio stupor expallescentia».

XXX

Chiede, quasi maravigliando, di quel che sia la bellezza; e mostra di non saperlo, ma di sentirne solo gli effetti.

Questa rara bellezza, opra è de l'alma
Che vi fa così bella, e 'n voi traluce
Qual da puro cristallo accesa luce?
4È sua nobil vittoria, e quasi palma?
O gloria od arte, e magistero è d'alma
Natura? O don celeste, o raggio e duce
Ch'al vero Sole, onde partì, conduce,
8Et aggravar no 'l può terrena salma?
Le sembianze, i pensier, gli alti costumi
Tutti paion celesti; e s'io n'avampo
11Non par ch'indi mi strugga e mi distempre.
Lontano io gelo, et ombre oscure e fumi
Par ch'io rimiri; in così dolci tempre
14De' begli occhi me illustra il chiaro lampo.

  • [1]. Chiede, quasi dubitando, quel che sia la bellezza; e 'l primo dubbio è intorno a l'opinione di PLUTARCO, il qual disse (che per difetto del testo greco habbiamo scritte qui le parole latine): «Pulchritudo corporis opus est animae gratificantis ei decus formae». La qual opinione adduce prima, accennando, che la sua Donna era più gratiosa, come si dice, che bella, o più bella d'animo, che di corpo.
  • 4. «E sua nobil vittoria, e quasi palma»: questa è opinione di PLOTINO, il quale estimò che la bellezza non fosse altro che vittoria de la forma sopra la materia: perchè vincendo a l'incontro la materia, nascerebbono i mostri.
  • 5-6. «O gloria, od arte, e magistero è d'alma | Natura? O don celeste, o raggio e duce»: «arte de la Natura», disse, ad imitatione di DANTE, il qual primo havea detto: «Lo motor primo a lui si volge lieto | Sovra tante arte di natura». Ma da tutti i Platonici prima fu detto «Natura artifex», o come noi parliamo, «Maestra Natura». Hora, lasciando la consideratione de le parole da parte, in questo quaternario dubbita se la bellezza sia opera de la natura, o dono d'Iddio e raggio de la Divinità, come estimano i Platonici, e par che s'appigli più a questa opinione. La chiama ancora [6] «duce», perch'ella riconduce al cielo per quella via ch'è detta Metodo resolutiva.
  • 9-10a. «Le parole, i pensier, gli alti costumi | Tutti paion celesti»: da l'apparenza la giudica celeste.
  • 10b-11. «e s'io n'avampo | Non par ch'indi mi strugga e mi distempre»: da gli effetti apparenti conchiude ch'ella sia divina.
  • 13b. «in così dolci tempre»: se non produce amor divino, almeno produce amor di virtù.

XXXI

Si duole d'uno impedimento e d'una interpositione che cerchi di spaventarlo e gli minacci infedeltà.

Non fra parole e baci invido muro
Più s'interpose, o fra sospiri e pianti;
O mar turbato a duo infelici amanti
4Quando troppo l'un fece Amor securo;
O nube, ch'a noi renda il ciel meno puro
E la notturna e bianca luce ammanti,
O terra, che le copra i bei sembianti,
8O luna, che ne faccia il sole oscuro;
O dolor d'altro intoppo, a' suoi pensieri
Rotto nel mezo il volo, alcun sostenne,
11Perchè volar più non presuma o speri,
Quanto io di quel, ch'a' miei troncò le penne;
E ben che sian di lor costanza alteri,
14Par che nel pianto d'affondarli accenne.

  • [1-14]. Raccoglie in questo sonetto molti impedimenti ne l'amore de gli amanti e molte altre interpositioni, e conchiude che niuna apportò mai tanto dolore o tanta oscurità, quanto quella de la quale egli si lamentò, la quale egli non dice espressamente qual fosse: ma si può credere che si dolesse per la privatione de la vista de la sua Donna, più che per altra cagione. Ma se non fu privatione, certo non furono senza privatione i principi de la sua amorosa infelicità.
  • 1-2. «Non fra parole e baci invido muro | Più s'interpose, o fra sospiri e pianti»: vuole intendere del muro, che divideva Piramo e Tisbe, come racconta OVIDIO ne le Trasformationi. Ma leggi la favola del Padre de l'Autore.
  • 3-4. «O mar turbato a duo infelici amanti | Quando troppo l'un fece Amor securo»: gli infelici amanti sono Leandro et Hero, de'quali l'uno assicurato d'Amore, passò il mare tempestoso, e vi restò alfine sommerso: leggi MUSEO tra' Greci, OVIDIO fra' Latini, et BERNARDO TASSO tra' Toscani.
  • 5. «O nube, ch'a noi renda il ciel men puro»: seguono in questo quaternario tre altre interpositioni: di nube, che ricopra il Cielo e le stelle; di terra, la quale è cagione de l'eclipsi di luna; di luna da cui procede l'ecclipsi del sole.
  • 9a. «O dolor d'altro intoppo»: di rete, o d'altro, ch'impedisca il volo a gli augelli.
  • 12. «Quanto io di quel, ch'a' miei troncò le penne»: mostra per dissimile cagione, di temer caso simile a quello d'Icaro.

XXXII

Dice d'haver veduto Amor ne gli occhi de la sua Donna, il quale gli havea comandato che non cantasse più le vittorie d'altrui, ma quelle di lei e la sua propria servitù.

Stavasi Amor, quasi in suo regno, assiso
Nel seren di due luci ardenti et alme,
Mille famose insegne e mille palme
4Spiegando in un sereno e chiaro viso;
Quando, rivolto a me, ch'intento e fiso
Mirava le sue ricche e care salme,
- Hor canta (disse) come i cori e l'alme
8e 'l tuo medesmo ancora habbia conquiso.
Nè s'oda risonar l'arme di Marte
La voce tua, ma l'alta e chiara gloria,
11E i divin pregi nostri, e di costei.
Così adivien che ne l'altrui vittoria
Canti mia servitute e i lacci miei,
14E tessa de gli affanni historie in carte.

  • [1-14]. Imita ANACREONTE, il quale due volte tratta questo medesimo soggetto, prima in quei versi «Θέλω λέγειν Ατρείδας, | Θέλω δέ Κάδμον ᾴδεῖν | Αβαβιτοτ᾿ δέ χορδαῖς | Εροτα μουν᾿ ν ἠχεῖ». Ma il nostro Poeta, che scrive ancora d'altre materie, non può obligarsi a questo concetto, a guisa di servo imitatore, ma libero ne l'imitatione. Segue più tosto gli altri versi d'ANACREONTE, non molto da questi dissomiglianti, come il dotto lettore potrà conoscer leggendo: «σὺ μὲν λέγεις τὰ Θηβης | Ο δ᾿ ἆυ φρυγῶν αυτὰς | Εγὼ δ᾿ ἐμαὶ ἁλωσεῖς». Fu trattato parimente questo luogo fra' Latini dal NAVAGERIO, in quella guisa: «Qui modo ingentes animo parabam | Bembe, bellorum strepitus et arma, | Scribere, hoc vix exiguo male audax | Carmine serpo. || Nempe Amor magnos violentus ausus | Fregit iratus, veluti hic tonantem | Cogit, et fulmen trifidum rubenti, | Ponere destra. | Sic eat sors. Et tua laus sequetur. | Candidae vultus Lalages canentem | Purius claro radiantis astro | Frontis honores. || Nota Lesbae, lira blanda Saphus | Notus Alcei lycus altiori | Scripserit quamvis animosum Homerus | Pectine Achillem».

XXXIII

Loda l'herba mandatagli in dono e coltivata da la sua Donna, facendone comparatione con quella per la quale Glauco si trasmutò.

Herba felice, che già in sorte havesti
Di vento in vece e di temprato sole,
Il raggio de' begli occhi accorti honesti,
4E l'aura di dolcissime parole;
E sotto amico ciel lieta crescesti,
E qual hor più la terra arsa si duole,
Pronta a scemar il fero ardor vedesti
8La bella man, che l'alme accender suole;
Ben sei, tu, dono aventuroso e grato,
Ond'addolcisca il molto amaro, e satio
11Il digiuno amoroso i parte i' renda.
Già novo Glauco, in ampio mar mi spatio
D'immensa gioia, e 'n più tranquillo stato
14Quasi mi par ch'immortal forma i' prenda.

  • 1a. «Herba felice»: così la chiama, perch'essendo in un testo coltivato da la sua Donna, haveva maggior obligo a l'arte usata da lei, ch'alla natura medesima.
  • 5a. «E sotto amico ciel»: tutto ch'ella fosse peregrina, nondimeno verdeggiò felicemente in questo clima.
  • 7-8. «Pronta a scemar il fero ardor, vedesti | La bella man, che l'alme accender suole»: soleva adacquarla due volte il giorno, et in quello atto essendo veduta dal Poeta, facea effetti diversi ne l'erba e nel suo cuore: perchè l'uno irrigava, e l'altro accendeva.
  • 9. «Ben sei tu dono aventuroso e grato»: «aventuroso», perchè fu principio o segno di buona fortuna in amore. Grato, per la gratia di chi'l mandava, e per la gratitudine di chi il riceveva.
  • 10-11. «Onde addolcisca il molto amaro, e satio | Il digiuno amoroso in parte i' renda»: parla de l'amaritudine de l'animo, la quale fu addolcita per questo dono.
  • 11a. «Il digiuno amoroso»: e per «digiuno amoroso» non intende solamente il desiderio di vederla, come intese il PETRARCA quando egli disse: «Fame amorosa, e non poter mi scusi», ma la cupidità di vederla, e d'udirla, e d'ogni suo dono e d'ogni suo favore, et il divieto di goderne, o d'usurparse le cose non concedute.
  • 12-13a. «Già novo Glauco, in ampio mar mi spatio | D'immensa gioia»: Glauco pescatore, come si legge in OVIDIO, mangiando d'una herba de la qual prima havevano gustato i pesci presi da lui, sentì dentro trasmutarsi, e saltando nel mare, cambiò figura parimente, e fu ricevuto nel consortio de gli altri Dei marini. PLATONE nel X del Giusto dice che l'antica figura di Glauco, tanto cambiata dal suo primo essere e così rotta da l'onde e con tante alghe e conche e sassi che le sono attaccate per le quali dimostra l'imagine sua assai più fiera, è simile a l'anima contaminata d'infiniti mali. È seguito PLATONE da Monsignor DE LA CASA in quel sonetto: «Già lessi, et hor conosco in me sì come | Glauco nel mar si pose huom puro, e chiaro».Ma il Poeta in questo luogo imita DANTE, il quale essendo quasi deificato per la contemplatione, assomiglia la sua trasformatione a quella di Glauco.

XXXIV

Invitato da la sua Donna a tenerle lo specchio, descrive quell'atto poeticamente.

A' servigi d'Amor ministro eletto,
Lucido specchio anzi il mio Sol reggea,
E lo specchio in tanto a le mie luci io fea
4D'altro più chiaro e più gradito oggetto.
Ella, al candido viso et al bel petto,
Vaga di sua beltà, gli occhi volgea,
E le dolci arme, hor che di morte è rea,
8D'affinar contra me prendea diletto.
Poi, come terse fiammeggiar le vide,
Ver me girolle, e dal sereno ciglio
11Al cor voltò più d'un pungente strale.
Ma non previdi all'hor tanto periglio.
Hor, se Madonna a' suoi ministri è tale,
14Quai fian le piaghe, onde i rubelli ancide?

  • 2b. «anzi il mio Sole»: cioè avanti a la sua Donna, ch'egli chiama «sole»; et «anzi» per inanzi in questo luogo è parola accorciata, o figura detta apheresis. Così disse il PETRARCA: «C'hor per lodi anzi Dio preghi mi rende»; e altrove: «E trema anzi la tomba».
  • 3. «E specchio in tanto a le mie luci io fea»: in cambio di «facea», per accorciamento usato da PETRARCA in molti luoghi, e particolarmente in quello: «E tremar mi fea dentro a quella pietra». Nondimeno perchè questa parola non è usata in rima dal Petrarca, altrimenti si legge: «E dolce specchio in tanto a me facea».
  • 7a. «E le dolci arme»: intende de l'armi de la bellezza e d'Amore, com'intese il PETRARCA in que' versi: «A le pungenti, ardenti e lucid'arme, | Contra cui in campo perde | Giove et Apollo, e Polifemo e Marte». E più chiaramente altrove: «L'arme tue furon gli occhi onde l'accese | Saette uscivan d'invisibil foco».
  • 7b. «hor che di morte è rea»: è detto ad imitatione di quel verso del medesimo autore: «Benchè la somma di mia morte è rea». Ma il Poeta chiama «rea di morte» la bellezza, il Petrarca la castità, com'è opinione de gl'interpreti. Potrebbe nondimeno il Petrarca anchora significar la bellezza, imperochè la somma virtù è la bellezza, come disse EURIPIDE.

XXXV

Tornò un'altra volta a mostrar lo specchio a la sua Donna, e descrive la sua bellezza e 'l compiacimento c'havea di mirarsi.

Chiaro cristallo a la mia Donna offersi,
Sì ch'ella vide la sua bella imago,
Qual di formarla il mio pensiero è vago,
4E qual procuro di ritrarla in versi.
Ella da tanti pregi e sì diversi,
Non volse il guardo di tal vista pago,
Gli occhi mirando e 'l molle avorio e vago,
8E l'oro de' bei crin lucidi e tersi.
E parea fra sé dir: - ben veggio aperta
L'alta mia gloria, e di che dolci sguardi
11Questa rara bellezza accenda il foco. -
Così, ben che 'l credesse in prima un gioco,
Mirando l'armi ond'io fuggij si tardi,
14De le piaghe del cor si fè più certa.

  • 1a. «Chiaro cristallo»: gentilmente accenna a la sua Donna, ch'egli non merita d'esserle men caro d'un bel cristallo dove si specchiava [2-3]. Imperochè l'imagine di lei non era formata men bella nel pensiero del Poeta, o ne suoi versi. Laonde, e per l'affetione intrinseca, e per l'opera esteriore, era meritevole de la sua gratia.
  • 5a. «Ella da tanti pregi»: «pregi» de la bellezza, disse il TASSO, come il PETRARCA havea detto «pregio d'onestà e di virtù».
  • 7b. «e 'l molle avorio e vago»: intende il petto, bench'i Latini dicano molle ebur, perch'egli è liscio et polito.
  • 9-10a. «E parea fra sè dir: Ben veggio aperta | L'alta mia gloria»: la «gloria» de la sua bellezza. Così disse il PETRARCA: «Questa eccellenza è gloria s'io non erro | Grande a Natura».
  • 10b. «e di che dolci sguardi»: s'invaghisce di se stessa, ma crede a lo specchio quello che non havea creduto a le parole de l'amante.

XXXVI

Dice d'haver più caro il legame tolto a la sua Donna di quello che lega il corpo con l'anima.

Non ho sì caro il laccio, ond'al consorte
De la vita mortal l'alma s'avvinse,
Come quel, c'hor me lega, e voi già strinse,
4Già vago e dolce, hor duro nodo e forte.
Nè quel famoso, ch'al figliuol diè morte,
Del barbaro monile il collo cinse
Lieto così, quando il nemico estinse,
8Com'io di quel che v'ha le chiome attorte.
Ti cede, Amor, Natura e non si sdegna
Ch'ella ordisca fral nodo, e 'l tuo non rompa
11Morte, e con l'alma in Ciel si privilegi.
E se gli altrui sepolcri illustre pompa
Orna di vincitrice altera insegna,
14Per la servil catena il mio si pregi.

  • 1a. «Non ho si caro il laccio»: «laccio» chiama l'unione del corpo con l'anima, come chiamò prima il PETRARCA «Natura tien costei d'un si gentile | Laccio che nullo sforzo è che sostegna», cioè con si delicata complessione.
  • 1b-2a. «ond'al consorte | De la vita mortal»: intende il corpo, ch'è consorte de l'anima. Il PETRARCA chiamò l'anima «L'errante mia consorte». DANTE disse: «Quando l'anima si sposa al corpo». Appresso STOBEO si legge che ne le parti de l'anima è altro vestigio del matrimonio. S[ant'] AGOST[INO] afferma che la ragione superiore è quasi marito, l'inferiore quasi moglie. E quantunque alcuna volta avenga che l'anima vada salva e 'l corpo resti insepolto, come si legge in Dante, nondimeno al fine l'anime ripiglieranno i corpi glorificati, laonde convenevolmente il corpo è chiamato consorte de l'anima, e ciascuna parte de l'anima, consorte de l'altra.
  • 5. «Nè quel famoso, ch'al figliuol diè morte»: intende di Manlio Torquato da cui l'Autore ha preso il nome, il qual fu così chiamato da la catena che latinamente è detta torques, tolta al soldato francese.
  • 9-10. «Ti cede, amor, natura, e non si sdegna | ch'ella ordisca fral nodo, e 'l tuo non rompa»: non intende il Poeta del matrimonio propriamente detto, ma de l'affetione de gli animi e de l'unione. Ma filosoficamente parlando, d'alcuna sorte d'amore, come di quel de' figlioli, dissi Temistio: «Liberorum amor, caeitus naturae alligatus, et plane ab aurea illa, et infracta catena pendit».
  • 12a. «E se gli altrui sepolcri»: spera gloria dal segno de la servitù, com'altri da l'insegne riportate ne la vittoria, e sospese intorno al sepolcro.

XXXVII

Offerisce ad Amore in voto una bindella di seta, la quale egli haveva involata alla sua Donna.

Amor, se fia giamai che dolce i' tocchi
Il terso avorio de la bianca mano,
e 'l lampeggiar del riso humile e piano
4Veggia da presso, e 'l folgorar de gli occhi;
E notar possa come quindi scocchi
Lo stral tuo dolce, e mai non parta in vano;
E come al cor, del bel sembiante humano
8D'amorose dolcezze un nembo fiocchi,
Fia tuo questo lacciuol, ch'annodo al braccio
Non pur, ma via più stretto il cor n'involgo,
11Caro furto, ond'il crin Madonna avolse.
Gradisci il voto, che più forte laccio
Da man più dotta ordito, altri non tolse:
14Nè perchè a te lo doni, indi mi sciolgo.

  • 3a. «e 'l lampeggiar del riso»: per traslatione presa dal lampo che subito passa e sparisce, hanno detto i nostri «il lampeggiar del riso» quello ch'a pena si vede. DANTE disse: «[...] testeso | Un lampeggiar del riso dimostrommi». E 'l PETRARCA: «E 'l lampeggiar de l'angelico riso».
  • 4b. «e 'l folgorar de gli occhi»: va accrescendo la maraviglia perchè il baleno precede il fulmine.
  • 5. «E notar possa, come quindi scocchi»: maravigliosa sorte di fulmini, che lascia luogo e tempo a l'osservatione.
  • 9. «Tuo fia questo lacciuol»: offerisce il voto.
  • 10b. «ma via più stretto il cor n'involgo»: detto affettuosamente, come quello: «L'affettion del vel Costanza tenne».
  • 11a. «Caro furto»: è appositione, figura così detta da' Latini.
  • 12a. «Gradisci il voto»: loda il suo voto, e rende le cagioni perchè gli debba esser caro.

XXXVIII

Ballando con la sua Donna, si lamenta che 'l ballo habbia sì tosto fine.

Questa è pur quella che percote e fiede
Con dolce colpo, che n'ancide e piace,
Man ne' furti d'Amor dotta e rapace,
4E fa del nostro cor soavi prede.
Del leggiadretto guanto homai si vede
Ignuda e bella, e se non è fallace
S'offre inerme a la mia, quasi di pace
8Pegno gentile, e di secura fede.
Lasso, ma tosto par ch'ella si penta
Mentr'io stringo, e si sottragge e scioglie
11Al fin de l'armonia ch'i passi allenta.
Deh, come altera l'odorate spoglie
Riveste, e la mia par che vi consenta:
14O fugaci diletti, o certe doglie.

  • 1a. «Questa è pur quella»: si dice de le cose lungamente aspettate, o cercate, o desiderate.
  • 2. «Con dolce colpo che n'ancide e piace»: il Poeta disse ciò del colpo, come Monsignor DE LA CASA del veleno: «Ahi venen novo, che piacendo ancidi».
  • 3a. «Ma ne furti d'Amor»: hiperbaton, come dicono i Greci, cioè trasportatione di parole fatta per ornamento.
  • 4. «E fa del nostro cor soavi prede»: dichiara quai furti sian questi e dice son furti d'Amore, son furti de l'anime, son furti che piacciono. Così disse il PETRARCA: «Questa, che col mirar gli animi fura, | M'aperse il petto, e 'l cor prese con mano».
  • 7a. «S'offre inerme a la mia»: haveva detto [6] «ignuda», hor dice «inerme», per varietà: ma vale il medesimo, se non che «nuda» si dice propriamente, «inerme» per traslatione.
  • 7b-8. «quasi di pace | Pegno gentile, e di secura fede»: ha risguardo a quel luogo di VIRGILIO: «Nec te noster Amor, nec te data dextera quondam». Et a quell'altro: «Pignus pacis destram tetigisse».
  • 11. «Al fin de l'armonia ch'i passi allenta»: descrive l'usanza perchè cessando il suono, cessa il ballo e ciascuno ritira la mano e molti sogliono rimettersi il guanto.
  • 12. «Deh come altera l'odorate spoglie»: dice che la sua Donna fa per alterezza quello che l'altre fanno per uso o per commodità.

XXXIX

Nel medesimo soggetto

Perchè Fortuna ria spieghi le vele
Ne l'Egeo tempestoso o nel Tirreno,
E mi dimostri il mar di seno in seno,
4Non mi farà men vostro, o men fedele;
Nè perchè, voi facendo a me crudele,
Sferzi il destriero e gli rallenti il freno,
E mi porti fra l'Alpe o lungo il Reno,
8O 'n bosco o 'n valle mi nasconda e cele.
Anzi, in donna gentil bella pietate
Stimo un tormento, a lato al dolce sdegno
11De gli occhi vostri, che di foco armate.
Luci divine, onde perir sostegno,
Quand'io torno a morir, non mi scacciate,
14Per ch'a la morte, et a la gloria i' vegno.

  • 1a. «Perchè Fortuna ria»: «perchè» in vece di «benchè», usatissimo da PETRARCA in molti luoghi, e particolarmente in quello: «Perch io t'habbia guardato di menzogna».
  • 2a. «Ne l'Egeo tempestoso»: Egeo è quel mare che la Grecia divide da l'Ionio, come afferma Pomponio Mela, et fu così detto da Egeo, padre di Teseo, il quale vi si precipitò per dolore de la falsa, ma creduta, morte del figliolo, mentre egli ritornando da Creti, dove haveva ucciso il Minotauro, con le vele negre, non si ricordò d'alzar le bianche, com'haveva promesso al padre. Ma di questa favola, più ampiamente si ragionerà appresso.
  • 2b. «O nel Tirreno»: così è chiamato da' Greci quel che i Latini chiamano Mare Tuscum, altrimenti Mare Inferum, uno de' duo che inondano l'Italia.
  • 7. «O mi porti fra l'Alpe, o lungo il Reno»: Alpe sono i monti che dividono I'Italia da la Francia. Reno è fiume famoso, ch'anticamente divideva i Belgi da' Germani: hora è ne la Fiandra, tra la bassa e l'alta Alemagna.
  • 9-10. «Anzi, in donna gentil bella pietate | Stimo un tormento a lato al dolce sdegno»: accresce quel che haveva detto il PETRARCA: «Fora uno sdegno a lato a quel ch'io dico». E nota ch'«a lato» si dice quasi in comparatione, perchè le cose che si vogliono paragonare si mettono appresso.
  • 12. «Luci divine»: affettuosamente detto.

XL

Dice che partendosi da la sua Donna, non potrà vedere o imaginar cosa ch'agguagli la dolcezza d'un suo sdegno, o la bellezza d'un suo disprezzo.

Se mi trasporta a forza ov'io non voglio,
Mia fortuna che fa cavalli e navi,
Che farò da voi lunge, occhi soavi,
4Benchè tal'hor vi turbi ira et orgoglio?
Vedrò cosa giamai, che 'l mio cordoglio
E tante pene mie faccia men gravi?
O starò solo, ove s'inondi e lavi
8Verde colle, ermo lido e duro scoglio?
Tu pensier fido, e tu sogno fallace,
Fronte mi formerai tanto serena,
11O 'n lieto riso sì amorosa pace,
O Ninfa, o Dea, sovra l'incolta arena?
Se non val ciò ch'in altri alletta o piace,
14Dolce un suo sdegno, un bel disprezzo a pena.

  • 2. «Mia Fortuna che fa cavalli e navi»: così il PETRARCA: «…hor fa cavalli, hor navi | La fortuna al mio mal sempre più presta».
  • 7a. «O starò solo»: partendosi da un luogo mediterraneo, andava ad una città maritima.
  • 9. «Tu pensier fido, e tu sogno fallace»: contraposti, perche l'uno e l'altro suole ingannarci, ma il sogno più tosto.
  • 12. «O Ninfa, o Dea, sovra l'incolta arena»: ad imitatione di que' versi di PETRARCA: «Hora in forma di Ninfa, hor d'altra Diva | Che dal più chiaro fonte di Sorga esca».

XLI

Si lamenta de la sua Donna che, ballandosi al ballo del torchio, con estinguerlo ponesse fine al ballo.

Mentre ne' cari balli in loco adorno
Si trahean le notturne e placide hore,
Fiamma, che nel suo foco accese Amore,
4Lieto n'apriva a meza notte il giorno;
E da candide man vibrata intorno,
Spargea faville di sì puro ardore
Che pareva apportar gioia et honore
8A' pochi eletti, a gli altri invidia e scorno,
Quando a te data fu, man cruda e bella,
E da te presa e spenta, e ciechi e mesti
11Restar mill'occhi a lo sparir d'un lume.
Ahi, come all'hor cangiasti arte e costume,
Tu ch'accender solei l'aurea facella,
14Tu ministra d'Amor, tu l'estinguesti.

  • 3. «Face, che nel suo foco accese Amore»: era così grande e così luminosa, fra l'altre minori, che para di giorno. O ha risguardo a l'effetto d'amore, ch'egli sentia per la bellezza illuminata.
  • 5. «E da candide man vibrata intorno»: descrive il modo co 'l quale molte volte sogliono portare il torchio.
  • 8a. «A' pochi eletti»: a coloro che per favor de le donne erano presi in ballo.
  • 10. «E da te presa, e spenta»: la sua Donna, smorzando il torchio, pose fine a quel ballo con dolore di molti amanti.
  • 12. «Ahi come all'hor cangiasti arte e costume»: cioè d'infiammare e d'accendere. Affettuosa esclamatione d'amante.

XLII

Contro una Donna attempata, la quale prendendo importunatamente commiato haveva interrotto un bel trattenimento

O nemica d'Amor, che sì ti rendi
Schiva di quel, ch'altrui dà pace e vita,
E dolce schiera a' dolci giorni unita
4Dispergi e parti, e lui turbi et offendi;
Se de l'altrui bellezza invidia prendi,
Mentre i tuoi danni a rimembrar t'invita,
Chè non t'ascondi, homai sola e romita.
8e 'n humil cameretta i giorni spendi?
Chè non conviensi già tra le felici
Squadre d'Amor e tra 'l diletto e 'l gioco,
11In donna antica immagine di morte.
Deh, fuggi il sole, e cerca in chiuso loco,
Come notturno augel, gli horrori amici,
14Nè qui timor la tua sembianza apporte.

  • 5. «Se de l'altrui bellezza invidia prendi»: come dice ARISTOTELE nel secondo de la Retorica, ov'egli tratta de l'invidia, coloro c'hanno posseduto alcun bene, sono invidiosi di coloro che 'l posseggono, e i più vecchi de più giovani, benchè propriamente l'invidia sia fra simili d'età.
  • 6. «Mentre i tuoi danni a rimembrar t'invita»: cioè al danno irreparabile de la perduta bellezza et a la felicità del tempo passato, perchè «Nessun maggior dolore, | Che 'l ricordarsi del tempo felice | Ne la miseria, e ciò sa 'l tuo dottore».
  • 9a. «Chè non conviensi già»: detto per soverchia passione.
  • 12a. «Deh fuggi il sole»: assomiglia i vecchi a gli uccelli notturni et a quelli che portan cattivo augurio.

XLIII

Chiede il Poeta ad Amore come, essendo la sua Donna freddissima a guisa di pietra, possa infiammarlo.

- Donde togliesti il foco
Ch'a poco a poco mi consuma e sface,
In guisa tal, che mi tormenta e piace? -
- D'una gelata pietra,
5Che non si spetra per continuo pianto,
Ma quando più l'irrigo, più s'indura,
Et ha presa figura
Di voi che di bellezza havete il vanto;
Onde con vostra pace
10Il vostro nome e la beltà si tace. -
- Felice la mia fiamma,
La qual m'infiamma così dolcemente;
Felice ancor pietra sì cara e bella,
E più s'ardesse anch'ella,
15Ma tiene il foco in seno e sì no 'l sente;
E quivi Amor la face,
Accende a l'esca d'un piacer tenace. -

  • 1. «Donde togliesti il foco»: intende per «foco» il desiderio, per [4] «pietra» la sua Donna.
  • 7. «Et ha presa figura»: assomiglia la sua Donna, avendo risguardo a la bellezza et a la proportione de le membra, ad una statua fatta di bianchi marmi.
  • 15. «Ma tiene il foco in seno e sì no 'l sente»: come la pietra, essendo freddissima, nondimeno manda fuori faville di foco, così la Donna gelata ne le cose d'amore, accende il desiderio amoroso.

XLIV

Parla co 'l suo core e 'l consiglia a far ritorno alla sua Donna.

- Donde ne vieni, o cor timido e solo,
Così tutto ferito e senza piume? -
- Da que' begli occhi, il cui spietato lume
4Le penne m'infiammò ne l'alto volo. -
- Torna al suo petto, hor questo ingombra il duolo,
Nè scacciato da lei raccor presume. -
- Non posso, nè volar ho per costume
8Senza quell'ali ond'io mi spatio a volo. -
- L'ale ti rifaranno i miei desiri,
Anzi pur tuoi, che 'l tuo piacer le spiega. -
11- E savien che non m'oda, o che s'adiri? -
- Batti a le porte, e chiama e piangi e prega.
- Già m'ergo, e mi son aure i miei sospiri,
14E morrò s'ella è sorda, o s'ella il niega. -

  • 2. «Così tutto ferito e senza piume»: ha risguardo a quel verso: «Sì tolte l'eran l'ale, e 'l gire a volo». E per [4]«volo» intende l'altezza de' pensieri, che per diffidenza nata da l'orgoglio de la sua Donna haveva quasi lasciati.
  • 5a. «Torna al suo petto»: simile a quello: «Mio, perchè sdegno ciò ch'a voi non piace». Per [8] «l'ali» intende gli instinti, come habbiam detto, o le virtù.
  • 9. «L'ale ti rifaranno i miei desiri»: il desiderio di piacer a la sua Donna, essendo cagione che tu divenga virtuoso, è cagione in conseguenza de l'altezza de tuoi pensieri.
  • 12a. «Batti a le porte»: già s'è detto quali sian quelle porte a le quali soglion batter gli amanti.

XLV

Assomiglia il suo dolce pensiero amoroso, che non è mescolato con gli altri amarissimi, al favoloso Alfeo che, passando sotto il mare per congiungersi con Aretusa, non mescola l'acque salse con le dolci.

Come la Ninfa sua fugace e schiva
Che si converte in fonte e pur s'asconde,
L'inamorato Alfeo per vie profonde
4Segue, e trapassa occulto ad altra riva.
Et irrigando palidetta oliva,
Co bei doni se 'n va di fiori e fronde,
E non mesce le salse a le dolci onde,
8E dal mar non sentito, in sen l'arriva.
Così l'anima mia, che si disface,
Cerca pur di Madonna, elode e canto
11Le porta in dono, et amorosa pace,
Ma le dolcezze sue non turba in tanto,
Fra mille pene, il mio pensier seguace,
14Passando un mar di tempestoso pianto.

  • 1. «Come la Ninfa sua fugace e schiva»: intende il Poeta d'Aretusa, fonte famoso in Sicilia.
  • 2. «L'inamorato Alfeo»: è fiume in Elide, appresso Pisa, il quale passa sotto il mare per congiungersi con Aretusa.
  • 5. «Et irrigando palidetta oliva»: gareggia con Mosco, poeta greco. I versi di MOSCO si leggono in STOBEO, il quale l'Autore non ha in altra lingua che ne la latina, son questi: «Alpheus post Pisam ubi mare ingressus est, | Procedit in Arethusam aqua fluens oleastros vegetante, | Et dona pulchras frondes ferens, floresque et sacrum pulverem. | Et profundus in undis manat, sub mari autem | Inferius profluit, nec eius aqua salsuggine miscetur. | Caeterum mare non sentit transeuntem fluvium. | Sic puer ille graviter afficiens, mala machinans, ardua docens. | Cupido, amnem quoque propter amoris, vim natare docuit«».

XLVI

Prega Amore che non voglia percuotere il delicato petto de la sua Donna d'egual ferita, ma di dolcissima piaga amorosa.

Se la saetta, Amor, che 'l lato manco
M'impiaga in guisa ch'io languisco a morte,
Fosse dolce così com'ella è forte,
4Direi: - Pungi, Signor, il molle fianco, -
Chè di pregar e di seguir m'ha stanco,
Mentre fugge costei per vie distorte.
Ma temo, oimè, che per malvagia sorte
8Ella non pera, hor ch'i' son frale e manco.
Deh, goda, prego, al dilettoso male,
E tinta in soavissima dolcezza
11Sia la ferita e quel dorato strale.
A me quanto è di grave e di mortale;
Dà mille gioie a lei, se pur disprezza
14Gioir l'alma gentil di piaga eguale.

  • 3. «Fosse dolce così»: «Dolci son le quadrella, ond'Amor punge».
  • 4. «Direi: Piaga, Signore, il molle fianco»: cioè quel de la sua Donna.
  • 5. «Chè di pregar e di seguir m'ha stanco»: «chè» in vece di perchè, come in quel luogo: «Ch'i bei vostr'occhi, Donna, mi legaro».
  • 6b. «per vie distorte»: dimostra la difficultà di seguirla, non fuggendo per via diritta, come aviene a' cacciatori che seguono le fiere.
  • 9. «Deh goda, prego, al dilettoso male»: cioè d'Amore. Così il PETRARCA: «O viva morte, o dilettoso male».
  • 14. «Gioir l'alma gentil di colpo eguale»: cioè d'amar egualmente, o di sentir egual diletto in amore.

XLVII

Dice a la sua Donna d'esser acceso da la sua beltà nella maggiore asprezza del verno.

Quel, d'eterna beltà raggio lucente,
Che v'infiora le guance e gli occhi alluma
In questa nubilosa e fredda bruma,
4Scalda la mia gelata e pigra mente.
E sveglia al core un desiderio ardente
Onde, qual novo augel che l'ale impiuma,
Volar vorrebbe, e quasi leve piuma,
8Quinci il pensier, quindi il voler ei sente.
E voleria, dove le stelle e 'l sole
Vedria vicine, e co' soavi giri
11Fra sè l'agguaglieria de gli occhi vostri.
Ma perchè ella tal'hor, comete e mostri
D'horribil foco e nembi in ciel rimiri,
14Pur alto intende, e si confida e vole.

  • 1. «Quel d'eterna beltà raggio lucente»: cioè la nostra bellezza, la quale è raggio de la divina.
  • 2a. «Che v'infiora le guance»: tre conditioni son considerate ne la bellezza, come dice il FICINO nel Convito: proportione di membra, grandezza e soavità di colori. Il Poeta tocca l'ultima: non perchè l'altre manchino, ma perch'essendo questa più variabile, è maggior maraviglia che non patisca mutatione.
  • 3. «In questa nubilosa e fredda bruma»: congiunge insieme due effetti mirabili, e se tali non fossono, ma naturali, co 'l modo del dire gli fa parer maravigliosi: l'uno ne la sua Donna, cioè ch'ella habbia le guance fiorite nel più freddo verno, come quello «O fiamma, o rose, sparse in dolce falda». L'altro, in se medesimo, che più s'accenda ne la più fredda stagione, come quell'altro: «Tremo al più caldo, ardo al più freddo cielo».
  • 6. «Onde, qual novo augel che l'ale impiuma»: del mettere de l'ali, leggi il Fedro di PLATONE, e 'l Messaggiero de l'AUTORE medesimo.
  • 9-10a. «E voleria, dove le stelle e 'l sole | Vedria vicine»: cioè sovra questo mondo corrottibile e soggetto a la varietà.
  • 10b-11. «co' soavi giri | Fra sè l'agguaglieria de gli occhi vostri»: dimostra la costanza de la sua Donna e de la sua bellezza.
  • 12. «Ma perch'ella tal'hor»: non si spaventa per prodigi, et allegoricamente intende le minaccie.
  • 14. «Pur alto intende, e si confida, e vole»: l'appetito o la volontà segue (come dice il discreto Latino) la cognitione de l'intelletto.

XLVIII

Appressandosi l'hora de la sua partita, pregava la sua Donna che, volgendo gli occhi nel cielo, fermi il suo corso.

Tu vedi, Amor, come trapassi e vole
Co 'l dì la vita, e 'l fin prescritto arive;
Nè trovo scampo, onde la morte io schive
4Se non s'arresta a' nostri preghi il sole.
Ma se pietosa mi riguarda, e vuole
Serbar Madonna in me sue glorie vive,
I begli occhi, ond'al ciel l'ira prescrive,
8Drizzi ver lui, pregando, e le parole.
Chè del suon vago e de la vista il corso
Fermerà Febo, et allungando il giorno
11Mi fia scemo il dolore, e spatio aggiunto.
Ma chi m'affida, oimè, ch'al fin compunto
A l'alto paragon d'invidia e scorno,
14Ei non rallenti a' suoi destrieri il morso?

  • 1a. «Tu vedi»: detto un'altra volta per dimostrare che 'l suo amore non era cieco, cioè non havea perduto a fatto l'uso de la ragione. Così disse il PETRARCA: «Tu 'l vedi Amor, che tu le arte m'insegni».
  • 4. «Che non s'arresta a' preghi nostri il sole»: in altro modo si legge «Se non s'arresta». Nel primo ha riguardo a quel luogo di VIRGILIO nel sesto de l'Eneide: «Desine fata Deum flecti sperare praecando», interpretato da DANTE «Tu mi nieghi in alcun testo | [...] | Che decreto del ciel oration pieghi», ne l'altro a preghi d'Ezechia, per li quali la vita gli fu prolongata di XV anni.
  • 5. «Ma se pietosa mi riguarda etc.»: parla poeticamente e, come gli amanti sogliono, vanamente.
  • 9a. «Chè del suon vago»: poeticamente essalta le bellezze de la sua Donna e l'invidia del sole, la quale gli attribuisce in quel modo che 'l PETRARCA prima gliele haveva attribuita, dicendo «...que' duo bei lumi | C'han fatto molte volte invidia al sole». Benché questa fosse non solamente usanza del Petrarca, ma de' poeti universalmente, quali, come si legge nel primo de la Metafisica d'ARISTOTELE, se dicono il vero, ne gli Iddij può cader l'invidia. Ma gli Iddij non possono invidiare: dunque dicono il falso. E lontana l'invidia dal choro de gli Dei, come dice PLATONE: ma in un altro luogo tratteremo se i poeti si possono difendere, o scusare in qualche modo.

XLIX

Togliendo commiato da la sua Donna, sentiva dolore simile a quello che si sente nella morte, ma fu racconsolato da le sue parole.

Sentiva io già correr di morte il gelo
Di vena in vena et arrivarmi al core,
E folta pioggia di perpetuo humore
4M'involgea gli occhi in tenebroso velo.
Quando vidi io con sì pietoso zelo
La mia Donna cangiar volto e colore,
Che non pur addolcir l'aspro dolore,
8Ma potea fra gli abissi aprirmi il cielo.
- Vattene (disse) e se 'l partir t'è grave
Non sia tardo il ritorno, e serba in tanto
11Del mio cor teco l'una e l'altra chiave. -
Così il dolore in noi forza non have,
E siam quasi felici ancor nel pianto:
14O medicina del languir soave.

  • 1a. «Sentiva io già»: descrittione di grandissimo dolore, per lo quale si sentiva venir meno et insieme parea che perdesse la vista.
  • 5a. «Quando vidi io»: non l'haveva perduta a fatto, quando fu consolato da la sua Donna con l'aspetto e con le parole: con l'aspetto perchè mutò colore e questo fu segno di pietà, come si raccoglie dal PETRARCA ancora: «E 'l viso di pietosi color farsi | Non so se vero o falso mi parea». E più chiaramente in quell'altro luogo: «A me si volse in sì novo colore | C'havrebbe a Giove nel maggior furore, | Tolte l'arme di mano, e l'ira morta | [...] con le parole».
  • 9a. «Vattene (disse)»: quasi volendo intendere poich'è necessario.
  • 9b-10a. «e se 'l partir t'è grave | Non sia tardo il ritorno»: cioè sia la prestezza del ritorno argomento e fede che 'l partir ti rincresca.
  • 10b-11. «e serba in tanto | Del mio cor teco l'una e l'altra chiave»: il PETRARCA disse a Laura: «Del mio cor Donna, l'una e l'altra chiave | Havete in mano». A l'incontro la Donna celebrata in queste rime dice al Poeta: «e serba in tanto | Del mio cor teco l'una e l'altra chiave». Quasi l'officio de l'aprire e del serrare i cuori sia vicendevole. Per «chiavi del cuore» intende le persuasioni amorose, come intese PINDARO, ne l'Oda nona, dicendo: «Eὐθὺς ἀμείβετο· κρυπταὶ | Kλαίδες ἐντὶ σοφᾶς | Πειθοῖς ἱερᾶν φιλοτάτων | φοῖβε».

L

Continua ne l'istesso soggetto, mostrando d'haver infinito dolore per la lontananza de la sua Donna, laonde è ragionevole ch'ella sia tanto pietosa, quanto egli è dolente.

Hor che lunge da me si gira il sole
E la sua lontananza a me fa verno,
Lontan da voi, che del pianeta eterno,
Imagin sete, questo cor si dole
5In tenebre vivendo oscure e sole;
E non si leva mai, nè si nasconde
Sì mesto il sol ne l'onde,
Che non sia cinto di più fosco horrore
L'infelice mio core,
10Nè sì perpetui rivi han gli alti monti,
Come i duo caldi e lacrimosi fonti.
Fonti profondi son, d'amare vene
Quelli, ond'io porto sparso il seno, e 'l volto.
e 'nfinito il dolor, che dentro accolto
15Si sparge in caldo pianto, e si mantene.
Nè scema una giamai di tante pene,
Perch'il mio core in dolorose stille
Le versi a mille a mille.
Ma s'io piango e mi dolgo, ei più m'invoglia
20Di lacrime e di doglia.
Onde l'amor gradito esser dovrebbe,
Chè senza fin, com'il dolor, s'accrebbe.
E s'alcun di mercede, o di pietate
Obligo mai vi stringe, esser non deve
25Circoscritto da fine angusto e breve.
Perch'è ragion, che sì pietosa habbiate,
Com'io, dolente l'alma, e no 'l celiate.
Felice il mio dolor, se 'l duro affetto
Sì v'ammollisse il petto,
30Ch'a me voi ne mandaste i messaggieri
D'Amor, dolci pensieri.
Ma per continua prova ei non vi spetra
Che sete quasi dura, e fredda pietra.
Nè pur due lagrimette ancor de' lumi,
35Crudel, vi trassi; e s'al partir mostraste
Doglia, o pietà d'opre gentili o caste,
Quest'è fera cagion ch'io mi consumi
E mi distempri in lagrimosi fiumi.
Forse tal'hor, di me fra voi pensando,
40Dite: - Ei si strugge, amando,
Ma non fia ch'ei mi piaccia, o tanto o quanto,
Per amore o per pianto.
E vana speme l'error suo lusinga
Qual d'huom, che l'ombre in sogno abbracci e stringa. –
45Ma siate pur crudel, quanto a voi piace,
Che s'al candido petto i' mai non toglio
Tutto il freddo rigore e l'aspro orgoglio,
Nè mi torrete a me quel che mi sface
Mortal dolore, o quell'amor vivace;
50Nè mi torrete mai che bella e viva
Non vi formi e descriva,
Per voi dolce stimando ogni mia sorte,
E dolce ancor la morte.
S'avverrà mai che per voi bella e cruda,
55Amor quest'occhi, lagrimando, chiuda.
Vanne, mesta Canzone,
Ov'è lieta Madonna, e s'ella gira
I begli occhi senz'ira,
Dille che l'amor mio sempre s'avanza,
60Nudrito di memoria, e di speranza.

  • [1]. Assomiglia la sua Donna al sole, chiamandola sua imagine, e la sua absenza, a l'absenza del sole. E questa è ottima similitudine, come pare a GIULIO CAMILLO nel trattato de l'Eloquenza.
  • [12-22]. Il dolore è passione ch'accompagna l'amore: peroch'essendo l'amor privatione, non pare ch'alcuna privatione possa esser senza dolore, ma non havendo fine l'amore, conchiude che 'l dolore non habbia fine.
  • [23-33]. Se l'amore, e 'l dolore è infinito, infinito è il merito dell'amare; ma questo non esprime. Dice nondimeno che la mercede ancora devrebbe essere infinita. Si lamenta che il suo dolore non muova la sua Donna a compassione, in guisa che la pietà di lei sia eguale al suo affanno.
  • [34-44]. La pietà mostrata da la sua donna è così poca che non mitiga il dolore perchè non estingue il desiderio: ma accrescendo il desiderio, accresce la doglia.
  • [43]. «E vana speme»: la speranza è sogno di chi vegghia, come si dice.
  • [45-55]. Sono eguali il Poeta ne l'amore e la sua Donna ne la crudeltà, poi ch'egli non può scemar la sua crudeltà, nè ella diminuire il suo amore.
  • [56-60]. Se la mia donna t'assicura, scoprile che l'amor mio è nutrito di due cibi: di memoria che risguarda le cose passate, e di speranza, c'ha risguardo alle future, laonde non solamente si nutrisce, ma s'accresce.

LI

Scrive ad un suo amico, il quale l'incitava a risguardare molte leggiadre Gentildonne ch'erano in una grande e lieta festa, ch'egli non lascerà mai d'amar la sua Donna, nè s'invaghirà d'altra.

Non sarà mai, ch'impressa in me non reste
L'imagin bella, o d'altra il cor s'informe,
Nè che là, dove ogn'altro affetto dorme,
4Novo spirto d'amor in lui si deste;
Nè men sarà, ch'io volga gli occhi a queste
Di terrena beltà caduche forme,
Per desviar i miei pensier da l'orme
8D'una bellezza angelica e celeste.
Dunque perchè destar fiamme novelle
Cerchi dal falso e torbido splendore
11Che 'n mille aspetti qui vago riluce?
Deh sappi homai che spente ha sue facelle
Per ciascun altra e strali ottusi Amore,
14E che sol nel mio Sole è vera luce.

  • 1-2a. «Non sarà mai, ch'impressa in me non reste | L'imagin bella»: conserverò memoria perpetua de la bellezza de la mia donna, perochè ne la memoria si conserva l'imagine de le cose sensibili a guisa di pittura, come dice ARISTOTELE.
  • 2b. «o d'altra il cor s'informe»: se tutte le forme de le cose vedute s'imprimono nel senso comune e ne la fantasia, egli per non ricordarsene, giamai non mirerà altra bellezza.
  • 3. «Nè che là, dove ogni altro affetto dorme»: così il PETRARCA: «E destavasi Amor là dove hor dorme». Ma il dormire d'Amore, per mio aviso, non è altro che la potenza e la dispositione de l'animo ad amare: perochè il destarsi è l'atto, come si raccoglie da DANTE che disse: «Tosto, che dal piacer in atto è desto».
  • 5a. «Nè men sarà»: dichiara quello c'habbiam detto di sopra, cioè ch'egli non riguarderà l'altre.
  • 9. «Dunque perchè destar fiamme novelle»: novo amor concupiscibile.
  • 10. «Cerchi del falso e torbido splendore»: cioè de la bellezza sensibile, ad imitatione del BEMBO, il quale prima havea detto: «Usato di mirar forma terrena | Sino a questi anni, e torbido splendore».
  • 12. «Deh sappi homai che spente ha sue facelle»: imita Monsignor DE LA CASA, dov'egli dice: «Per altra have ei quadrella ottuse e tarde».

LII

Dice d'haver fatto indarno esperienza se lo star lontano da la sua Donna poteva risanarlo de l'infermità amorosa, e conchiude che la dimenticanza sola potrebbe esser buon rimedio a questo male.

Dopo così spietato e lungo scempio,
E tante sparse lagrime e lamenti,
Io non estinguo le mie fiamme ardenti,
4Nè parte ancor de' miei desiri adempio.
E s'intoppo non fosse ingiusto et empio,
Al fonte di pietate havrei già spenti
Gl'interni ardori; e pur ne' miei tormenti
8Novo Tantalo fui con fero essempio.
Perchè fuggendo non scemò favilla
De la febre amorosa in tanta sete,
11Anzi al cor ne sentì più calde faci.
E dritto è ben ch'io fugga onde fugaci,
E cerchi dove sparga humor di Lethe,
14Homai più dolce fonte, e più tranquilla.

  • 1a. «Dopo così spietato»: dopo tante passioni e tante pene amorose, ama et arde come faceva, senza adempiere alcuno de' suoi desiderij.
  • 5a. «E s'intoppo non fosse»: gli impedimenti d'Amore posson esser molti ma il Poeta dice che questo era ingiusto e crudele.
  • 6a. «Al fonte di pietà»: ne la gratia de la sua Donna. Così disse il PETRARCA: «Se non fosse mia stella, io pur devrei | Al fonte di pietà trovar mercede».
  • 7b-8. «e pur ne' miei tormenti | Novo Tantalo fui con fero essempio»: assomiglia le sue pene a quelle di Tantalo.
  • 12. «E dritto è ben, ch'io fugga onde fugaci»: argutamente detto, ad imitatione de' Latini, che dissero «Latices fugaces».

LIII

Si pente d'haver troppo magnificamente parlato de la sua sofferenza, mentre è stato lontano da la sua Donna e prega Amore che se nel tormento è merito, non cessi di tormentarlo.

Era aspro e duro; e sofferir, sì lunge
Da que' begli occhi e dal sereno ciglio,
I' mi diè vanto, un grave e duro essiglio,
4Scevro d'Amor che l'alme insieme aggiunge.
Hor ch'ei mi sfida, e qual più a dentro punge
Saetta vibra, e quasi fero artiglio
Per farmi il fianco infermo e 'l sen vermiglio
8La mano adopra, che risana et unge.
Pentomi de' miei detti, e folle il vanto,
e 'l mio fermo sperar torna fallace,
11Nè superbo mi fa la penna o 'l canto.
Ardimi, Signor mio, con viva face
E trafigimi il cor senza mio pianto:
14Perchè merto è il martire, ov'ei si tace.

  • 1-2. «Era aspro e duro; e sofferir sì lunge | Da que' begli occhi e dal sereno ciglio»: è gentile imitatione di quel luogo di TIBULLO: «Asper eram et bene dissidium me ferre loquebar; | At mihi nunc longe gloria fortis abest».
  • 12. «Ardimi, Signor mio, con viva face»: continua ne l'imitatione de l'istesso poeta, che soggiunge: «Ure ferum, et torque, libeat nec dicere quicquam | Magnificum postae. Horrida verba doma».
  • 14. «Perch'è merto il martire, ov'ei si tace»: cioè che merita molto l'amante tacendo le sue pene e la crudeltà de la sua donna.

LIV

Dice al suo pensiero che nel formar l'imagine de la sua Donna vorrà insieme assomigliar Prometeo e l'avoltoio che gli rode il cuore.

Per figurar Madonna al senso interno,
Dove torrai, pensier, l'ombre e i colori?
Come depingerai candidi fiori,
4O rose sparse in bianca falda il verno?
Potrai volar su nel sereno eterno,
Et al più bel di tanti almi splendori
Involar pura luce e puri ardori,
8La vendetta del Cielo havendo a scherno?
Qual Prometeo darai l'alma e la voce
A l'Idol nostro e quasi humano ingegno,
11E tu insieme sarai l'augel feroce
Che pasce il core, e ne fa stratio indegno,
Vago di quel che più diletta e noce?
14O t'assicura Amor di tanto sdegno?

  • 1. «Per figurar Madonna al senso interno»: de' sensi alcuni sono esteriori, così detti propiamente, cioe il viso, l'udito, l'odorato, il gusto et il tatto. Altri interiori, come il senso comune e la fantasia. Intende adunq[ue] de la fantasia o de l'imaginatione che vogliam dirla.
  • 2. «Dove torrai, pensier, l'ombre e i colori»: assomiglia il pensiero al pittore, come habbiam detto altre volte.
  • 3-4a. «Come dipingerai candidi fiori, | E rose sparse»: come formerai la sua imagine sensibile, la qual ne le guance è somigliante a le rose, et a gigli.
  • 5. «Potrai volar su nel sereno eterno»: mostra di dubitarne, perche l'imaginatione de le cose sensibili è impedimento a la contemplatione de gli intellettuali.
  • 6. «Et al più bel di tanti almi splendori»: al sole.
  • 7. «Involar pura luce e puri ardori»: detto poeticamente, havendo risguardo a la favola di Prometeo.
  • 9-10. «Qual Prometheo darai l'alma e la voce | A l'Idol nostro, e quasi humano ingegno»: chiama «idolo» il fantasma, o vogliam dire l'interna imagine de la sua Donna.
  • 11. «Et insieme sarai l'augel feroce»: detto accortamente, che del medesimo pensiero sia effetto l'opera e la pena e ch'un istesso sia l'artefice e colui che gli dà il castigo.

LV

Dice che l'anima sua, vaga di luce, vola al cielo, ma poi allettata da l'esca de' piaceri, si torna a pascere nel volto de la sua Donna.

L'alma, vaga di luce e di bellezza,
Ardite spiega al ciel l'ale amorose,
Ma sì le fa l'humanità gravose
4Che le dechina a quel, ch'in terra apprezza.
E de' piaceri a la dolce esca avezza,
Ove in sereno volto Amor la pose,
Tra bianche perle e matutine rose,
8Par che non trovi altra maggior dolcezza.
E fa quasi augellin, ch'in alto s'erga
E poi discenda al fin ov'altri il cibi,
11E quasi volontario s'imprigioni.
E fra tanti del ciel graditi doni,
Sì gran diletto par che in voi delibi,
14Ch'in voi solo si pasce, e solo alberga.

  • 1. «L'alma, vaga di luce e di bellezza»: di luce non solamente sensibile, ma intellettuale, perchè ciascuno desidera naturalmente di sapere.
  • 2. «Ardite spiega al ciel l'ale amorose»: la natural forza de l'ali, come dice PLATONE nel Fedro, è d'innalzar le cose gravi in alto, dove habitano gli Iddij e dove si veggiono maravigliosi spettacoli de la divinità e de l'ordine co 'l quale essi governano. Però chiama «ardite» l'ale, cioè ardita l'anima, la qual osi di spiegarle per vedere et intendere i misteri divini e celesti.
  • 3. «Ma sì le fa l'humanità gravose»: cioè la natura del corpo materiale, da la quale ha principio la malitia: perchè la malitia, o la pravità, che vogliam dirla, è quella ch'aggrava l'ali.
  • 4. «Che le dechina a quel, ch' in terra apprezza»: a le cose che piacciono al senso.
  • 5. «E de' piaceri a la dolce esca avezza»: il cibo proprio de l'animo è la bellezza, la sapienza, la bontà: o più tosto il bello, il saggio et il buono de' quali nutrisce l'ali e l'accresce: ma per la bruttezza e per la malitia, e per le cose contararie, l'ali sogliono mancare. Il luogo dove si prende questo nutrimento è 'l campo de le verità, come dice PLATONE. Ma l'anima, che dechina a la sensualità, cerca l'esca de' piaceri nel volto de la sua Donna.
  • 9-10. «E fa quasi augellin, ch'in alto s'erga | E poi discenda»: non gli caggiono perche non si pasce di malitia e di bruttezza: ma discende da l'alto volo incominciato, perchè il suo diletto non è puro, nè simplice intellettuale, ma in qual che modo è mescolato co' piaceri del senso.

LVI

Parla con l'anima come non fosse con esso lui, ma co 'l suo diletto, invitandola a tornare al suo corpo, il quale per sè è freddo et immobile, acciò che insieme possano ritornare a la sua Donna.

Anima errante, a quel sereno intorno
Tu, lieta, spatij, e 'n que' soavi giri;
Io non so come viva e come spiri,
4Aspettando, dolente, il tuo ritorno.
Fra tanto, senza sole e negro il giorno,
Senza stelle la notte avien ch'io miri;
E son più de l'arene i miei desiri,
8E solo ho doglia dentro, e doglia intorno.
Alma, deh riedi, e co 'l tuo dolce lume
Riscalda questo freddo e grave incarco.
11- Torniamo, e so che aspetta Amore al varco. -
Dolce sarà morir di strale e d'arco,
Dolce stillar il gelo in caldo fiume,
14Dolce a quel foco incenerir le piume.

  • 1-2a. «Anima errante, a quel sereno intorno | Tu, lieta, spatii» così disse PETRARCA: «L'errante mia consorte» e chiama «error» de l'anima l'occuparsi troppo ne' pensieri de la sua Donna.
  • 2b. «e 'n que' soavi giri»: cioè de gli occhi suoi, a' quali pensava più ch'a l'altre cose.
  • 3a. «Io non so come viva»: l'anima par che sia dove essercita le sue operationi e fra le sue operationi principalissima è il pensare. Ma pensando de la sua donna, è con la sua Donna: aspetta adunque il suo ritorno e fra tanto non sa qual sia la sua vita, cio è come l'anima sensitiva essercita le sue operationi, non l'esercitando l'intellettiva.
  • 5a. «Fra tanto senza sole»: descrive lo stato d'uno infelice amante lontano da la sua Donna.
  • 9a. «Alma, deh riedi»: affettuosamente l'invita al ritorno.
  • 9b. «co 'l tuo dolce lume»: ha risguardo a quello: «Accendit Deus lumen in anima». Anzi l'anima stessa è lume.
  • 10a. «Riscalda»: al partir de l'anima i corpi freddi, come i cadaveri e quelli de' tramortiti, al ritornar, come si dice, de l'anima, si riscaldano.
  • 11a. «Torniamo»: cioè insieme co 'l corpo.
  • 12. «Dolce sarà morir di strale e d'arco»: affettuosamente detto.

LVII

Narra poeticamente come per guiderdone de l'amore gli fossero dati alcuni capelli avolti ne l'oro.

Amando, ardendo, a la mia Donna i' chiesi
Premio a la fede e refrigerio al foco,
Per cui piansi e cantai; hor fatto roco,
4Temo non siano i miei lamenti intesi.
Ella duo crini, ove i suoi lacci ha tesi,
E dove intrica Amor, quasi per gioco,
Mi diè ne l'oro avolti; e 'n picciol loco
8Grande incendio nascosto, io più m'accesi.
Facea il riso più bello il suo rossore,
e 'l suo rossore il riso, e 'n dolci modi
11Era stretto il mio cor d'ardenti nodi.
Io dissi: - Sotto l'auro è vivo ardore;
Ma, se non posso amar, s'ei non m'infiamma,
14Pur che viva l'amor, viva la fiamma. -

  • [1-2]. Contende co 'l gentilissimo et amoroso COTTA, poeta, fra' latini più moderni, di grandissima stima. Leggasi tutto quel suo dolcissimo henneasillabo: «Amo quod fateor meam Lycorim, | Ut pulchras iuvenes solent puellas. | Amat me mea, quod reor, Lycoris; | Ut bonae iuvenes amant puellae». Amava il Cotta et era riamato, com'egli credeva: nondimeno dimanda il premio, e doveva più tosto dimandare il segno: perchè 'l vero premio de l'amore, è l'amore. E forse non dimanda il maggior premio, ma praemiolum, ch'è un picciolissimo premio. Il Poeta, a l'incontro, non dimanda un picciol premio, ma assolutamente il premio, cioè d'essere amato, et insieme refrigerio al foco.
  • 5-7a. «Ella duo crini, ove i suoi lacci ha tesi, | E dove intrica Amor, quasi per gioco, Mi diè ne l'oro avolti»: il dono, ne l'uno e ne l'altro poeta è l'istesso: «[...] et capillum, | Qui pendens levibus vibratur auris, | Et formosa vagus per ora ludit, | Hunc secans trepida, implicansque in auro» etc. Il modo ancora co 'l quale si fa il dono, è il medesimo, perchè ne l'uno e ne l'altro si fa co 'l riso e co 'l rossore. «Ridebat simul, et simul pudebat» dice il COTTA.
  • 9-10a. «Facea il riso più bello il suo rossore, | E 'l suo rossore il riso» dice il Poeta, ma diversa è la conclusione: il COTTA non vuol arder, ma amare, cioè non vuol amare con passione: «Parce nam volo amare, non peruri». Il TASSO con maggiore affetto, conchiude [13-14]«E se non posso amar, s'ei non m'infiamma, | Pur che viva l'amor, viva la fiamma».

LVIII

Dice che fra gli infiniti colpi de la nemica Fortuna, a pena è conosciuto quello d'Amore.

Fra mille strali, onde Fortuna impiaga
Il mio cor sì, che per ferita nova
Spatio non resta, oimè, loco ritrova
4Cara d'Amor saetta, e cara piaga.
Ne l'alma ancor de la salute è vaga,
Chè se ben ella di sanar fa prova
Ogni altro colpo, hor d'inasprir le giova
8Quella dolce percossa e se n'appaga.
Ma sì chiusa e secreta in sè la serba
Ch'Amore stesso ancor non se n'accorge,
11Nè fra ben mille colpi il suo discerne.
Lasso, e Fortuna che le pene interne
Non vede e sol di pianto i rivi scorge,
14Sua stima l'opra, e se 'n va più superba.

  • 1a. «Fra mille strali» mirabil cosa è ch'Amore il quale è nato d'otio e di lascivia humana, nutrito di pensier dolci e soavi, trovi luogo alcuno tra noiosi pensieri de l'animo, i quali il Poeta chiama piaghe de la Fortuna. Saettano dunque in lui per farlo infelice, Amore e la Fortuna, quasi duo arcieri in un solo bersaglio. Ma le saette de la Fortuna son molte, cioè molte sono l'aversità, e uno solamente è l'amore, o una solamente è la percossa d'Amore.
  • 5. «Nè l'alma ancor de la salute è vaga»: ciascuno mal volentieri patisce l'aversità: ma l'amore è infermità voluntaria, e gli sfortunati vorrebbono divenir fortunati, ma gli amanti non torrebbono d'esser non amanti.
  • 7b-8. «e d'inasprir le giova | Quella dolce percossa»: l'inasprir le passioni amorose è una medicina et un modo di ricuperar la sanità, s'egli è fatto debitamente, ma essendo fatta altrimenti, accresce l'infermità; cioè il pensar a la crudelità de la Donna, con intentione di liberarsi da l'amore, è cagion di salute. Ma il compiacersi d'alcun atto crudele, con speranza di maggior premio, o di piacere, o gloriarsi della sofferenza amorosa, accresce l'infermità de gli amanti.
  • 9. «Ma sì chiusa e secreta in sè la serba» il pensiero è così secreto, ch'Amore non se n'avede, cioe la sua Donna.
  • 11. «Ne fra ben mille colpi il suo discerne»: non può creder ch'uno sventurato sia amante. Concetto assai simile a questo si legge ne l'Interpretatione del Sig[nor] LORENZO DE' MEDICI.
  • 12a. «Lasso, e Fortuna»: non è vinto da la Fortuna, ma da l'Amore. E la Fortuna si gloria di quella vittoria, che non è sua propria.

LIX

Dice d'esser invitato ad [un novo] amore, ma spaventato da l'essempio de gli infelici amanti.

Ben veggio avinta al lido ornata nave,
E 'l nocchier che m'alletta, e 'l mar che giace
Senza onda, e 'l freddo Borea et Austro tace,
4E sol dolce l'increspa aura soave.
Ma l'aria e 'l vento e 'l mar fede non have:
Altri, seguendo il lusingar fallace,
Per notturno seren già sciolse audace
8C'hora è sommerso, o va perduto e pave.
Veggio trofei del mar, rotte le vele,
Tronche le sarte e biancheggiar l'arene
11D'ossa insepolte, e 'ntorno errar gli spirti.
Pur, se convien che questo Egeo crudele
Per Donna solchi, almen fra le Sirene
14Trovi la morte, e non fra scogli e sirti.

  • 1. «Ben veggio avinta al lido ornata nave»: la metafora continuata è allegoria, come in quel sonetto del PETRARCA: «Passa la nave mia, colma d'oblio» et in questo. Benchè in questo il Poeta non dichiari tanto se medesimo. La nave ornata vicino al lido significa l'occasione pronta et opportuna d'amare. Il nocchiero ch'invita, è Amore. Il mar che giace senza onda, è il tranquillo stato d'amore. Austro e Borea, che sonio venti vehementissimi et opposti, significano le passioni smoderate, imperochè l'affetto (come dicono gli Stoici) è un movimento de l'animo assai vehemente e contrario a la diritta ragione, ma particolarmente per questi due venti sono significati il piacer e 'l dolore.
  • 4. «E sol dolce l'increspa aura soave»: intende il piacere, od altro affetto moderato, il qual propriamente non possa dirsi perturbatione.
  • 5a. «Ma l'aria, e 'l vento, e 'l mar»: in queste parti si osservano i segni e si fanno i pronostici de la tranquillità e de la tempesta. Però vuol significare che le promesse son fallaci e i presagij sono incerti. Ma i [9]«trofei del mar», «vele rotte» e [10]«tronche sarte», sono figure de gli infelici casi de gli amanti, e de' loro infortuni.
  • 12. «Pur se convien che questo Egeo crudele»: s'è convenevole ch'egli ami, o necessario, desidera più tosto di morir fra le Sirene, che significano i piaceri, che fra gli scogli e le sirti, per le quali s'intendono gli odij e gli sdegni senza lusinghe e le nimicitie e l'altre aversità et impedimenti che si trovano ne l'amare.

LX

Dice d'haver veduto altre volte la sua Donna assai pietosa, ma hora per occulta cagione se li mostra così crudele che egli n'aspetta la morte.

Io vidi un tempo di pietoso affetto
La mia nemica ne' sembianti ornarsi,
E l'alte fiamme, in cui di subito arsi,
4Nudrir con le speranze e co 'l diletto.
Hora non so perchè la fronte e 'l petto
Usa di sdegno e di fierezza armarsi,
E con guardi ver me turbati e scarsi
8Guerra m'indice, ond'io sol morte aspetto.
Ah, non si fidi alcun, perchè sereno
Volto l'inviti e piano il calle mostri,
11Amor, nel regno tuo spiegar le vele.
Così l'infido mar, placido il seno
Scopre a' nocchieri incauti, e poi crudele
14Gli affonda e perde infra gli scogli e i mostri.

  • [1-14]. Con l'istessa similitudine del mare dimostra l'inconsistenza de la sua Donna, e la sua mutata fortuna.
  • 1. «Io vidi un tempo di pietoso affetto»: così il PETRARCA: «Vidivi di pietate ornare il volto».
  • 4a. «Nudrir con le speranze»: di conseguire il fine co 'l diletto de la vista e de l'udito.
  • 8a. «Guerra m'indice»: elocutione latina (indicere bellum), usata prima dal BEMBO: «Colei che guerra a' miei pensieri indice».
  • 9-10a. «Ah, non si fidi alcun, perchè sereno | Volto l'inviti»: ammaestramento a' gioveni di non amare e di non credere agevolmente.
  • 10b. «piano il calle»: perchè aequor latinamente fu detto da l'equalità.

LXI

Dimostra la sua antica costanza e la nuova incostanza de la sua Donna esser molto diverse.

Quanto più ne l'amarvi io son costante
E nel mostrar ne gli occhi aperto il core,
Tanto nel finger voi che 'l puro ardore
4Non veggiate ne gli occhi e nel sembiante.
Che farò dunque? Andrò pur anco avante,
e 'n questo mar del mio nemico Amore
La nave crederò del mio dolore,
8Ad Euro adverso, disperato amante?
O sembrerò nocchier, che pioggia ed orza
Ne l'onde d'Adria alterna o nel Tirreno,
11Mutando il corso, ov'è soverchia forza?
Ma per turbato cielo e per sereno,
Prender con ogni vento alfin si sforza
14Solo un tranquillo porto, un dolce seno.

  • [1-14]. Ne l'incostanza de la Fortuna, la costanza de l'amante può essere simile a quella de l'huomo di Repubblica descritta da CICERONE: «Sed ut in navigando tempestati obsequi artis est etiam si portum tenere non queas, cum vero id possis mutata velificatione assequi, stultum est etiam tenere cum periculo cursum, quem coeperis potius quam eo commutato, quo velis eo tamen pervenire». Il Poeta nondimeno parla com'amante che disprezzi i pericoli: nondimeno ne l'amor del senso, ch'è significato per questo mare perturbato da le passioni, non può esser vera costanza.

LXII

Ne la disperatione de la gratia de la sua Donna, chiama la morte.

Vissi. E la prima etate Amore e speme
Mi facean via più bella, e più fiorita;
Hor la speranza manca, anzi la vita,
4Che di lei si nudria, s'estingue insieme.
Nè quel desio, che si nasconde e teme
Può dar conforto a la virtù smarrita,
E toccherei di morte a me gradita,
8Se non posso d'Amor, le mete estreme.
O morte, o posa in ogni stato humano,
Secca pianta son io, che fronda a' venti
11Più non dispiega, e pur m'irrigo in vano.
Deh, vieni, morte soave, a' miei lamenti,
Vieni o pietosa, e con pietosa mano
14Copri questi occhi, e queste membra algenti.

  • 1a. «Vissi»: parola usata ne la disperatione e nel proponimento di morire. Così VERGILIO parlando in persona de la disperata Didone: «Vixi, et quem dederat cursum fortuna peregi».
  • 3a. «Hor la speranza manca»: già s'è detto che la speranza è uno de' nodrimenti de gli amanti.
  • 5. «Nè quel desio, che si nasconde e teme»: intende Amore. Così disse PETRARCA: «Ivi s'asconde, e non appar più fore».
  • 7a. «E toccherei di morte»: la morte non è fine, come dice ARISTOTELE, ma termine. Ma la meta ha ragione di termine e di fine. Il Poeta segue EURIPIDE, il quale aveva detto: «ὅθἱἡλικoσδ᾿ καπὶ | τερμ᾿ ἥκον Βἵο».
  • 9a. «O morte»: chiama la Morte.
  • 10a. «Secca pianta»: assomiglia la disperatione a la pianta che non può verdeggiare.
  • 12a. «Deh vieni, o morte»: torna a chiamarla con parlar pathetico.

LXIII

Spera il Poeta ch'essendo la crudeltà de la sua Donna superata da la bellezza, possa al fine esser vinta da la pietà.

O più crudel d'ogn'altra, e pur men cruda
A gli occhi miei, che bella e men guerrera
Fostù, quanto sei bella, acerba e fera
4Perchè questi occhi lagrimando i' chiuda.
Ma quando io veggio la man bianca ignuda
E la sembianza humilemente altera,
Dico a l'anima vaga: - Ardisci, e spera,
8Ch'esser non può, ch'ogni mio prego escluda.
Però, se crudeltà cotanto perde
Da la bellezza in lei, sarà pur anco
11Vinta da la pietà, che v'è nascosa. -
Così l'amor, pensando, in me rinverde,
Hor satio no, ma d'aspettar già stanco
14C'homai vi faccia la beltà pietosa.

  • 1a. «O più crudel»: era la sua Donna crudele e bella, ma più bella che crudele, laonde la crudeltà non poteva ucciderlo, perchè la bellezza il teneva in vita, ma in vita penosa e piena d'affanno. Desidera dunque che la crudeltà sia eguale a la bellezza, acciochè possa più agevolmente dargli la morte.
  • 5a. «Ma quando io veggio»: da la bellezza dimostratagli e da l'humiltà che temperava l'alterezza, prende qualche speranza.
  • 9a. «Però se crudeltà»: prende la cagione perch'egli speri, fondata sovra la natura, perchè le belle sogliono essere pietose.

LXIV

Mostra di sperare che 'l tempo debba far le sue vendette contra la sua Donna, in guisa ch'ella ne la vecchiezza debba pentirsi d'haverlo sprezzato e desiderar d'esser celebrata da lui.

Vedrò da gli anni, in mia vendetta ancora,
Far di queste bellezze alte rapine;
Vedrò starsi negletto e bianco il crine
4Che la Natura e l'arte increspa e dora.
E su le rose, ond'ella il viso infiora,
Spargere il verno poi nevi e pruine:
Così il fasto e l'orgoglio havrà pur fine
8Di costei, ch'odia più chi più l'honora.
Sol penitenza all'hor di sua bellezza
Le rimarrà, vedendo ogn'alma sciolta
11Da gli aspri nodi suoi, ch'ordia per gioco.
E se pur tanto hor mi disdegna e sprezza,
Poi bramerà ne le mie rime accolta,
14Rinovellarsi qual Fenice in foco.

  • 1a. «Vedrò da gli anni»: tratta uno argomento trattato prima da HORATIO: «O superba, et Veneris muneribus potens» et poi dal BEMBO: «O crudele, o superba, o di bellezza | E d'ogni don del ciel ricca e possente».
  • 4. «Che la Natura e l'arte increspa e dora»: a la natura attribuisce l'indorare, cioè il far simile a l'oro; a l'arte l'increspare, che volgarmente si dice far i ricci, usanza comune de le donne d'Italia.
  • 5. «E su le rose, ond'ella il viso infiora»: «ella» si referisce a la natura, cioè sovra il vermiglio color de le gote.
  • 6. «Spargere il verno poi nevi e pruine»: «verno» chiama la vecchiezza metaforicamente; «nevi e pruine» il color, in questo luogo i colori, del volto già invecchiato e fatto esangue. E continua ne la metafora de la rosa.
  • 7a. «Così il fasto e l'orgoglio»: cioè la superbia nata da la bellezza.
  • 9. «Sol penitenza all'hor di sua bellezza»: de la bellezza male usata, o troppo superbamente estimata.
  • 12. «E se pur tanto»: crescerà con l'età il desiderio di fama; et in ciò si dimostra il Poeta assai più modesto d'HORATIO e de gli altri che scrissero in questa materia, parlando de la sua Donna e de la vecchiezza medesima con maggior riverenza.

LXV

Dice a la sua Donna che quando ella sarà vecchia, non rimarrà d'amarla.

Quando havran queste luci e queste chiome
Perduto l'oro e le faville ardenti,
E l'arme de' begli occhi, hor sì pungenti,
4Saran dal tempo rintuzzate e dome,
Fresche vedrai le piaghe mie, nè come
In te le fiamme, in me gli ardori spenti;
E rinovando gli amorosi accenti,
8Alzerò questa voce al tuo bel nome.
E 'n guisa di pittor, che 'l vitio emende
Del tempo, mostrerò ne gli alti carmi
11Le tue bellezze in nulla parte offese.
Fia noto all'hor, ch'a lo spuntar de l'armi,
Piaga non sana, e l'esca un foco apprende
14Che vive quando spento è chi l'accese.

  • 1. «Quando havran queste luci, e queste chiome»: «questa» si dà a cosa vicina. Così disse il PETRARCA intendendo de gli occhi de la lingua latina, cioè di Marco Tullio e di Virgilio: «Questi son gli occhi de la lingua nostra».
  • 2. «Perduto l'oro e le faville ardenti»: rende a ciascuna cosa il suo proprio: cioè l'«oro» a le chiome, le «faville» a gli occhi.
  • 3a. «E l'arme de' begli occhi»: ad imitatione del PETRARCA, come s'è detto altre volte: «L'arme tue furon gli occhi, onde l'accese | Saette usciron d'invisibil foco».
  • 5-6. «Fresche vedrai le piaghe mie, nè come | In te le fiamme, in me gli ardori spenti»: «piaghe» et «ardori» chiama i desideri e le passioni amorose; «fiamme» et «armi» le bellezze de la sua Donna.
  • 8. «Alzerò questa voce al tuo bel nome»: imitatione del PETRARCA: «Perchè la voce al tuo nome rischiari».
  • 9. «E 'n guisa di pittor, che 'l vitio emende»: in guisa di pittore che dipingendo altrui giovene, ricopra i difetti de la vecchiezza.
  • 12-13a. «Fia noto all'hor, ch'a lo spuntar de l'armi, | Piaga non sana»: è imitatione del PETRARCA: «Piaga per allentar d'arco non sana», imperochè non sempre al cessar de le cagioni cessano gli effetti. Ma questa regola patisce qualch'eccettione.

LXVI

Dice de quando egli sarà vecchio, non resterà d'amare e di celebrar la sua Donna.

Quando vedrò nel verno il crine sparso
Haver di neve e di pruina algente,
E 'l seren del mio giorno, hor sì lucente,
4Co 'l fior de gli anni miei fuggito e sparso,
Al tuo bel nome io non sarò più scarso
De le mie lodi, o de l'affetto ardente;
Nè fian dal gelo intepidite o spente
8Quelle fiamme amorose, ond'io son arso.
Ma se rassembro augel palustre e roco,
Cigno parrò lungo il tuo nobil fiume,
11C'habbia l'hore di morte homai vicine.
E quasi fiamma, che vigore e lume
Ne l'estremo riprenda inanzi al fine,
14Risplenderà più chiaro il vivo foco.

  • 1a. «Quando vedrò nel verno» per «verno» intende la vecchiezza, come intese Monsignor DE LA CASA de la sua vecchiaia, quando egli disse: «E questa al foco tuo contraria bruma».
  • 1b-2. «il crine sparso | Haver di neve e di pruina algente»: dice metaforicamente quel ch'il PETRARCA havea detto allegoricamente: «Già su per l'alpi neva d'ogn'intorno».
  • 3a. «E 'l seren del mio giorno»: la pace e la tranquillità del suo stato perduta con la sua giovinezza: e questo dice quasi certo, e tristo indovino de' suoi danni.
  • 7. «Nè fian dal gelo intepidite o spente»: dal freddo de la vecchiezza. Non molto diversamente disse VIRGILIO: «Sed enim gelidus tardante senecta sanguis hebet».
  • 10. «Cigno parrò lungo il tuo nobil fiume, | Che già l'hore di morte habbia vicine»: imita OVIDIO, che nell'epistola di Didone disse: «Sic ubi fata vocant, udis abiectus in herbis | Ad vada Maeandri concinit albus olor» etc.
  • 12. «E quasi fiamma, che vigore e lume»: a la comparatione del cigno, il qual vicino a la morte canta più dolcemente, aggiunge quella de la candela, ch'inanzi al suo fine par che mostri maggior lume.

LXVII

Mostra la sua costanza ne l'amore e la fermezza nel proponimento.

Benchè Fortuna al desir mio rubella
Ogn'hor si mostri, e dispietato Amore,
E l'altrui sdegno, Donna, e 'l mio dolore
4Faccian turbata la mia vita e fella,
Non può sorte crudele o fera stella
Far men costante in adorarvi il core;
Nè pur men chiaro il mio soave ardore
8Con pianto e con sospiri, onda o procella.
Nè torcer mai da l'immortale obietto
L'anima inamorata, a cui l'affisse
11Il suo piacer, nè la respinse orgoglio.
Perchè vostra sarà, com'ella visse,
Sino a la morte, e per intenso affetto
14Volli una volta, e disvoler non voglio.

  • 1. «Benchè Fortuna al desir mio rubella»: cioè nemica.
  • 2a. «Ogn'hor si mostri»: non alcuna volta, com'ella suol fare, ma in tutte l'occasioni.
  • 2b. «e dispietato Amore»: per la crudeltà d'Amore significa la volontà de la sua Donna aversa; per quella de la Fortuna accenna l'animo de' Principi poco favorevoli, imperoch'essi soglion dare e togliere i beni de la Fortuna.
  • 5a. «Non può sorte crudele»: la mia costanza non è superata da la Fortuna, o da le stelle.
  • 7a. «Nè pur men chiaro»: cioè nè i pianti, nè i sospiri possono fare il mio amore, e men chiaro et famoso.
  • 9b. «da l'immortale obietto»: de la bellezza de l'animo, il quale è immortale.
  • 13b-14. «per intenso affetto | Volli una volta, e disvoler non voglio»: non voglio mutar volontà e quella elettione c'ho fatta d'amarvi. E dice «voglio» perchè l'elettione e la volontà ancora è libera, laonde può volere, e non volere. Elegge nondimeno di volere. E questo pare costantissimo amor d'elettione fondato ne la virtù de l'animo. Quell'altro in cui si dice «Ogni voler, e disvoler m'è tolto», par ch'attribuisca l'amore al Fato et a la necessità, e privi l'amante del libero arbitrio.

LXVIII

Dice che 'l mondo non ha maggior maraviglia del crine de la sua Donna, ma si duole ch'a pena si veda là verso la sera.

Perch'altri cerchi, peregrino errante,
La bella Europa ove il dì poggi o 'nchini,
Meraviglia maggior de' biondi crini
4Non vide ancora, o di sì bel sembiante.
Ne là dove indurossi il vecchio Atlante,
O l'Asia inalza i monti al ciel vicini;
Nè fra suoi lumi ancor, lumi divini,
8Benchè si mostri il sol nel suo levante.
Ma se pur veggio fiammeggiar tra loro
Due volte il giorno l'amorosa stella,
11Perch'una voi sì tardi in terra honoro?
E ben vincete e questa luce e quella;
E se mostraste al sole i capei d'oro,
14Fareste vergognar l'Alba novella.

  • 1-2a. «Perch'altri cerchi, peregrino errante, | La bella Europa»: è imitatione di MENOFILO DAMASCENO di cui si leggono alcuni versi appresso STOBEO: «Europam Africam et Asiam omnem peregrans | Miracula infinita, egregiadum erroribus angor varijs, et molestijs | Tale autem Iubar nunquam inspexi nec in Olimpo».
  • 9a. «Ma se pur veggio»: havendo paragonato le chiome de la sua Donna a' lumi celesti, si lamenta che la stella di Venere appaia inanzi al nascer del sole, e dapoi ch'egli è tramontato: e la sua Donna mostra i suoi capelli solamente verso la sera. Conchiudendo poeticamente, che se gli mostrasse la mattina, farebbe vergognar l'alba.
  • 10a. «due volte il giorno»: perchè in un giorno medesimo la medesima stella appare la mattina e la sera, come fu opinione d'OLIMPIODORO ne la Meteora, e de l'interprete ch'egli cita, il qual disse che solamente la stella di Venere si poteva chiamare orientale et occidentale, perch'in un giorno medesimo può apparire mattina e serotina, per così dire. E fu prima opinione di CALLIMACO in que' versi: «Hesperum diligunt. Eoum odio habent | Ita et Veneris sydus eoum, et occiduum est | Eoum quidem quia prius solem ortum facit. | Hesperium rursus quoniam etiam ab ocasu solis terris affulget». Questa opinione ha voluto seguire il Poeta, quantunque il FRACASTORO ne' suoi Homocentrici porti molto diversa opinione, dicendo «Utraque vicissitudo praecedendi solem, ac insequendi novem mensibus sit, diebus 23». TOLOMEO nondimeno nel suo Almagesto, vuole che quando Venere è nel principio de' Pesci, da l'orto matutino al suo occaso vespertino, sia quasi il tempo di duo giorni.

LXIX

Mostra che così lo sdegno come la pietà de la sua Donna lo sprona ad amare.

Qual'hor Madonna i miei lamenti accoglie
E mostra di gradire il foco onde ardo,
Sprona il desio, che più di tigre o pardo,
4Veloce all'hor da la ragion mi scioglie.
Ma se temprando l'infiammate voglie
Di sdegno s'arma, e vibra irato sguardo,
Già far non può quel corso pigro e tardo.
8Ma par che più m'affretti, e più m'invoglie.
Perchè l'orgoglio, s'addolcisce e prende
Sembianza di pietate, e 'n quel sereno
11Sono tranquilli ancor gli sdegni e l'ire.
Hor chi fia mai ch'arresti il mio desire,
S'egualmente lo spinge e pronto il rende,
14Con sembiante virtù, lo sprone e 'l freno?

  • 1. «Qual'hor Madonna i miei lamenti accoglie»: cioè ascolta cortesemente. Così disse il PETRARCA: «Sola i tuoi detti, te presente, accolsi». O significa ricever in iscritto [i] versi d'amore e i lamenti, come ne l'uno e ne l'altro luogo può significare.
  • 2. «E mostra di gradire il foco, ond'ardo»: l'amore, di cui sono acceso.
  • 3a. «Sprona il desio»: le benigne accoglienze de la Donna soglion far l'amante più cupido e volonteroso. Gli sdegni e le ripulse, all'incontro, più timido, come disse il PETRARCA in persona di Laura nel secondo Trionfo de la Morte. Ma il Poeta dice ch'in lui non solo i soavi e dolci sguardi de la sua Donna, ma i turbati e sdegnosi, faceano il medesimo effetto d'infiammarlo, dico, e di spronarlo, tanta era la forza de la bellezza e la piacevolezza del viso.
  • 12. «Hor chi fia mai ch'arresti il mio desire»: dispera che 'l suo prontissimo desiderio possa esser da alcun morso ritenuto.

LXX

Chiama felice un'ape la quale havea morso un labro de la sua Donna, mentre ella, doppo lungo passeggiare, sedeva in un giardino.

Mentre Madonna s'appoggiò pensosa,
Dopo i suoi lieti e volontari errori,
Al fiorito soggiorno, i dolci humori
4Depredò, sussurrando, ape ingegnosa;
E ne' labri nudria l'aura amorosa
Al sol de gli occhi suoi perpetui fiori;
E volando a' dolcissimi colori,
8Ella sugger pensò vermiglia rosa.
Ah, troppo bello error, troppo felice:
Quel ch'a l'ardente et immortal desio
11Già tant'anni si nega, a lei pur lice.
Vile ape, Amor, cara mercè rapio:
Che più ti resta, s'altri il mel n'elice,
14Da temprar il tuo assentio e 'l dolor mio?

  • 1. «Mentre Madonna s'appoggiò pensosa»: ad un tronco di lauro, o ad altra cosa sì fatta.
  • 2. «Dopo i suoi lieti e volontari errori»: chiama «errori» volontari l'andare a diporto, senza fermo proponimento d'esser più in uno ch'in altro luogo. Così ancora diciamo gli errori d'Ulisse e d'Enea, perch'andarono, o furono trasportati, in varie parti, oltre la loro intentione.
  • 3a. «Al fiorito soggiorno»: al giardino.
  • 3b. «i dolci humori»: cioè de fiori rugiadosi.
  • 4. «Depredò, sussurrando, ape ingegnosa»: l'api son dette «ingegnose» per la memoria, imperochè son ricordevoli del verno, o per la fabrica de le celle di sei angoli, le quali si fanno a guisa d'architetto. Come accennò VERGILIO in quel luogo: «…Grandevis oppida curae | Et munire favos, et Daedala fingere tecta». E più chiaramente l'esplicò in quell'altro: «Esse apibus partem divinae mentis, et haustas | Aeterios dixere».
  • 5. «E ne' labri nudria»: metafora spesse volte usata dal Poeta.
  • 8. «Ella sugger pensò»: l'ape, ingannata dal colore, morse i labri de la sua Donna in vece d'un fiore.
  • 9. «Ahi troppo bello error»: quasi fosse guidato da una providenza non errante.
  • 12. «Vile ape, Amor, cara mercè rapio»: chiama i baci mercede, perchè son premi d'Amore.

LXXI

Assomiglia a la Fortuna la sua Donna, la quale egli havea veduta co' capegli sparsi su la fronte.

Costei, che su la fronte ha sparso al vento
L'errante chioma d'or, Fortuna pare;
Anzi è vera Fortuna, e può beare
4E misero può far del più contento.
Dispensatrice no d'oro o d'argento,
O di gemme che mandi estraneo mare,
Ma i tesori d'Amor, cose più care,
8Fura, dona e ritoglie in un momento.
Cieca non già, ma solo a' miei martiri
Par che s'infinga tale, e cieco huom rende
11Con due luci serene e sfavillanti.
Chiedi qual sia la rota ove gli amanti
Travolve e 'l corso lor ferma e sospende?
14La rota fanno hor de' begli occhi i giri.

  • 2b. «Fortuna pare»: perchè 'n questa guisa si dipinge la Fortuna e l'occasione.
  • 3a. «Anzi è vera Fortuna»: il prova da gli effetti: perchè può far misero di felice, e di felice misero, quasi volendo accennare ch'egli non conosce altra Fortuna.
  • 5a. «Dispensatrice no»: ha mostrato in qual cosa sian simili la sua Donna e la Fortuna. Hor mostra in che sian differenti.

LXXII

Mostra d'essersi aveduto d'un nuovo amore de la sua Donna ne la pallidezza e ne' sospiri, ma di non sapere a punto quale egli si sia.

Io veggio, o parmi, quando in voi m'affiso
Un desio che v'accende et inamora,
A quel vago pallor che discolora
4Le rose e i gigli del fiorito viso;
E dove lampeggiava un dolce riso,
Languidi e rochi mormorar tal'hora
Odo i fidi messaggi, e l'aria e l'ora
8Ch'aura a punto mi par di paradiso
E ben io, vago di saper novella
De' secreti del core, il ver ne spio.
11Ma questo solo par che si riveli:
- Quel che ci move è giovenil desio,
Pur qual bellezza invoglia alma sì bella,
14Sola ella sa, che vuol ch'altrui si celi. -

  • 1. «Io veggio, o parmi, quando in voi m'affiso»: conosco, o credo di conoscere, mentre vi rimiro, che sete inamorata.
  • 3-4a. «A quel vago pallor che discolora | Le rose e i gigli»: la pallidezza è un de' segni de gli amanti, come disse HORATIO «Et tinctus viola pallor amantium», et a sua imitatione il PETRARCA: «Un color di viola, e d'amor tinto».
  • 4b. «del fiorito viso»: ad imitatione di TEOCRITO che disse «fiorito colore».
  • 5. «E dove lampeggiava un dolce riso»: ne la bocca.
  • 7a. «Odo i fidi messaggi»: i sospiri.
  • 9-10a. «E ben io, vago di saper novella | De' secreti del core»: i sospiri possono palesar l'amore, ma non così agevolmente questo, o quell'altro amore.

LXXIII

Ne l'andata de la sua Donna a Comacchio, invita poeticamente le Ninfe ad honorarla.

Cercate i fonti e le secrete vene
De l'ampia terra, o Ninfe, e ciò ch'asconda
Di pretioso il mar, ch'intorno inonda
4I salsi lidi e le minute arene.
E portatelo a lei, che tal se 'n viene,
Ne la voce e nel volto, a l'alta sponda,
Qual vi parve la Dea che di feconda
8Spuma già nacque, o pur vaghe Sirene.
Ma di coralli e d'or, di perle e d'ostri
Qual don sarà, che per sì schivo gusto,
11Paga di se medesma, ella non sdegni?
Se non han pregio i vostri antichi regni,
O straniero o natio, che 'n spatio angusto
14Ella molto più bello in sè no 'l mostri?

  • 1-2a. «Cercate i fonti, e le secrete vene | De l'ampia terra, o Ninfe»: poetica descrittione de' fiumi e de le miniere.
  • 2b-3a. «ciò ch'asconda | Di pretioso»: l'oro, l'argento, i coralli e le perle e l'altre cose ch'Egli dichiara appresso.
  • 5. «E portatelo a lei, che tal se 'n viene»: l'assomiglia nel volto a Venere, ne la voce a le Sirene.
  • 7-8. «Qual vi sembrò la Dea che di feconda | Spuma fuor nacque»: intende di Venere.
  • 9a. «Ma di coralli e d'or»: loda poeticamente la bellezza de la sua Donna, nella quale paiono raccolti insieme tutti i doni de la natura.

LXXIV

Al Po, essortandolo poeticamente a ricuperare la sua Donna, la qual era andata a Comacchio.

Re de gli altri superbo, altero fiume,
Che qualhor esci del tuo regno e vaghi,
Atterri ciò ch'opporsi a te presume,
4E l'ime valli e l'alte piagge allaghi,
Vedi gli Dei marini e 'l lor costume,
Gli Dei di nobil preda ogn'hor più vaghi,
Rapir costei, ch'era tua gloria e lume,
8Quasi il tributo usato hor non gli appaghi.
Homai solleva incontra il mar tiranno
I tuoi seguaci, e pria ch'ad altro aspiri,
11Racquista il sol, che qui s'annida e nacque.
Osa pur: chè mille occhi homai ti danno
Mille fiumi in soccorso, e i lor sospiri
14Gli potranno infiammar le rive e l'acque.

  • 1. «Re de gli altri superbo, altero fiume»: parla al Po, cominciando da un de' versi del PETRARCA ad imitatione nondimeno di VERGILIO, il qual disse: «Fluviorum rex Eridanus».
  • 2. «Che qualhor esci del tuo regno»: chiama «regno» il suo letto.
  • 3. «Atterri ciò ch'opporsi a te presume»: parla de l'inondationi del Po, di cui VERGILIO: «Cum stabulis armentra trahit, etc.».
  • 5a. «Vedi gli Dei marini»: finge che la sua Donna essendo ritenuta in Comacchio, città maritima, fu rapita da gli Dei del mare.
  • 9-10a. «Homai solleva incontra 'l mar tiranno | I tuoi seguaci»: chiama «tiranno» il mare per la violenza, come HORATIO prima havea chiamato il vento. Può ancora haver riguardo a' versi d'HORATIO, ne' quali spesso è chiamato Nettuno.

LXXV

Descrive con modi poetici e maravigliosi la bellezza de la sua Donna, assomigliandola al sole.

I freddi e muti pesci usati homai
D'arder qui sono, e di parlar d'amore;
E tu, che 'l vento e l'onde acqueti, hor sai
4Come rara bellezza accenda il core,
Poi ch'in voi lieti spiega i dolci rai
Il sol che fu di queste sponde honore,
Il chiaro sol, cui più devete assai,
8Ch'a l'altro uscito del sen vostro hor fore.
Chè quegli ingrato, a cui non ben soviene
Come è da voi nudrito, e come accolto,
11V'invola il meglio, e lascia 'l salso e 'l greve.
Ma questi con le luci alme e serene
V'affina e purga, e rende il dolce e 'l leve,
14Et assai più vi dà, che non v'è tolto.

  • 1a. «I freddi e muti pesci»: «freddi» chiama i pesci, perchè stanno ne l'elemento freddo et humido; «muti», perchè non respirano.
  • 1b-2. «usati homai | D'arder qui sono, e di parlar d'amore»: anthiteti, o contraposti.
  • 5. «Poi ch'in voi lieto spiega i dolci rai»: «dolci rai», dice, trasportando al senso de la vista quello ch'è obietto del senso del gusto, come fece DANTE dicendo «Dolce color d'oriental zaffiro». Et altrove: «Non fiere gli occhi tuoi il dolce lume». Il PETRARCA parimente disse: «Dolci rai», «dolci lumi», «dolci occhi».
  • 6. «Il sol che tu di queste sponde honore»: chiama «sole» la sua Donna come in altri luoghi, e paragona i suoi maravigliosi effetti con quelli del sole.
  • 9a. «Che quegli ingrato»: tocca l'opinione d'alcuni filosofi ch'il sole sia cagione de la salsedine del mare, perchè attraendo le parti più sottili e più dolci de l'acque, lascia le più amare e più gravi.

LXXVI

Segue le medesime descrittioni.

Sceglieva il Mar perle, rubini ed oro,
Che quasi care spoglie e ricche prede
Di tante sue vittorie ancor possiede,
4E del suo proprio e suo maggior tesoro,
Per donarlo a costei, che Giove in toro
Cangiar farebbe, e per baciarle il piede.
E mentre bagna più l'arena, o cede,
8Parea dir mormorando, in suon canoro:
-O Ninfa, o Dea, non de l'oscuro fondo
Uscita, ma dal ciel, che mia fortuna
11Placida rendi all'hor che tutta imbruna,
Te seguo in vece di mia vaga Luna:
Deh, non fuggir se pur m'avanzo e inondo,
14Chè lascio i doni, e torno al mio profondo.

  • 1. «Sceglieva il Mar, perle, rubini ed oro»: «doni del mare» gli chiama, havendo riguardo a quelli ch'egli produce.
  • 2b. «prede»: per rispetto de' naufragij ne' quali molte ricchezze son sommerse.
  • 5a. «Per donarlo a costei»: l'assomiglia ad Europa, la qual si diportava sopra il lito del mare con le compagne, quando da Giove trasformato in toro, fu portata in Candia per l'alto mare.
  • 9a. «O Ninfa, o Dea»: introduce il mare a parlar meravigliosamente, come inamorato de la sua Donna, dicendo che seguita i suoi movimenti in vece di quelli de la luna, la quale è creduta cagione del flusso e del riflusso, e si ritira per non darle occasione di sdegno, lasciando sul lido quei doni ch'egli haveva portati.

LXXVII

Prima chiede a' lidi et a' porti del mare che gli insegnino ove la sua Donna sia a pescare, poi mostra di veder tirar la rete.

Palustri valli et arenosi lidi,
Aure serene, acque tranquille e quete,
Marini armenti, e voi che fatti havete,
4A verno più soave, i cari nidi,
Elci fondose, amici porti e fidi,
Chi tra le pescatrici accorte e liete,
Dove hanno tesa con Amor la rete,
8Sarà ch'i passi erranti hor drizzi e guidi?
Veggio la Donna, anzi la vita mia,
E 'l fune avolto a la sua bianca mano
11Che trar l'alme co' pesci ancor potria;
E 'l dolce riso lampeggiar lontano,
Mentre il candido piè lavar desia,
14E bagna il mar ceruleo lembo in vano.

  • 3b-4. «e voi che fatti havete | A verno più soave i cari nidi»: intende di Ceice e d'Alcione, de' quali disse il PETRARCA: «E quei che fece Amor compagni eterni Alcione e Ceice in riva al mare | Fare il lor nido a' più soavi venti». La favola è narrata da OVIDIO ne le Trasformationi. Ma ARISTOTELE nel quinto de l'Historia de gli animali, dice: «L'alcione è solita partorire intorno al tempo de la bruma; però quando la bruma è serena si dimandano i giorni 'alcionei', sette avanti la bruma, e sette dopo», come SIMONIDE ancora disse ne' suoi versi.

LXXVIII

Dice che la pietà la quale egli vede ne gli occhi de la sua Donna non è vera pietà, ma crudeltà che prende quella sembianza per ingannarlo.

M'apre tal'hor Madonna il suo celeste
Riso fra perle e bei rubini ardenti,
E l'orecchie inchinando a' miei lamenti,
4Di vago affetto il ciglio adorna e veste.
Ma non avien però ch'in lei si deste
Alcun breve dolor de' miei tormenti;
Anzi la cetra, e i miei non rozi accenti,
8E me disprezza e le mie voglie honeste.
Nè pietà vera ne' begli occhi accoglie,
Ma crudeltà ch'in tal sembianza hor mostri
11Perchè l'alma ingannata arda e consumi.
Specchi del cor fallaci, infidi lumi,
Ben conosciamo in voi gli inganni vostri:
14Ma che pro, se schifargli Amor ci toglie?

  • 1. «M'apre talhor Madonna il suo celeste»: si dice «aprir il riso» perchè ridendo s'apre la bocca. Pone adunque l'effetto per la cagione.
  • 3. «E l'orecchie inchinando a' miei lamenti»: ad imitatione del PETRARCA. Et altrove: «Al mio pregio t'inchina».
  • 4a. «Di vago affetto»: cioè d'amore e di pietà.
  • 4b. «il ciglio adorna»: la parte in vece del tutto, come fece il PETRARCA in quell'altro luogo: «E di doppia pietate ornata il ciglio».
  • 5. «Ma non avien però ch'in lei si deste»: cioè si dimostra pietosa ne gli occhi e ne l'aspetto, ma non è veramente pietosa nel cuore, imperochè la pietà non è altro che dolore del male altrui.
  • 7a. «Anzi mia cetra»: dimostra il disprezzo de la poesia e de l'amore insieme.
  • 9a. «Nè pietà vera»: non è vera pietà, ma crudeltà, quella con la quale allettandomi nel suo amore, cerca d'ingannarmi.
  • 12. «Specchi del cor fallaci, invidi lumi»: imitatione del contrario di quel luogo: «Fia specchio de l'alma, occhi lucenti», e convenevolmente chiama gli occhi specchi, imperochè possono ricevere le spetie o la forma, che vogliam dirla, de le cose sensibili, immaterialmente e non altrimenti che facciano gli specchi. Ma son detti «specchi» del cuore perchè rappresentano gli affetti del cuore, veri o falsi.
  • 14. «Ma che pro, se schivargli Amor ci toglie»: cioè qual utilità o giovamento è di conoscere il male non potendo schifarlo. Così il PETRARCA: «Che prò se con quegli occhi ella ne face».

LXXIX

Mostra che da la vista de la sua Donna ne gli animi nasce un amore ch'a guisa di foco ci purga d'ogni indegnità.

Chi serrar pensa a' pensier vili il core,
Apra in voi gli occhi e i doni in mille sparsi
Uniti in voi contempli, e 'n lui crearsi
4Sentirà nove brame e novo amore.
Ma se passar nel seno estremo ardore
Sente da gli occhi di pietà sì scarsi,
Non s'arretri o difenda, ove in ritrarsi
8Non è salute, o 'n far difesa honore.
Anzi, sì come già Vergini sacre
Nobil fiamma nudrir, aggiunga ei sempre
11L'esca soave al suo vivace foco,
Chè dolcezze soffrendo amare et acre,
E quasi Alcide ardendo, a poco a poco
14Cangierà le sue prime humane tempre.

  • 1-2a. «Chi serrar pensa a' pensier vili il core | Apra in voi gli occhi»: contraposti.
  • 2b-3a. «i doni in mille sparsi | Uniti in voi contempli»: di nuovo usa la medesima figura.
  • 3b. «'n lui crearsi»: dimostra gli effetti che nascono di quella vista.
  • 7-8a. «Non s'arretri o difenda, ove in ritrarsi | Non è salute»: «ove», cioè quando. E ciò dice, o perchè l'ardore sia inevitabile, o perchè sia salutifero.
  • 8b. «'n far difesa honore»: o perchè sia ostinatione il farla, o perchè sia gloria l'esser vinto.
  • 9. «Anzi sì come già Vergini sacre»: intende le Vergini nel tempio di Vesta che tenevano sempre acceso il fuoco, laonde se mai per loro negligenza s'estingueva, n'erano castigate.
  • 10b-11a. «aggiunga ei sempre | L'esca soave»: il nutrimento de' pensieri e di speranze.
  • 11b. «al suo vivace foco»: a l'amore, il quale dee esser conservato, come il fuoco da le Vergini Vestali.
  • 12. «Chè dolcezze soffrendo amare et acre»: assomiglia questo fuoco a la fiamma con la quale hardendo Hercole sovra il rogo nel monte Eta, fu riposto nel numero de gli altri Iddij.

LXXX

Dice di predir la sua fortuna nel volto de la sua Donna, come il nocchiero ne l'aspetto de le stelle.

Come il nocchier da gli infiammati lampi,
Dal sol nascente, o da la vaga luna,
Da nube che la cinga, oscura e bruna,
4O che d'intorno a lei sanguigna avampi,
Conosce il tempo in cui si fugga e scampi
Nembo o procella torbida importuna,
O si creda a l'incerta aspra fortuna
8Il caro legno per gli ondosi campi;
Così nel variar del vostro ciglio,
Hor nubilo hor seren avien ch'io miri,
11Hor segno di salute, hor di periglio.
Ma stabile aura non mi par che spiri;
Ond'io sovente prendo alto consiglio,
14E raccolgo le vele a' miei desiri.

  • 1a. «Come il nocchier»: assomiglia l'amante, il quale moderi l'affetto con la ragione, al nocchiero, imperochè l'intelletto sta al governo de l'animo non altrimenti che 'l nocchiero a quel de la nave.
  • 1b. «da gli infiammati lampi»: numera alcuni de' segni da' quali si vuol far giudicio de la serenità, o de la pioggia, de la tranquillità o de la tempesta. Come dice ampiamente VERGILIO, nel primo de le Georgica: «Luna revertinies cum primum colligit ignes: | [...] | Maximus agricolis pelagoque parabitur imber | At si virgineum suffuderit ore pudorem, | Ventus erit; ventus semper rubet aurea Phebae». E poco appresso, del sole: «Sol quoque et exoriens et cum se condit in undas | Signa dabit; solem certissima signa sequentur». Conosce il tempo de la tranquillità o de la tempesta, come habbiam detto.
  • 9. «Così nel variar del vostro ciglio»: applica la comparatione.
  • 12a. «stabile aura»: certo favor di Fortuna.
  • 13. «Ond'io sovente prendo altro consiglio»: spesso egli delibera di ritirarsi da l'amore.

LXXXI

Rende la cagione perchè più tosto habbia mandato a donare il ritratto de la Donna che il suo medesimo.

Donai me stesso, e se sprezzaste il dono,
Che donarvi più caro hor vi potrei?
La mia imagine no, ch'a gli occhi miei
4Tanto è molesta, quanto lunge i' sono.
Talchè quasi d'amarmi io vi perdono,
Benché sian tutti amori i pensier miei;
Nè fuor ch'un bel sembiante altro saprei
8Donar, perchè 'l gradiste, e quel vi dono.
In voi finite almen vostri desiri,
Nè gli torca vaghezza ad altro obietto,
11Ch'è men bello di voi dovunque io miri.
Sol geloso mi faccia il vostro aspetto,
Ch'amando il piacer vostro e i miei martiri,
14Amerete il mio amore, e 'l mio sospetto.

  • 1. «Donai me stesso, e se sprezzaste il dono»: argomento da più al meno; se sprezzaste il dono ch'io feci di me stesso, non potrete stimar quel del mio ritratto, però dono il vostro.
  • 3b. «ch'a gli occhi miei»: rende un'altra cagione; e se la mia imagine spiace a gli occhi miei, molto più dispiacerà a' vostri.
  • 4b. «quanto lunge i' sono»: accenna che lo star lontano da la sua Donna il faccia parer più tosto brutto de l'usato, o per dolore, o per altra soverchia passione.
  • 5. «Talchè quasi d'amarmi io perdono»: imita DANTE, il qual disse «Amore a nullo amato amar perdona», quasi l'amare sia pena, e se ciò è vero, la pena è perdonata. O quasi il non amare sia colpa: et in questa guisa si concede il perdono de la colpa.
  • 6. «Benchè sian tutti amori i pensier miei»: tanto maggiore è la clemenza del perdonare, quanto è maggior l'amore.
  • 7a. «Nè fuor ch'un bel sembiante»: se 'l dono doveva esser convenevole, non poteva esser se non s'una bella imagine.
  • 9. «In voi finite almen vostri desiri»: desidera ch'ella s'invaghisca di se medesima, a guisa di Narciso, per non haver gelosia per altra cagione.

LXXXII

Dimostra la prosperità ne l'amore.

Passa la nave mia che porta il core,
Sotto un sereno ciel di stelle adorno,
Per queto mare, e sta la notte e 'l giorno
4Spiando i venti, al suo governo Amore.
A ciascun remo un bel desio d'honore
Non teme di fortuna oltraggio e scorno;
Empie la vela e rasserena intorno
8Aura di gioia e tempra il dolce ardore.
Nebbia non lenta mai di feri sdegni
Le sarte, che di fede e di speranza
11Ha di sua man il mio Signore attorto.
E scopro i duo lucenti amici segni,
E vive la ragione e l'arte avanza,
14Talch'io già prendo il desiato porto.

  • [1-14]. La metafora continuata, come habbiamo detto, diviene allegoria. è dunque una gentile allegoria del suo amore, e contende con quella del PETRARCA: «Passa la nave mia colma d'oblio».

LXXXIII

Paragona la sua infelicità con la morte d'un papagallo ch'era stato caro a la sua Donna.

Quel prigionero augel, che dolci e scorte
Note apprendea dal tuo soave canto,
Morendo in sen ti giacque, e dal tuo pianto
4Bello honore ebbe poi, felice morte.
Io, cigno in mia prigion, nè scorno apporte
S'ardito è pur ne la mia lingua il vanto,
Quel che mi detta Amore imparo e canto,
8Ma con diversa, e più dogliosa sorte.
Muoio sovente, e 'l modo è via più fero,
Perchè al martir rinasco; e 'n sì bel grembo
11Non però trovo mai tomba o feretro.
E i lumi, ch'irrigar con largo nembo
Un che passò da gl'Indi a noi straniero,
14Scarsi mi son, nè stilla io più n'impetro.

  • 1a. «Quel prigioniero augel»: il papagallo, chiamato dal Poeta «prigioniero» perch'egli sta in gabbia, ad imitatione di Monsignor DE LA CASA, il qual disse: «Quel vago prigioniero peregrino».
  • 1b-2a. «che dolci e scorte | Note»: così il PETRARCA: «Con tante note, e sì soavi e scorte».
  • 2b. «apprendea dal tuo soave canto»: gli ucelli, i quali hanno la lingua larga, imparano di parlare, come dice ARISTOTELE ne l'Historia de gli animali.
  • 5a. «Io, cigno in mia prigion»: i cigni non sogliono tenersi in gabbia; però dimostra la sua infelicità maggiore.
  • 6b. «il vanto»: [il vanto] di chiamarsi «cigno», cioè vero poeta.
  • 7. «Quel che mi detta Amore imparo e canto»: imita DANTE, il qual disse: «[...] Io mi son un, che quando | Amore spira, noto, et in quel modo, | Ch'ei detta dentro, vo significando». Et il Petrarca: «Colui che del mio mal meco ragiona, | Mi lascia in dubbio, sì confuso ditta».
  • 9a. «Muoio sovente»: come quel del PETRARCA: «Mille volte il dì muoio, e mille nasco».
  • 10b. «e 'n sì bel grembo»: seguita la comparatione.

LXXXIV

Paragona Amore a la rondinella, mostrando come faccia il nido nel suo cuore.

Tu parti, o rondinella, e poi ritorni
Pur d'anno in anno e fai la state il nido,
E più tepido verno in altro lido
4Cerchi su 'l Nilo, e 'n Menfi altri soggiorni.
Ma per algenti o per estivi giorni,
Io sempre nel mio petto Amore annido,
Quasi egli a sdegno prenda in Pafo e 'n Gnido
8Gli altari, e i tempi di sua madre adorni.
E qui si cova, e quasi augel s'impenna,
E rotta molle scorza uscendo fori,
11Produce i vaghi e pargoletti Amori.
E non gli può contar lingua nè penna,
Tanta è la turba, e tutti un cor sostiene
14Nido infelice d'amorose pene.

  • [1-2]. Imita ANACREONTE in que' versi, dov'egli parla similmente a la rondinella: «Σὺ μὲν φίλη χελιδών | Ετησίη μολοῦσα | Θέρει πλεκεις χαλιὼ, | […] | Η νεῖλον ἠ πὶ μίρφιν».
  • 4a. «Cerchi su 'l Nilo»: il Nilo è fiume famosissimo de l'Egitto, dove non solamente la rondine, ma gli altri ucelli sogliono svernare, perchè ivi la regione è tepidissima, e sovra quella parte chiamata il Delta, da la similitudine del Δ lettera greca, non suole mai piovere o nevicare, tanto il cielo in ogni stagione è sereno.
  • 4b. «e 'n Menfi altri soggiorni»: Menfi già fu città regia de l'Egitto, dove son le piramidi, come tra' nostri scrisse il BEMBO. Hoggi è per aventura detta il Cairo, ch'al tempo de' nostri avoli fu regia de' Soldani.
  • 7b. «Pafo»: oggi Zaffo, città in Cipri consacrata a Venere.
  • 7b. «Gnido»: similmente luogo dov'era adorata.
  • 9a. «E qui si cova»: descrive poeticamente e dimostra con la comparatione de gli ovi de la rondinella, come da un'amore nascano mille amori, e da un desiderio mille desiderij.

LXXXV

Si gloria d'Amore e di fede secreta.

Io non cedo in amar, Donna gentile,
A chi mostra di fuor l'interno affetto,
Perchè 'l mio si nasconda in mezo 'l petto,
4Nè co' fior s'apra del mio novo aprile.
Co' vaghi sguardi, e co 'l sembiante humile,
Co' detti sparsi in variando aspetto,
Altri si veggia al vostro amor soggetto,
8E co' sospiri, e con leggiadro stile.
E quando gela il cielo e quando infiamma,
E quando parte il sole e quando riede,
11Vi segua, come il can selvaggia damma.
Ch'io se nel cor vi cerco, altri no 'l vede:
E sol mi vanto di nascosa fiamma,
14E sol mi glorio di secreta fede.

  • 1a. «Io non cedo in amar»: dice di non ceder ne gli effetti d'Amore, bench'egli ceda ne l'apparenze.
  • 4. «Nè co' fior s'apra del mio novo aprile»: chiama «fiori del suo novo aprile» i pensieri de la sua età giovenile, o i versi, o le rime, o altra sì fatta cosa.
  • 5a. «Co' vaghi sguardi»: numera molti segni d'Amore, a niun de' quali dimostrando il suo, si gloria d'Amore e di fede secreta.

LXXXVI

Si duole de la mano de la sua Donna, la quale ella tenea il più delle volte ascosa nel guanto.

La man, ch'avolta in odorate spoglie
Spira più dolce odor che non riceve,
Faria nuda arrossir l'algente neve,
4Mentre a lei di bianchezza il pregio toglie.
Mi starà sempre ascosa? E le mie voglie
Lunghe, non fia ch'appaghi un guardo breve?
S'avara sempre a me sue gratie hor deve,
8Il mio nodo vital perchè non scioglie?
Bella e rigida man, se così parca
Sei di vera pietà, che 'l nome sdegni
11Di mia liberatrice a sì gran torto,
Prendi l'ufficio almen d'avara Parca.
Ma questo carme un bel sepolcro hor segni:
14- Vive la fede, ove il mio corpo è morto. -

  • 1. «La man, ch'avolta in odorate spoglie»: nel guanto.
  • 2. «Spira più dolce odor che non riceve»: o perchè sia prima profumata, o per lo temperamento de la sua complessione. Imperochè sì come l'India e l'Arabia e l'altre calde regioni producono gli odori, così le complessioni di simil temperatura possono spirar buono odore; laonde il sudore ancora d'Alessandro il grande odorava, sì come PLUTARCO ne la sua Vita.
  • 3-4. «Faria nuda arrossir l'algente neve, | Mentre a lei di bianchezza il pregio toglie»: hiperbole, o smoderamento nel lodare.
  • 5a. «Mi starà sempre ascosa»: ne dimanda quasi dubitando, e poi conchiudendo per la parte opposta al suo desiderio, chiede la morte.
  • 9a. «Bella e rigida man»: affettuosa conversion e a la mano.

LXXXVII

Dice che s'a la sua Donna sono cari i suoi martiri, de' quali egli per suo amore si compiace, al fine le sarà cara ancora la sua morte.

Bella Guerriera mia, se 'l vostro orgoglio
E la vostra bellezza in voi son pari,
Nè questi versi havete in pregio o cari,
4Ma le mie pene, io men languir non voglio.
E mi piace il dolor, quando io mi doglio
E dolcezza sento io d'affanni amari,
Occhi di gratia e di pietate avari,
8Nel farsi un molle petto un duro scoglio.
E se l'esser ingrata è 'l vostro honore,
O, se vi pare, i miei sospiri e i pianti
11Non sian più fiori homai d'occulto Amore,
Ma de la fede a' miei pensier costanti,
Morte sia il frutto, e di passarmi il core
14Una candida man si glori e vanti.

  • 1a. «Guerriera mia»: «guerriera», secondo l'usanza de' poeti toscani, è detta la Donna amata, la qual nieghi di compiacere a l'amante, e sia con lui in qualche discordia, perch'ogni discordia in un certo modo è guerra.
  • 1b-2. «se 'l vostro orgoglio | E le vostre bellezze in voi son pari»: ciò è detto conditionalmente, perchè prima disse il Poeta che la bellezza de la sua Donna era maggiore de la sua crudeltà, laonde segue ch'ella non sia tanto vaga de la sua morte, quanto del suo disprezzo. Per questa cagione non fa stima de' suoi versi, ma de le sue pene, non perchè siano mortali, ma perchè diminuivano la di lui riputatione, laonde il Poeta, offeso ne la riputatione poetica, ne languisce, e ne vuole morir per affanno e per dispetto.
  • 5a. «E mi piace il dolor»: per contraria cagione a quella detta prima, non perchè la sua Donna ne goda, ma perchè di superba ch'ella è, la fa parer similmente crudele.
  • 6. «E dolcezza sento io d'affanni amari»: qui ci va de la riputatione del Poeta, però sente dolcezza de l'amaritudini.
  • 7. «Occhi di gratia, e di pietate avari»: affettuosa conversione a gli occhi.
  • 9. «E se l'esser ingrata è il vostro honore»: se riponete l'honor ne l'ingratitudine, non vi dee bastar ch'io pianga e ch'io sospiri, ma devete uccidermi, perchè questa sarà la maggior gloria che possiate aspettarne.

LXXXVIII

Si duole che le sue lettere siano mostrate con suo disprezzo, sperando dal suo sdegno altretanto piacere, quanto gli prometteva l'amore.

Quella secreta carta, ove l'interno
E chiuso affetto mio, ch'adorno in rime
In poche note e 'n puro stil s'esprime,
4Voi dimostrando, mi prendeste a scherno.
Nè solo con questi occhi homai discerno
Che mal gradite il mio cantar sublime;
Ma con essi veggio io, come e' si stime
8Favola vile, e con mio sdegno eterno.
Hor quanto di voi speri, Amor se 'l vede,
Mentre ei guarda e consente, e se n'infinge
11Che riveliate i miei pensier secreti.
Ma par che sdegno anco sperar mi vieti
Quel ch'io sperava, e dolce a l'alma hor finge
14La vendetta via più d'ogni mercede.

  • 1a. «Quella secreta carta»: intende d'una lettera amorosa scritta con poche parole, ma con molto affetto.
  • 4a. «Voi dimostrando»: il disprezzo consiste nel palesare le cose che 'l Poeta voleva tener occulte.
  • 5a. «Nè solo con questi occhi»: detto con maggior espressione.
  • 6. «Che mal gradite il mio cantar sublime» è lecito alcuna volta il lodarsi e conviene a' poeti per antica usanza.
  • 7b-8a. «come e' si stime | Favola vile»: cioè ignobile, come son le comedie, e l'altre sì fatte.
  • 9. «Hor quanto di voi speri, Amor se 'l vede»: cioè il vostro amore, il quale è volto ad altra parte e sa ch'io non ho corrispondenza.
  • 12. «Ma par che sdegno»: lo sdegno non consente ch'io speri la vostra gratia, com'io sperava, ma quella d'altri, con la quale io possa vendicarmi.
  • 13-14. «e dolce a l'alma hor finge | La vendetta via più d'ogni mercede»: la vendetta è in guisa dolce, che fa dolce l'ira, come disse DANTE: «Dolce fa l'ira tua nel tuo secreto». E prima HOMERO haveva detto che l'ira era più dolce del mele. E ciò ARISTOTELE estimò ch'avvenisse per la speranza de la vendetta, come si legge nel secondo de la sua Retorica.

LXXXIX

Si duole d'una repulsa nel ballo e pensa di vendicarsi.

Mal gradite mie rime, in vano spese
Per honorar Donna leggiadra e bella,
Ch'altrui fedele, a me spietata e fella,
4Nega la man che già m'avinse e prese.
Aspre repulse, hor fia che tante offese
Sostenga, e celi hor questa ingiuria hor quella,
Nè scuota il giogo ancor l'anima ancella
8E non estingua le sue fiamme accese?
Dunque, s'amando i' parea già canoro,
Hor disdegnando sarò muto e roco,
11Nè d'armarne oserò lo stile e i carmi?
Chè queste ancor pungenti e fervide armi
Come quadrella son di lucido oro;
14Ma la superba hor se le prende a gioco.

  • 1a. «Mal gradite mie rime»: volge il parlare a le sue rime, come fece il PETRARCA: «Ite rime dolenti al duro sasso». E l'uno e l'altro fu mosso da passione, nondimeno da passion diversa.
  • 1b. «in vano spese»: perche gli erano negati premi leciti e que' favori che sogliono esser conceduti.
  • 2a. «Per honorar»: rende la cagione per la quale amorosamente poetava, e mostra il fine del suo poetare.
  • 5a. «Aspre repulse»: a differenza di quelle di Mad[onna] Laura, che furono «placide repulse».
  • 5b-6. «hor fia che tante offese | Sostenga, e celi hor questa ingiuria hor quella»: cioè d'esser disprezzato, come amante e come poeta.
  • 7a. «Ne scuota il giogo» intende il giogo de la servitù amorosa, il quale più volte havea scosso il PETRARCA, sì com'egli medesimo afferma: «Del bel giogo più volte indarno scosso».
  • 8. «E non estingua le sue fiamme accese»: i suoi desideri.
  • 9. «Dunque s'amando i parea già canoro»: l'Amore è poeta e musico e, come si ci legge appresso PLATONE, sa tutte le arti.
  • 10. «Hor disdegnando sarò muto e roco»: lo sdegno et l'ira impediscono la voce.
  • 11. «Nè d'armarne oserò lo stile e i carmi»: cioè «armar di sdegno», ad imitatione d'HORATIO, il qual disse: «Archilocus rabiae primus armavit | Jambos».
  • 12-13. «Chè queste ancor pungenti e fervide armi | Come quadrella son di lucido oro»: PINDARO ancora chiamò i versi «saette», dicendo «[...] Πολλά μοι π᾿ ατηκῶνος ὠκεα βέλη· | Ἒνδον ἐντι φαρέτρας | φανᾶντα εσυνατοῖσιν».

XC

Assomiglia la conditione de la sua Donna a quella di colui ch'arse il tempio di Diana Efesia.

Costei, ch'asconde un cor superbo et empio
Sotto cortese angelica figura,
M'arde di foco ingiusto, e si procura
4Fama da' miei lamenti e dal mio scempio.
E prender vuol da quella mano essempio
Che troppo iniqua osò, troppo secura,
Per farsi illustre in ogni età futura,
8Struggere antico e glorioso tempio.
Ma non fia ver che ne' sospiri ardenti
Suoni il suo nome, e rimarrà sepolta
11Del suo error la memoria, e del suo strale.
Chè gloria ella n'havrà, s'i miei tormenti
Faranno historia, e fia vendetta eguale
14Lasciarla in un silentio eterno avolta.

  • 1-2. «Costei, ch'asconde un cor superbo et empio | Sotto cortese angelica figura»: biasima la crudeltà de la sua Donna, tenuta ascosa sotto piacevolezza de' sembianti. Et in ciò si dimostra simile al PETRARCA, il qual dopo l'infinite laudi date a Madonna Laura, fu trasportato da sdegno, o da disperatione, a scriver que versi: «Aspro core, e selvaggio, e cruda voglia | In dolce humile, angelica figura».
  • 3a. «M'arde di foco ingiusto»: m'accende d'amor non conveniente. Et chiama «ingiusto» il foco perch'egli pativa iniquamente per amore.
  • 3b-4. «e si procura | Fama da' miei lamenti, e dal mio scempio»: incolpa l'ambitione contraria a quella: «E piacemi il bel nome, se 'l vero odo, | Che lunge e presso co 'l tuo dir m'acquisti».
  • 5. «E prender vuol da quella mano essempio»: da colui che per soverchio desiderio di fama arse il tempio di Diana Efesia, celebratissimo oltre tutti gli altri, et, come si crede, edificato da l'Amazzoni all'hora ch'occuparono l'Asia. La comparatione è bella e simile a l'impresa che ne portò il Signor Luigi Gonzaga, nominato Rodomonte, co 'l motto «Utraque clarescere fama».
  • 9a. «Ma non fia ver»: minaccia il Poeta vendetta conforme a quella che fu data a colui per comune consentimento di tutta la Grecia: cioè che 'l suo nome sarà occulto, e la sua fama non passerà a' posteri.

XCI

Nel medesimo soggetto: mostra di sperare la vendetta nel silentio e ne l'oblivione

Arsi gran tempo, e del mio foco indegno
Esca fu sol vana bellezza e frale,
E qual palustre augello il canto e l'ale
4Volsi di fango asperse ad humil segno.
Hor che può gelo d'honorato sdegno
Spegner la face e quell'ardor mortale,
Con altra fiamma homai s'inalza e sale
8Sovra le stelle il mio non pigro ingegno.
Lasso, e conosco ben che quanto io dissi
Fu voce d'huom, cui ne' tormenti astringa
11Giudice ingiusto a travïar dal vero.
Perfida ancor ne la tua fraude io spero
Che, dove pria giacesti, ella ti spinga
14Ne gli oscuri d'oblio profondi abissi.

  • 1a. «Arsi gran tempo»: l'amor del Poeta, nel suo fervore, non passò un anno: ma s'un giorno, anzi un'hora a gli amanti pare lunghissimo tempo, come dimostra SENOFONTE con l'essempio di [d.] amante di Ciro, che parrà un anno intero?
  • 1b. «e del mio foco indegno»: perch'egli non meritava tanta passione amorosa.
  • 3a. «E qual palustre augel»: similitudine de l'augel di valle.
  • 4. «Volsi di fango asperse ad humil segno»: cioè non fa puro l'amore e non mi posi altro obietto ne l'amore.
  • 5. «Hor che può gelo d'honorato sdegno»: lo sdegno, detto Nemesis da' Greci e da' Latini indignatione, è affetto laudevole, e suol nascere ne gli animi nostri, come dimostra ARISTOTELE nel secondo de la ïRetorica, quando l'immeritevole è immeritamente esaltato, o il meritevole a torto depresso. Havendo adunque il Poeta risguardo a la sua depressa conditione, chiama il suo sdegno «honorato» o per la cagione detta finale, la quale altro non è che l'honore.
  • 6a. «Spegner la face»: cioè l'amor sensuale.
  • 7a. «Con altra fiamma»: co 'l desiderio ardentissimo de gli studi e de la contemplatione de le cose celesti.
  • 9. «Lasso, e conosco ben, che quanto io dissi»: assomiglia le sue parole a quelle che son dette ne' tormenti, a le quali non si può prestare intiera fede, et assomiglia Amore a l'ingiusto giudice.
  • 12. «Perfida ancor ne la tua fraude io spero»: buona e ragionevole speranza è quella la quale è fondata o ne la propria vita, o nel vitio del nemico.
  • 13a. «Che, dove pria giacesti»: la vendetta non è d'infamia, perchè non sarebbe stata per aventura giusta, ma d'oblivione.

XCII

Mostra d'accorgersi del suo inganno e di manifestarlo.

Non più crespo oro, o d'ambra tersa e pura
Stimo le chiome che 'l mio laccio ordiro,
E nel volto e nel seno altro non miro
4Ch'ombra de la beltà che poco dura.
Fredda la fiamma è già, sua luce oscura,
Senza gratia de gli occhi il vago giro.
Deh, come i miei pensier tanto invaghiro,
8Lasso? E chi la ragione o sforza o fura?
Fero inganno d'Amor, l'inganno ornai,
Tessendo in rime sì leggiadri fregi
11A la crudel, ch'indi più bella aparve.
Ecco, i' rimovo le mentite larve:
Hor ne le proprie tue sembianze homai
14Ti veggia il mondo, e ti contempli e pregi.

  • 1-2. «Non più crespo oro, o d'ambra tersa e pura | Stimo le chiome, che 'l mio laccio ordiro»: cioè non sono in guisa abbagliato da l'amore, ch'io m'inganni nel giudicio ch'io fo de la tua bellezza.
  • 3a. «E nel volto, e nel seno»: «seno» per «petto», che sono due parti principalmente riguardate da gli amanti.
  • 4. «Ch'ombra de la beltà che poco dura»: la beltà è raggio de la Divinità, come dicono i Platonici, imperochè la bellezza de gli animi traluce ne' corpi e ne gli occhi particolarmente. Ma il Poeta in questo luogo chiama la bellezza corporea «ombra» de la bellezza, la qual ombra dura per picciol tempo, havendo risguardo a quel luogo del PETRARCA: «Là dove i corpi fanno a l'alma velo».
  • 5a. «Fredda la fiamma è già»: spento il desiderio.
  • 5b-6. «sua luce oscura, | Senza gratia de gli occhi il vago giro»: estinguendosi l'amore, la Donna amata non par bella come pareva.
  • 9. «Fero inganno d'Amor, l'inganno ornai»: parla il Poeta in questo terzetto d'un doppio inganno, l'un ricevuto da lui, l'altro da lui fatto. L'inganno ch'egli riceve fu quel d'Amore, del quale si legge: «O dolce inganno et amorosa frode, | Darmi un piacer, che pria pena m'apporte». Quel ch'egli fece è l'inganno de la Poesia, la qual dimostra, come parve a Gorgia, l'apparente del vero.
  • 12. «Ecco, io' rimovo le mentite larve»: le delusioni d'amore e le fintioni poetiche.
  • 13. «Hor ne le proprie tue sembianze»: cioè ti stimi il mondo, non per la fama o per l'opinione, ma per li proprij meriti.

XCIII

Tornando sotto il giogo [di Amore], di nuovo ne spera fama e riputatione.

Mentre al tuo giogo io mi sottrassi, Amore,
E fui ribello al tuo ch'è giusto regno,
M'hebbe Fortuna ingiuriosa a sdegno,
4Tronca la via di bello e d'alto honore,
Tal ch'io muto consiglio e dono il core,
Sacro la verde età, sacro l'ingegno
A le saette: ah, non ti spiaccia il segno
8Che non si volge al trapassar de l'hore.
Nè trovar lo potrai da Battro a Tile
Più costante a' tuoi colpi, o dolci o 'nfesti;
11E tu gloria n'havrai, Signor gentile,
Io pregio e fama, e dì men foschi e mesti.
E teco muterò suo duro stile
14Sorte nemica a' miei desiri honesti.

  • 1. «Mentre al tuo giogo io mi sottrassi, Amore»: cioè alla servitù amorosa. Così il PETRARCA: «Dal bel giogo più volte indarno scosso». Et altrove: «Et un giogo quivi».
  • 2a. «E fui ribello»: ad imitatione similmente del PETRARCA: «Così solinga e ribellante suole».
  • 2b. «al tuo, ch'è giusto regno»: o lusinga la sua Donna, o chiama «giusto» il regno d'Amore, ov'egli sia moderato da la ragione.
  • 3. «M'ebbe Fortuna ingiuriosa a sdegno»: «ingiusta» nel perseguitarmi, perch'io havessi fatto altro proponimento che d'amare.
  • 5a. «Tal ch'io muto consiglio»: di nuovo fa proponimento d'amare, quasi l'amor si faccia per elettione.
  • 7b-8. «ah, non ti spiaccia il segno | Che non si volge al trapassar de l'hore»: cioè il cuore, il quale è costante e fermo nel suo proponimento.
  • 9. «Ne trovar lo potrai da Battro a Tile»: «Battro», termine estremo da l'oriente [come] VERGILIO «Atque ultima secum Bactra vehit»; «Tile» ultimo fine da l'occidente [come] l'istesso «Atque, ultima Tule».
  • 11. «E tu gloria n'havrai»: doppia gloria si propone, l'una d'amante di bene amare, l'altra di poeta di ben poetare.
  • 13. «E teco muterà suo duro stile»: spera che la Fortuna debba mutarsi con l'amare.

XCIV

Parla co 'l suo Sdegno confortandolo che si renda ad Amore.

Sdegno, debil guerrier, campione audace,
Tu me sotto arme rintuzzate e frali
Conduci in campo, ov'è d'aurati strali
4Armato Amore, e di celeste face.
Già si spezza il tuo ferro, e già si sface
Qual vetro o gelo al ventilar de l'ali;
Che fia, s'attendi il foco, e le mortali
8Percosse? Ah troppo incauto, ah chiedi pace.
Grido io mercè, tendo la man che langue,
Chino il ginocchio e porgo inerme il seno:
11Se pugna ei vuol, pugni per me pietade.
Ella palma n'acquisti, o morte almeno,
Chè se stilla di pianto al sen gli cade,
14Fia vittoria il morir, trionfo il sangue.

  • 1. «Sdegno, debil guerrier, campione audace»: lo sdegno è chiamato «guerrero» e «campione» dal Poeta. «Guerrero» è detto perchè tra lo sdegno e 'l piacere, cioè tra l'appetito concupiscibile e l'irascibile è spesso contrasto. «Campione» si dice perchè combatte per la ragione.
  • 2-3a. «Tu me sotto arme rintuzzate e frali | Conduci in campo»: continua ne la metafora, e chiama «arme» la sofferenza e la continenza, e «campo» il luogo dov'egli deveva veder la sua Donna.
  • 3b-4a. «ov'è d'aurati strali | Armato Amore»: a differenza di quegli di piombo che sogliono generare odio.
  • 4b. «di celeste face»: per contraporla a quella che ne gli amori illeciti si dice d'esser accesa in Flegetonte.
  • 5a. «Già si spezza il tuo ferro»: la tua durezza.
  • 6b. «al ventilar de l'ali»: a l'appressar de la tua Donna.
  • 7-8a. «Che fia, s'attendi il foco, e l'immortali | Saette»: o pone la cagione per l'effetto, quasi volesse dir le saette che non sono cagione di morte, ma d'immortalità, o chiama «immortali saette» i desideri e i pensieri di bellezza immortale: perochè è ragionevole ch'essendo l'obietto eterno, la potenza non sia mortale. Altrimenti si legge «le mortali percosse».
  • 8b. «Ah troppo incauto, ah chiedi pace»: intende il Poeta de la pace interiore, la quale è tra le potenze de l'animo.
  • 9. «Grido io mercè», quasi voglia dire: io che son l'intelletto, conosco questa bellezza divina, laonde è necessario l'humiliarsi.
  • 11b. «pugni per me pietade»: o pietate pugni contra lo sdegno, il qual deve esser parimente ne la mia Donna, o contra Amore.
  • 12. «Ella palma n'acquisti, o morte almeno»: detto affettuosamente.

XCV

Mostra di temer più le lusinghe che la crudeltà de la sua Donna.

Mentre soggetto al tuo spietato regno
Vissi, ove ricondurmi, Amor, contendi,
Via più de le procelle e de gl'incendi
4Temea pur l'ombra d'un tuo leve sdegno.
Hor, che ritratto il cor dal giogo indegno
L'arme ardenti de l'ira in van riprendi,
e 'n van tanti ver me folgori spendi
8Nè di mille tuoi colpi un fere il segno.
Vibra pur l'arme tue, faccia l'estremo
D'ogni tua possa orgoglio et honestate,
11Nulla curo io, se tuoni o pur saetti.
Così mai d'amor lampo, o di pietate
Non veggia sì che speme il core alletti,
14Che mansueta lei, non fera io temo.

  • 1. «Mentre soggetto al tuo spietato regno»: chiama «spietato» o senza pietà il regno d'Amore, che prima havea chiamato «giusto», o per fare esperienza de l'ingegno, parlando d'una cosa istessa diversamente; o perchè la facoltà oratoria e la poetica, in quanto di lei partecipe e de le cose opposte, laonde è acconcia parimente a laudare et a biasimare; o perchè l'amante è sottoposto a contrarie passioni, secondo le quali ragiona diversamente. Nondimeno il Poeta in tanta diversità e quasi contrarietà d'affetti e di parole, dice d'esser «costante», come in quel luogo: «Nè trovarlo potrai da Battro a Tile | Più costante», imperochè la sua fermezza è costanza e virtù per tre cagioni: prima, per rispetto de l'anima, ne la quale è com'in soggetto imperochè l'anima, come dice PLATONE nel Quinto de la Republica, può muoversi e non muoversi ne l'istesso tempo come la sfera, la qual si volta attorno mentre è fissa nel suo centro. Adunque sta ferma co 'l centro e si muove con la circonferenza. Dapoi è costante, havendo risguardo a l'obietto, il quale essendo eterno non può essere mutabile. Ultimamente la costanza è considerata ne fondamenti de la virtù come quella quercia descritta da VERGILIO nel Quarto: «Ac veluti annosam valido cum robore quercum | Alpini Borae nunc hinc, nunc flatibus illuic, | Et vere inter se certant. It stridor, et alte | Consteruunt terram concusso stipite frondes; | Ipsa haeret scopulis, etc.».
  • 6. «Vibra pur l'armi tue, faccia l'estremo»: mostra di temer la fraude più de la violenza, perchè, come dice ARISTOTELE nel terzo de l'Ethica, è più malagevole il resistere al piacer, ch'a l'ira.

XCVI

Assomiglia se stesso al cervo e la sua Donna al veltro et a l'arciero.

Quanto in me di feroce e di severo
Fece Natura, io tutto in un raccoglio,
E per mostrarmi in volto aspro e guerriero
4Et armarne i sembianti, il cor ne spoglio.
Tal per selva n'andò, qual io gir soglio,
Cervo con fronte minacciosa altero,
E non asconde in sè forza ed orgoglio,
8Ma del veltro paventa, e de l'arciero.
E ben temo io chi morde, e chi saetta;
E quanto ella il timor, ch'ascondo in seno,
11Tarda a scoprir, tanto a morire io tardo.
Cela, Amor, la paura, a te soggetta
Sia l'alma pur, ma non vietar ch'almeno,
14Se chiede il cor mercè, la nieghi il guardo.

  • 1-2a. «Quanto in me di feroce, e di severo | Fece natura»: intende gli affetti de la parte irascibile e de la ragionevole.
  • 2b. «io tutto in un raccoglio»: cioè io restringo insieme per timidità, perciochè in questa passione il sangue si ristringe intorno al core.
  • 3-4. «E per mostrarmi in volto aspro e guerriero | Et armarne i sembianti, il cor ne spoglio»: ne la vergogna aviene contrario effetto. Si mostrava adunque il Poeta vergognoso d'amare.
  • 5a. «Tal per selva n'andò»: assomiglia Amore a l'arciero, il suo desiderio al veltro, se medesimo al cervo che teme la ferita, come al cervo ferito s'assomigliò il PETRARCA: «E qual cervo ferito di saetta | Co 'l ferro avelenato dentro al fianco».
  • 12a. «Cela Amor la paura»: conversione ad Amore.

XCVII

Si duole d'haver offeso la sua Donna, come di gravissima colpa.

Ahi, quale angue infernale in questo seno
Serpendo, tanto in lui veneno accolse?
E chi formò le voci, e chi disciolse
4A la mia folle ardita lingua il freno,
Sì che turbò Madonna, e 'l bel sereno
De la sua luce in atra nebbia involse?
Quel ferro ch'Efialte al ciel rivolse,
8Vinse il mio stile, o pareggiollo almeno.
Hor qual arena sì deserta, o folto
Bosco sarà tra l'Alpi, ov'io m'invole
11Da la mia vista solitario e vago?
O come ardisco hor di mirare il sole,
Se le bellezze sue sprezzai nel volto
14De la mia Donna, quasi in propria imago?

  • [1-14]. Si duole il Poeta d'havere scritto contra la sua Donna e si disdice ad imitatione di STESICORO, il quale havendo biasimato Helena, cantò la Palinodia, e d'HORATIO, che similmente in quella oda «O matre pulchra filia pulchrior» e del PETRARCA, il quale trasportato da simil passione fece simil emenda in quel sonetto «Spinse Amore et dolore ove ir non debbe | La mia lingua aviata a lamentarsi». Ma il TASSO diede maggior sodisfattione a la sua Donna, il quale chiamò il suo non solamente amore e dolore, ma [1-2] furor «infernale», et assomigliò la sua Donna a gli Iddij celesti, e particolarmente al [12-14] «sole».
  • 7. «Quel ferro, ch'Efialte al ciel rivolse»: Efialte è numerato da DANTE ne l'Inferno tra' Giganti che mosser guerra a gli Iddij, ma HOMERO il chiama Re. PINDARO ne l'Oda ad Arcesilao Cireneo fa mentione di lui chiamandolo re similmente, e d'Oti suo fratello ancora, figliuoli d'Ifimedea. E dice che l'uno e l'altro è sepelito in Naxo. I versi son questi: «Εν δέ κάξω | φαιντì Θανεῖν λιπαῖα ιφιμεγεί- | ας παιδας ωτον κα σε τολ-| μάεις εφιάλτα ἅναξ».

XCVIII

Dice ch'Amore è cagione de la incostanza de le sue passioni.

Queste hor cortesi et amorose lodi
De la mia Donna, hor duri aspri lamenti,
Mie voci no, ma son d'Amore accenti:
4Dunque incolpane Amor, o tu che l'odi.
Amor, che molti gira in vari modi
A la vita serena aversi venti,
Tra gli occhi miei bramosi e i suoi lucenti,
8Mesce brame e temenze, e sdegni et odi.
Per questi che 'l mio cor ne' suoi sospiri
Sparge quasi vapori un sol turbato,
11Veggio ne l'aria del bel viso oscura.
E chiamo instabil lei, cangiand'io stato,
E la chiamo ver me spietata e dura
14Ove molle e pietosa altrui rimiri.

  • 1a. «Queste hor cortesi»: haveva parlato de la costanza propria in quel sonetto «Mentre soggetto al tuo spietato regno», il et in quell'altro «Mentre al tuo giogo io mi sottrassi, Amore». Hora parla de la costanza de la sua Donna, la quale in alcun luogo haveva descritta incostante, assegnando tutta la incostanza ad Amore, com'a sua cagione. E si dee intendere de l'amor sensuale, il quale è sempre accompagnato da varie passioni che perturbano la tranquillità de la ragione.
  • 9-10a. «Per questi che 'l mio cor ne' suoi sospiri | Sparge quasi vapor»: prima ha assomigliato la sua Donna al sole, hora fa la medesima similitudine, ma paragona le passioni che sono commosse da la sua bellezza a' vapori, i quali elevandosi impediscono la serena vista del sole.
  • 12. «E chiamo instabil lei, cangiand'io stato»: l'incostanza non è ne l'obietto, ma ne gli affetti del Poeta. Questa nondimeno è imitatione di DANTE, il qual dice che gli huomini chiamano la stella tenebrosa quando è turbato l'aere, ch'è il mezo de la nostra vista.

XCIX

Dice che i venti e i ventagli possono temprar il caldo de la sua Donna, ma che la sua fiamma è senza refrigerio.

Per temprarne al bel seno, al chiaro viso,
Donna bella e gentile, estivo ardore,
Spargan le penne di più bel candore,
4I cigni di Meandro e di Cefiso;
E chi cento occhi del custode anciso
Dipinti ha ne le sue d'altro colore,
E l'ale proprie si dispogli Amore
8E si resti con voi ne l'ombre assiso.
E, se non basta ciò, Zefiro intorno
Spargendo gigli e rose in voi respiri,
11Et ondeggiar vi faccia il crine adorno.
Ma chi tempra quel foco e que' martiri,
Onde m'ardete voi la notte e 'l giorno,
14Se tutte fiamme sono i miei sospiri?

  • 1a. «Per temprarne al bel seno»: non basta ch'il ventaglio co 'l quale si fa vento la sua Donna sia de l'ale di cigno e di pavone, ma dovrebbe esser de l'ali d'Amore. Potrebbe intendere allegoricamente per [4] «cigni» i poeti, per [5-6] «pavoni» i giovani superbi de la propria bellezza.
  • 9a. «E, se non basta ciò»: se non bastano le cose artificiali, concorrono le naturali.
  • 12a. «Ma chi tempra quel foco»: conchiude ch'al caldo de la sua Donna possono esser molti refrigeri trovati da la natura e da l'arte, ma al suo nessuno.

C

Mostra di non poter ricoprire le fiamme amorose.

Vuol, che l'ami costei, ma duro freno
Mi pone ancor d'aspro silentio. Hor quale
Havrò da lei, se non conosce il male,
4O medicina, o refrigerio almeno?
E come esser potrà, ch'ardendo il seno
Non si dimostri il mio dolor mortale,
Nel risplender di fiamma a quella eguale
8Ch'accende i monti in riva 'l mar Tirreno?
Tacer ben posso, e tacerò. Ch'io toglia
Sangue a le piaghe, e luce al vivo foco,
11Non brami già: questa è impossibil voglia.
Troppo spinse pungenti a dentro i colpi
E troppo ardore accolse in picciol loco:
14S'apparirà, Natura e sè n'incolpi.

  • 1. «Vuol, che l'ami costei, ma duro freno»: chiama «freno» il silentio e la riverenza, come prima haveva fatto il PETRARCA in persona di Laura, dicendo «Talhor ti vidi tali sproni al fianco | Che dissi qui convien più duro morso».
  • 2b-3a. «Hor quale | Havrò da lei»: si duole che la sua Donna non voglia conoscere il male per non dargli la medicina.
  • 9a. «Tacer ben posso»: «Chiusa fiamma è più ardente» disse il PETRARCA, ma il Poeta con l'esempio d'Ischia, di Vesuvio e d'altri luoghi sì fatti, afferma esser impossibile che stia nascosta.
  • 12a. «Troppo spinse pungenti»: si scusa che per soverchio di passione non può tenere occulto l'amore.

CI

Attribuisce a la tiepidezza de l'amare l'imperfettione de la poesia, et assomiglia se medesimo a la cetra, et Amore al musico.

All'hor che ne' miei spirti intepidissi
Quel, ch'accendete voi soave foco,
Pigro divenni augel di valle e roco,
4E vile e grave a me medesmo io vissi.
Nulla poscia d'Amor cantai nè scrissi;
E s'alcun detto i' ne formai da gioco,
N'hebbi scorno tal volta, e basso e fioco
8Garrir, non chiaro e nobil carme udissi.
Come cetra son io discorde, o come
Lira, cui dotta mano o roza hor tocchi,
11E dia noia o diletto in vario suono.
E dolce il canto è sol nel vostro nome,
E poetando sol di sì begli occhi,
14Mi detta Amor quanto io di lui ragiono.

  • 1. «All'hor, che ne' miei spirti intepidissi»: gli spirti, perchè sono sottilissima parte del sangue e quasi vapori, come dicono i medici, facilmente s'accendono.
  • 3. «Pigro divenni augel di valle e roco»: racconta gli effetti della tepidezza.
  • 5. «Nulla poscia d'Amor»: cessando l'amore, mancò l'amorosa poesia, come al cessar de le cagioni, sogliono cessar gli effetti.
  • 9. «Come cetra son io»: assomiglia Amore al musico e se medesimo alla cetra, dimostrando che 'l suono era più o men dolce, secondo la diversità de gli affetti. La similitudine fu prima usata da ASCLEPIO, discepolo di Mercurio Trimegisto, ch'assomiglia Iddio al musico e noi huomini agli istrumenti rochi.

CII

Descrive la vittoria de lo Sdegno et il suo trofeo.

S'arma lo Sdegno, e 'n lunga schiera e folta
Pensier di gloria e di virtù raccoglie,
Mentre ei per la ragion la spada toglie
4Ch'è in lucide arme di diamante involta.
Ecco la turba già importuna e stolta
Sparsa cader de le discordi voglie,
E de' miei sensi, e di nemiche spoglie
8Leggiadra pompa, anzi il trionfo accolta.
Bellezza ad arte incolta, atti soavi,
Finta pietà, sdegno tenace e duro,
11E querele e lusinghe in dolci accenti,
Et accoglienze liete, e meste e gravi
De la nemica mia l'arme già furo,
14Hor son trofei di que' guerrieri ardenti.

  • 1a. «S'arma lo Sdegno»: lo sdegno è ne la parte irascibile, laonde essendo l'ira ministra de la ragione, come dice PLATONE espressamente ne' libri de la Republica, non è maraviglia che lo sdegno parimente combatta contro il piacere de la ragione.
  • 1b. «e 'n lunga schiera, e folta | Pensier di gloria e di virtute accoglie»: la virtù è fra le cose difficili, l'honore e la gloria parimente, laonde non è maraviglia che siano obietto de lo sdegno e de gli altri affetti che sono ne l'irascibile, il cui obietto, come piace a san TOMASO, «est bonum sub ratione ardui».
  • 4. «Ch'è in luci d'arme di diamante involta»: convenevolmente dice il Poeta che l'armi de la ragione siano di diamante, perch'il diamante è impenetrabile e durissimo oltre tutte l'altre cose. Nè si dilungò da l'imitatione del PETRARCA, il qual volendo dimostrar l'honestà de la sua Donna, disse: «Nulla posso levare io per mio ingegno | Del bel diamante, ond'ella ha il cor sì duro».
  • 5. «Ecco la turba»: descrive leggiadrissimamente il trionfo de la ragione et il maraviglioso trofeo drizzato de la sensualità.

CIII

Assomiglia la sua Donna a diverse maraviglie

Qual più rara e gentile
Opra è de la Natura, o meraviglia,
Quella più mi somiglia
La Donna mia ne' modi e ne' sembianti.
5Dove fra dolci canti
Corre Meandro, o pur Caistro inonda
La torta obliqua sponda,
Un bianco augel parer fa roco e vile,
Nel più canoro aprile,
10Ogn'altro che diletti a maraviglia;
Ma questa mia, che 'l bel candore eccede
De' cigni, hor che se 'n riede
La primavera candida e vermiglia,
L'aria addolcisce co' soavi accenti,
15E questa i venti col suo vago stile.
Un animal terreno,
Ch'è bianco sì che vince ogni bianchezza,
Et ogni altra bellezza,
Morir più tosto che bruttarsi elegge,
20Però, come si legge,
è preso, e per vestirne i Duci illustri
Le sue tane palustri,
D'atro limo son cinte, e morto almeno
Pregio ha di seno in seno,
25E per Donna leggiadra ancor s'apprezza.
Così la fera mia, perchè s'adorni,
La vergogna e gli scorni
Più che la morte è di fuggire avezza;
Nè macchia il crudo Arcier le care spoglie,
30Mentre raccoglie e sparge il suo veleno
In Grecia un fonte instilla
Se labra asciutte bagna il freddo humore,
Profondo oblio nel core.
L'altra bevuta fa contrari effetti,
35E 'n duo vari soggetti
Sì mirabil virtù dimostra il Cielo.
Così questa, onde gelo,
Fonte d'ogni piacer chiara e tranquilla,
Con una breve stilla
40Tor la memoria può d'ogni dolore,
E render poi d'ogni passata gioia,
Per temprar quella noia,
Onde perturba le sue paci Amore.
O vivo fonte, anzi pur fonti vivi
45Con mille rivi, ond'ei via più sfavilla.
Se non è vana in tutto
L'antica fama, che pur dura e suona,
Tra que' che fan corona
Nasce un bel fior che sembra un lucido oro,
50E vince ogni tesoro,
Perchè gloria ei produce e chiaro nome
A chi n'orna le chiome,
Nè mai di sponda o di terreno asciutto
Nacque sì nobil frutto.
55Et un fior di bellezza in queste rive
Si odora e di mostrar ei nulla è scarso
L'oro disciolto e sparso,
Ch'erra soavemente a l'aure estive.
Ma di sua gloria coronato a l'ombra
60Così m'adombra, che m'è dolce il lutto.
Ne l'arabico mare
è con un altro fior, come di rosa,
Pianta meravigliosa,
Che lui comprime, anzi che nasca il sole.
65Poi di spiegarlo suole,
Quando egli vibra in oriente i raggi
Per sì lunghi viaggi,
E di novo il raccoglie allhor, che pare
Cader ne l'onde amare.
70Tal questa Donna, in cui beltà germoglia
E leggiadria fiorisce, al sol nascente
Nel lucido oriente,
Par ch'i suoi biondi crini apra e disciglia.
Poi l'occaso astringe aurei capelli,
75Più di lui belli, e sol velata appare.
Una pietra de' Persi
Co' raggi d'oro al sol bianca risplende,
E quinci il nome prende,
E del bel lume del sovran pianeta
80Rassembra adorna e lieta.
Così la pietra mia nel dì riluce,
E la serena luce,
E 'l dolce fiammeggiar i' non soffersi,
Quando gli occhi v'apersi,
85Ma segue un'altra poi de la sorella
Il corso vago, e di sue belle forme
Par che tutta s'informe,
E di sue corna, e quindi ancor s'appella.
Tal lei veggio indurarsi ascosa in parte,
90Se torna o parte, e fa sentier diversi.
Canzon, ch'io non divegna
Fra tante meraviglie un muto sasso,
Solo è cagion Amor, che gratia impetra
Da la mia nobil pietra.
95E spero andarne così passo passo.
E pur quasi d'un marmo esce la voce
Che manco noce, ov'è chi men disedgna.

  • 1. «Qual più rara e gentile»: imita quella canzone di PETRARCA: «Qual più diversa e varia | Cosa fu mai in qualche stranio clima | Quella se ben si stima | Più mi rassembra, a tal son giunto, Amore», imperochè ne l'istesso modo il Poeta fa diverse similitudini de la sua Donna.
  • 5-6. «Dove tra dolci canti | Corre Meandro, o pur Castro inonda»: Meandro et Caistro son fiumi de la Licia, ne le cui ripe i cigni fanno dolcissimi canti, come dice DIONIGI, De situ orbis: «Cuius prope ripam tempore verno | Si sedeas, dulcis capiaris pectore cantu | Cygnorum, pascunt quos herbae flumina circum. | Nam florent Asiae campos plurima prata. | Sed magis ad fluvium Meandri gurgite miti, | Quem iusta volvens se murmurat unda Caistri».
  • 7. «La torta obliqua sponda»: quel che DIONIGI dice «volvens se» imperochè i ravolgimenti di Meandro sono simili a quelli del laberinto.
  • 11a. «Ma questa mia» paragona la sua Donna a' cigni ne la bianchezza e ne la dolcezza del canto.
  • 16. «Un animal terreno»: intende il Poeta de l'armellino, il qual chiama «animal terreno» a differenza del cigno che parimente è candido; e l'uno e l'altro similmente puro, significano l'innocenza. Ma il cigno è ucello conosciutissimo da gli Antichi et celebratissimo ne le prose e ne' versi de' Greci, e particolarmente da PLATONE nel dialogo De l'immortalità de l'anima, dov'egli introduce Socrate a raccontare il sogno fatto la notte avanti al giorno ch'egli morisse. De l'armellino non si la mentione similmente ne l'Historie o altro scritto de gli Antichi, ma dal GIOVIO è messo per simbolo de l'innocenza e de la parità. Il BEMBO similmente disse: «Caro Armellin, ch'innocente si giace».
  • 19. «Morir più tosto che bruttarsi elegge»: esprime queste parole latine: «potius mori, quam foedari».
  • 20. «Però, come si legge»: narra il modo co 'l quale sono presi gli armellini, de' quali i Principi, e particolarmente quel di Vinegia, suol fodrar le robbe di broccato d'oro, e le nobili Donne sogliono ancora portarle per ornamento.
  • 26a. «Così la fera mia»: assomiglia la sua Donna a l'armellino e la chiama «sua fera», havendo risguardo a l'honestà, per la quale alcuna volta pareva salvatichetta anzi che no.
  • 26b. «perchè s'adorni»: dice ch'ella è solita di fuggir la vergogna più che la morte, laonde per questa cagione forse soleva adornarsi di questo candido e pretioso vestimento.
  • 31. «In Grecia un fonte instilla»: in Beotia, come racconta FAZIO DEGLI UBERTI nel suo Dittamondo, sono due fonti di contraria virtù, l'uno de' quali toglie la memoria, l'altro la rende. Con questa comparatione dimostra il Poeta come la sua Donna il possa privar de la memoria e poi restituirgliela. E la chiama «fonte» per l'abondanza de le gratie.
  • 40a. «Tor la memoria può»: ha riguardo tacitamente a' due favolosi fiumi del Purgatorio nominati da DANTE, de' quali Lete toglie la memoria del male, Eunoè la restituisce del bene.
  • [46-60]. In questa stanza il Poeta assomiglia la sua Donna ad uno di que' fiori che sono «coronarij generis», chiamato Aurelia da TEOFRASTO ne l'Historia de le piante. Del quale alcun portava opinione ch'egli havesse virtù di dar buona fama, sì come afferma il medesimo autore ne l'istesso libro.
  • 46-47a. «Se non è vana in tutto | L'antica fama» «antica» chiama la fama, non solo perch'è suo aggiunto propio, ma perchè hora a pena se ne ragiona fra gli herbolarij e fra gli altri che fanno professione di conoscer le virtù de l'herbe e de' fiori.
  • [61-75]. Narra similmente TEOFRASTO ne l'Historia de le piante, et PROCLO nel trattato Del sacrificio et de la magia, che il loto piega le foglie avanti il nascer del sole, ma nascendo il sole egli le dispiega a poco a poco. E quanto il sole monta verso il mezo del cielo, tanto le spande. Ma quando comincia a dechinar verso l'Occaso, di grado in grado rinchiude le foglie. Con questa similitudine veramente maravigliosa, ci pone il Poeta avanti gli occhi la sua Donna, ch'appariva la mattina co' suoi capegli disciolti, e la sera gli haveva velati e raccolti in treccia.
  • [76-90]. Come racconta SOLINO, in Persia è una pietra detta Helitis lapis, la qual riluce come il sole. Di questa parimente fa mentione DIONIGI dicendo «Gemmaque quae radios emittit candida Solis». E PROCLO ne l'istesso libro afferma ch'ella imita co' raggi doro i raggi solari. A questa assomiglia il Poeta la sua Donna, la qual per la durezza è simigliante a tutte le pietre, per la bellezza a la pietra del sole particolarmente.
  • 85. «Ma segue un'altra poi de la sorella»: la paragona ad una altra pietra nomata Selenites, cioè lunare. La qual, come afferma PROCLO, è simigliante a la Luna ne la figura corniculare. E con certa sua mutatione segue il moto de la luna. DIONIGI ancora scrive di lei in questo modo: «Atque, selenites lunaris imagine lunae | Quod decus et minuit proprij splendoris, et auget».
  • 91. «Canzon, ch'io non divegna»: rivolge il parlare a la canzone, dicendo ch'egli diverrebbe [92] «Fra tante maraviglie un muto sasso», cioè stupido, non potendo renderne la cagione o parlarne convenevolmente. Ma che per gratia de la sua Donna nondimeno egli non ha perduto ancora la voce o 'l movimento.

CIV

Introduce lo Sdegno a contender con Amore avanti la Ragione.

Quel generoso mio guerriero interno,
Ch'armato in guardia del mio core alberga
Pur come duce di guerrieri eletti,
A lei, ch'in cima siede ove il governo
5Ha di nostra natura, e tien la verga
Ch'al ben rivolge gli uni e gli altri affetti,
Accusa quel ch'a' suoi dolci diletti
L'anima invoglia, vago e lusinghiero:
- Donna del giusto impero,
10C'hai tu dal Ciel, che ti creò sembiante
A la virtù che regge
I vaghi errori suoi con certa legge,
Non fui contrario ancora, o ribellante,
Nè mai trascorrer parmi,
15Sì che non possa al tuo voler frenarmi.
Ma ben presi per te l'armi sovente
Contra il desio, quando da te si scioglie,
Et a' richiami tuoi l'orecchie ha sorde.
E qual di varie teste empio serpente,
20Se medesmo divide in molte voglie,
Rapide tutte, e cupide et ingorde.
E sovra l'alma stride e fischia e morde,
Si che dolente ella sospira e geme,
E di perirne teme.
25Queste sono da me percosse e dome,
E molte ne recido,
Ne fiacco molte e lui non anco uccido;
Ma le rinova ei poscia, e non so come
Via più tosto ch'augello
30Le piume o i tronchi rami arbor novello.
Ben il sai tu, che sovra il fosco senso
Nostro riluci sì da l'alta sede,
Come il sol che rotando esce di Gange.
E sai come il desio piacere intenso
35In quelle sparge, ond'ei l'anima fiede
Profonde piaghe, e le riapre e l'ange.
E sai come si volga, e come cange
Di voglia in voglia, al trasformar d'un viso,
Quando ivi lieto un riso,
40O quando la pietà vi si dimostra,
O pur quando tal'hora
Qual viola il timor ei vi colora,
O la bella vergogna ivi s'inostra;
E sai come si suole
45Raddolcir anco al suon de le parole.
E sai se quella, che sì altera e vaga
Si mostra in varie guise e 'n varie forme,
Quasi novo e gentil mostro si mira:
Per opra di Natura e d'arte maga
50Se medesma e le voglie ancor trasforme
De l'alma nostra che per lei sospira.
Lasso, qual brina al sole, o dove spira
Tepido vento, si discioglie il ghiaccio.
Tal ancor io mi sfaccio
55Spesso a' begli occhi, et a la dolce voce.
E mentre si dilegua
Il mio vigor, pace io concedo o tregua
Al mio nemico; e quanto è men feroce,
Tanto più forte il sento,
60E volontario a' danni miei consento.
Consento, che la speme onde ristoro
Per mia natura prendo e mi rinfranco,
E nel dubbio m'avanzo e nel periglio,
Torca da l'alto obietto, a' bei crin d'oro,
65O la raggiri al molle avorio e bianco,
Et a quel volto candido e vermiglio.
O le rivolga al variar del ciglio,
Quasi fosse di lui la spene ancella,
E fatta a me ribella;
70Ma non avien che 'l traditor s'acqueti:
Anzi del cor le porte
Apre, e dentro ricetta estranie scorte,
E fora messi invia scaltri e secreti;
E s'io del ver m'aveggio,
75Me prender tenta, e te cacciar di seggio. -
Così dice egli al seggio alto converso
Di lei, che palma pur dimostra e lauro;
E 'l dolce lusinghier così risponde:
- Alcun non fu de' miei consorti averso
80Per sacra fame a te di lucido auro,
Ch'ivi men s'empie, ov'ella più n'abonde;
Nè per brama d'honor, ch'i tuoi confonde
Ordini giusti. E s'io rara bellezza
Seguij sol per vaghezza,
85Tu sai, ch'a gli occhi desiosi apparse
Donna così gentile
Nel mio più lieto aprile,
Che 'l giovenetto cor subito n'arse.
Per questa al piacer mossi
90Rapidamente, e dal tuo fren mi scossi.
Forse (io no 'l niego) incauto allhor piagai
L'alma; e se quelle piaghe a lei fur gravi,
Ella se 'l sa, tanto il languir le piace.
E per sì bella Donna anzi trar guai
95Toglie, che medicine ha sì soavi,
Che gioir d'altra, e ne' sospir no 'l tace.
Ma questo altero mio nemico audace,
Che per leve cagion, quando più scherza,
Se stesso infiamma e sferza,
100In quella fronte più del ciel serena,
A pena vide un segno
D'irato orgoglio e d'orgoglioso sdegno,
E d'averso desire un'ombra a pena,
Che schernito si tenne,
105E del dispregio sprezzator divenne.
Quant'ei superbì poscia, e 'n quante guise
Fu crudel sovra me, già vinto e lasso
Nel corso, e per repulse isbigottito,
Il dica ei, che mi vinse e non m'ancise:
110Se 'n glori pur, ch'io gloriar il lasso.
Questo io dirò; ch'ei folle e non ardito
Incontra a quel voler, che teco unito
Tale ogn'hor segue chiare interne luci,
Qual io gli occhi per duci
115Non men che sovra 'l mio l'arme distrinse;
Perchè 'l vedea sì vago
De la beltà d'una celeste imago,
Come fossi io, nè lui da me distinse,
Nè par che ben s'aveda
120Che siam qua' figli de l'antica Leda.
Non siam però gemelli: ei di celeste,
Io nacqui poscia di terrena madre;
Ma fu il padre l'istesso, o così stimo.
E ben par, ch'egualmente ambo ci deste
125Un raggio di beltà, che di leggiadre
Forme adorna e colora il terren limo.
Egli s'erge sovente, et a quel primo
Eterno mar d'ogni bellezza arriva,
Ond'ogni altro deriva.
130Io caggio, e 'n questa humanità m'immergo:
Pur a voci canore
Tal volta, et a soave almo splendore
D'occhi sereni mi raffino e tergo.
Per dargli senza assalto
135Le chiavi di quel core, in cui t'essalto.
E con quel fido tuo, che d'alto lume
Scorto si move, anch'io raccolgo e mando
Sguardi e sospiri, miei dolci messaggi.
Per questi, egli talhor con vaghe piume,
140N'esce, e tanto s'inalza al ciel volando,
Che lascia adietro i suoi pensier più saggi.
Altre forme più belle, ad altri raggi
Di più bel sol vagheggia; et io felice
Sarei, com'egli dice,
145Se tutto unito a lui seco m'alzassi.
Ma la grave e mortale
Mia natura mi stanca in guisa l'ale,
Ch'oltra i begli occhi rado avien ch'i passi.
Con lor tratta gli inganni
150Il tuo fedel seguace, e no 'l condanni.
Ma s'a te non dispiace, alta Regina,
Che là donde in un tempo ambe partiste
Egli rapido torni, e varchi il cielo,
Condotto no, ma da virtù divina
155Rapto di forme non intese o viste;
A me, che nacqui in terra e 'n questo velo,
Vago d'altra bellezza (e non te 'l celo),
Perdona, ove talhor troppo mi stringa
Con lui, che mi lusinga.
160Forse ancora averrà, ch'a poco a poco
Di non bramarlo impari,
E col voler mi giunga e mi rischiari
A' rai del suo celeste e puro foco,
Come nel ciel riluce
165Castore unito all'immortal Polluce. -

  • [1-168]. In questa canzona, ne la quale imita il Poeta l'accusa fatta dal PETRARCA ad Amore avanti il tribunal de la ragione e la difesa d'Amore, egli introduce ne l'istesso modo l'ira o lo sdegno, il quale accusa Amore avanti a medesima Regina. E non è ciò fatto dal Poeta senza molta convenevolezza, imperochè ne l'animo nostro è l'essempio e l'imagine de la Republica, sì come afferma PLATONE, primo di tutti gli altri, ne' suoi dialoghi de la Giustitia. E le parti de l'animo sono disposte come quelle de la città. Avvegna che la ragione di cui sono operationi il discorrere, il consigliare, l'eleggere, rappresenta il re co 'l senato. L'ira, o la potenza irascibile, è simile a' soldati che stanno a la guardia, ma la concupiscibile più s'assomiglia a la turba de gli artefici e de' ministri. E sì come queste tre potenze sono distinte, così parimente si distingue la sede di ciascuna e 'l luogo in cui manifesta le sue operationi. Perchè la ragione sta nel capo, l'appetito irascibile nel cuore, il concupiscibile nel fegato, separato da quello che si chiama septotransverso, e legato come bestia al presepe, o, se vogliamo dire, come asino a la mangiatoia. E benchè ARISTOTELE porti contraria opinione, perochè assegnando al cuore il principato fra le parti del corpo pone la reggia de l'anima ne l'istesso luogo, i medici nondimeno, ch'attribuiscono il principato al cervello, seguiron il giudicio d'HIPPOCRATE e di PLATONE, i quali furono in ciò assai concordi, come dimostra GALENO nel libro De Placitis Hippocratis et Platonis. Hor vegniamo a l'interpretatione de le parole.
  • 1. «Quel generoso mio guerriero interno»: chiama l'ira o lo sdegno «guerrero» perch'egli combatte per la ragione contra la cupidigia, come afferma il medesimo PLATONE.
  • 2. «Ch'armato a guardia del mio core alberga»: perch'a l'appetito irascibile è assegnato il cuore.
  • 3. «Pur come duce di guerrieri eletti»: perchè molte sono le passioni in ciascun ordine.
  • 4a-5b. «A lei, ch'in cima siede [...] | [...] e tien la verga»: a la Ragione o a la Prudenza, a la quale, come a regina, attribuiscer lo scettro.
  • 6. «Ch'al ben rivolge gli uni, e gli altri affetti»: cioè gli affetti de la concupiscibile, i quali hanno per obietto il bene assolutamente, come hanno dapoi detto san TOMASO ne la seconda parte de la Somma, et EGIDIO [COLONNA] sovra il secondo de la Retorica, et altri Teologhi. E gli affetti ancora de l'irascibile, c'hanno per obietto il bene malagevole a conseguire, o come i Latini dicono, «bonum arduum».
  • 9-10a. «Donna del giusto impero, | C'hai tu dal Ciel»: queste son le parole che dice l'ira a la ragione. E chiama «giusto impero» quello de la ragione sovra gli affetti, perchè la giustitia naturale de le parti consiste nel buon ordine e ne la dispensatione, cioè quando la ragione comanda e gli altri obbediscono.
  • 11-12. «la virtù che regge | I vaghi errori suoi con certa legge»: a l'intelligenze, però che l'intelletto è parte de l'anima nostra, e simile a gli intelletti separati.
  • 16. «Ma ben presi per te l'arme sovente»: già s'è detto che l'ira combatte per la ragione.
  • 17a. «Contra il desio»: contra Amore.
  • 17b. «quando da te si scioglie»: o perchè la cupidità sia legata, come dice PLATONE, o più tosto perch'ogni soggettione è una sorte d'obligo e di legame.
  • 18. «Et a' richiami tuoi»: a le riprensioni, perchè la parte ragionevole, come dice ARISTOTELE nel primo de l'Ethica, è quasi maestra de l'irragionevole, la qual nondimeno partecipa de la ragione.
  • 19. «E qual di varie teste empio serpente» PLATONE figura ne l'animo l'imagine de l'Hidra, ch'altro significa che la cupidità, la quale ha infiniti capi, perch'infiniti sono i desiderij, i quali germogliano l'uno da l'altro. E già abbiamo detto che le cupidità sono simili a gli artefici, laonde si possono assomigliare al popolo, ch'è quasi uno animal bruto grande oltra misura e robusto. Come dice ne gli istessi Dialoghi il medesimo autore.
  • 25. «Queste sono da me percosse e dome»: assomiglia lo sdegno ad Hercole, e la cupidità a l'Hidra, che rinovava le teste, com'è scritto ne le favole.
  • 31a. «Ben il sai tu»: il saper è conoscer le cose per le cagioni, come dice ARISTOTELE, e questo è proprio de la ragione, perchè la cognitione del senso, quantunque possa esser certa, non è scienza.
  • 31b. «che sovra il fosco senso»: chiama «fosco» il senso, cioè l'anima sensitiva, perch'ella per se medesima è priva del lume de la ragione.
  • 32. «Nostro riluci sì, da l'alta sede»: «alta» chiama la sede in cui riluce la ragione, perch'ella è ne la sublime parte del corpo, e l'altre potenze hanno la sede assai più bassa. O la chiama «alta» accennando l'opinione d'alcuni Platonici che l'intelletto sia parte in noi, e parte fuori di noi.
  • 33. «Come il sol che rotando esce di Gange»: la parte ch'è ragionevole per se stessa, è assomigliata al sole, il quale non riceve il lume di alcuno altro, ma la parte ch'è ragionevole per partecipatione, si può paragonare alla luna illustrata dal sole.
  • 34. «E sai come il desio piacere intenso»: la potenza superiore contiene la inferiore, e l'una anima è contenuta ne l'altra, come il Trigono nel Tetragono. Laonde la cognitione del senso eminentialmente, per così dire, è compresa nel conoscimento de l'intelletto.
  • 37. «E sai come si volga, e come cange»: dimostra come i desideri si mutino al variar de gli obietti, et insieme ha risguardo a gli ammaestramenti di PLATONE, il quale c'insegna come si posson conoscer le varie cupidità di quel suo grande animale, e le cagioni per le quali hora diventa più feroce, hora più mansueto.
  • 46. «E sai se quella, che sì altera e vaga»: non «altera e disdegnosa» si dimostrava l'amata Donna, come la desidera il PETRARCA, dicendo «Et in Donna amorosa ancor m'aggrada | Ch'in vista vada altera e disdegnosa | Non superba o ritrosa», ma «altera e vaga», perch'in questo modo potea invaghirlo più agevolmente.
  • 47a. «Si mostra in varie guise»: per rispetto de gli abiti.
  • 47b. «'n varie forme»: per le mutationi del volto e de' costumi.
  • 48. «Quasi novo e gentil mostro si mira»: «mostro» senza altro aggiunto si poteva prendere in mala parte, ma con gli aggiunti laudevoli, si prende in buona, come in questo luogo et in quel di PETRARCA: «O de le donne altero e raro mostro».
  • 49. «Per opra di Natura e d'arte maga»: «di natura» perchè le mutationi del volto sogliono esser naturali; «d'arte maga», perchè l'officio de la magia naturale altro non è ch'applicare «activa passivis». Et ella sapea per quai cose il Poeta pativa maggior passione, nè disconvenevolmente per questo rispetto le attribuisce l'arte maga. Perchè la natura è maga, come dice MARSILIO FICINO sovra Platone, et Amore è mago similmente.
  • 52a. «Lasso, qual brina al sole»: dimostra le cagioni per le quali lo sdegno s'era intepidito: l'una era la bellezza del volto, l'altra la dolcezza de le parole.
  • 58b-59. «quanto è men feroce, | Tanto più forte il sento»: le forze d'Amore consistono principalmente nel piacere.
  • 61-62a. «Consento, che la speme onde ristoro | Per mia natura»: l'ira, la quale è desiderio di vendetta, si conserva con la speranza di potersi vendicare. Avegna che niun desideri le cose impossibili.
  • 63. «E nel dubbio m'avanzo, e nel periglio»: perchè molti ne le cose pericolose sono forti per la speranza, come dice ARISTOTELE nel quinto de le Morali.
  • 64. «Torca da l'alto obietto, ad un crin d'oro»: la speranza ha per obietto il bene, in quanto egli è difficile. Però dice «alto obietto», quasi arduo. Ma rivolgendosi a le cose piacevoli, par che s'inchini e s'abbassi da la sua natura.
  • 68-69. «Quasi fosse di lui la speme ancella, | E fatta a me ribella»: cioè quasi la speranza fosse una de le passioni de l'appetito concupiscibile. Perchè se noi speriamo di goder la bellezza d'alcuna Donna, perchè la speranza si possa riponere nel numero di queste passioni. La cosa nondimeno sta altrimenti, perchè la speranza è ne l'appetito irascibile e ne l'ordine de gli altri affetti di tale appetito, come piace a san TOMASO et a EGIDIO [COLONNA], e come la ragione medesima ci dimostra. Avegna che la speranza sia de le cose malagevoli, ma l'appetito concupiscibile non risguarda il bene, in quanto egli è malagevole.
  • 70. «Ma non avien che 'l traditor s'acqueti»: chiama Amor «traditore», come fece il PETRARCA dicendo «E poi m'apparve | Quel traditore in sì mentite larve».
  • 71-72. «Anzi del cor le porte | Apre, e dentro ricetta estranie scorte» imitatione del PETRARCA: «che fere scorte | vai ricettando».
  • 74. «E s'io del ver m'aveggio»: perchè l'ira è custode, e suo officio è il far la guardia.
  • 78. «E 'l dolce lusinghier così risponde»: chiama l'amor «dolce lusinghiero» perch'egli conduce per la strada del piacere, come la ragione per quella de la virtù.
  • 79-80. «Alcun non fu de' miei consorti averso | Per sacra fame a te di lucido auro»: Amore, come habbiamo detto, è ne l'appetito concupiscibile: però chiama «suoi consorti» tutti gli affetti che sono ne l'istesso appetito, i quali sono molti, et infiniti, come stima alcuno. Ma egli, tacendo le cupidità del mangiare e del bere, fa mentione di due principali: de l'avaritia, la quale è soverchia cupidigia d'havere, e de lo smoderato desiderio d'honore, che chiamiamo ambitione, dicendo che ne l'animo del Poeta niuno di questi affetti discordò da la ragione, ma tutti paiono da lei moderati. De l'avaritia parla in quel verso «Per sacra fame a te di lucido auro». E soggiunge [81]«Ch'ivi men s'empie, ov'ella più n'abonde», per darci a divedere che le cupidità de l'avaro sono insatiabili. DANTE, ragionando nel medesimo soggetto, disse ad imitatione di Vergilio, «[...] o sacra fame», cioè essecrabile. Et in un altro luogo: «de la tua fame, senza fine cupa».
  • 82b-83a. «ch'i tuoi confonde | Ordini giusti»: è proprio de l'ambitione confonder gli ordini, così ne l'animo come ne la Republica.
  • 83b. «E s'io rara bellezza»: scusa se medesimo d'esser stato invaghito de la bellezza e d'haver seguito il piacer ne la sua gioventù
  • 76a. «Così dice egli»: qui finisce il parlar de lo sdegno avanti la ragione, la qual dimostrava palma e lauro. Però che questi sono i premi che distribuisce la virtù, quasi volendo accennare che l'huomo guidato da la ragione, non cerca fra le cose esteriori alcuna più de l'honore, il quale è grandissimo oltre tutti i beni.
  • 91-92a. «Forse (io no 'l niego) incauto allor piagai | L'alma»: è concessione, figura assai spesso usata dagli oratori.
  • 92b. «e se quelle piaghe a lei fur gravi»: a «lei», cioè a l'anima.
  • 93. «Ella se 'l sa, tanto il languir le piace»: quasi voglia dire «le piace tanto, che non ricusa di confessarlo». Et in questo luogo il Poeta ha risguardo a l'opinione di SOCRATE nel Filebo, che ne gli infermi i piaceri siano maggiori, e più vehementi che ne' sani e temperati.
  • 94-95a. «E per si bella Donna anzi trar guai | Toglie»: imita il PETRARCA, il qual disse: «Togliendo anzi per lei sempre trar guai», cioè eleggendo.
  • 95b. «che medicine ha sì soavi»: le bugie sono quasi medicamenti, come dice PLATONE. Chiama dunque le medicine menzogne de la sua Donna, quando ella diceva d'amarlo, o medicine chiama i piaceri, come gli chiama ARISTOTELE ancora nel settimo de le Morali. Tutto che PLATONE neghi nel Filebo che tutti i piaceri siano mitigatori del dolore.
  • 97. «Ma questo altero mio nemico audace»: con due aggiunti descrive lo sdegno, il quale è nemico de l'Amore, col chiamarlo «audace» e «altiero».
  • 98-99. «Che per leve cagion, quando più scherza | Se stesso infiamma e sferza»: esprime la natura del leone e quale è simbolo de l'ambitione, come piacque a DANTE. Ma PLATONE ne l'anima nostra il pone quasi figura de l'anima irascibile, imperochè è proprietà del leone battersi con la coda.
  • 105. «E del dispregio sprezzator divenne»: havendo chiamato lo sdegno «altiero», hor descrive una principalissima qualità de l'altiero, ch'è lo sprezzar coloro da' quali si reputa sprezzato.
  • 106. «Quant'ei superbì poscia»: l'haveva descritto «altiero» avanti la vittoria, doppo la vittoria lo descrive superbo e crudele.
  • 109a. «Il dica ei»: mirabile artificio o di non manifestar i vitij de l'aversario, perch'egli medesimo li confessi, o di palesarli, dicendo di non palesarli.
  • 111a. «Questo io dirò» è temerità offendere i più possenti e più degni.
  • 111b. «ch'ei folle e non ardito, | Incontra a quel voler, che teco unito»: due sono ne la prima Distintione gli appetiti, l'uno che segue la cognitione de l'intelletto, chiamato con proprio nome volontà; l'altro, il quale è seguace del conoscimento del senso. E questo propriamente si dice appetito, e si distingue nel concupiscibile e ne l'irascibile. Ne l'uno è Amore, ne l'altro è lo sdegno. Ma lo sdegno, prendendo l'armi contra l'Amore e contra tutto l'appetito de la concupiscenza, trapassò (come dice Amore) i segni, non s'avedendo ch'egli combatteva contra la volontà.
  • 118b. «nè lui da me distinse»: quasi cieco ne la sua furia non conobbe l'uno da l'altro appetito, i quali son quasi fratelli, e simili a' figlioli di Leda, che furono Castore e Polluce.
  • 121a. «Non siam però gemelli»: i due appetiti del senso e dell'intelletto sono i due Amori, nati di due Veneri. Cioè da la celeste e da la volgare. L'uno immortale, l'altro mortale. Et in questa parte simili a Castore et a Polluce, ma differenti, perchè quelli hebber comune la madre terrena, questi il padre, celeste. Si può anche intender per la madre de l'uno, l'anima ragionevole, o la mente; e per la madre de l'altro la sensitiva, la qual nasce e muore co 'l suo corpo. E questa spositione è più conforme a la mente del Poeta, et a le parole d'Amore che mostrò di riconoscere per suo padre, cioè per cagion facitrice il bello, o 'l [125] «raggio» de la bellezza.
  • 127-128. «Egli s'erge sovente, et a quel primo | Eterno mar d'ogni bellezza arriva»: ha risguardo a le parole di PLATONE nel Convito: «Verum in profundum pulchritudinis se pelagus mergat, ubi ipso intuitu multas praeclaras atque magnificas rationes intelligentiasque in philosophia abunde pariat».
  • 130a. «Io caggio»: confessio criminis.
  • 130b. «e 'n questa humanità m'immergo»: cioè non potendo immergermi nel mar profondo de la divina bellezza, m'immego in questo de l'humanità. E così per la sua debolezza scorgo il peccato che si confessa.
  • 131. «Pur a voci canore»: si purga con gli obietti di duo sensi, che sono spirituali.
  • 134-135. «Per dargli senza assalto | Le chiavi di quel core, in cui t'essalto»: non dico le «chiavi» de l'intelletto, che sta nel capo, ma del cuore, dove alberga il mio nemico, il quale non t'honora come regina. Acutissima confessione d'Amore, quasi divenuto peripatetico, che sdegnando di star nel fegato, desidera d'albergar nel cuore insieme con l'imaginatione de la sua Donna.
  • 136-137a. «E con quel fido tuo, che d'alto lume | Scorto si move»: con la volontà che segue il conoscimento de la ragione. O intende alcuno altro lume superiore.
  • 137b. «anch'io raccolgo e mando»: dichiara quai sian quelli che l'aversario ha chiamato [72] «estranie scorte». E diminuisce l'acerbità del nome loro imposto.
  • 139. «Per questi, egli talhor con vaghe piume»: con l'ale amorose.
  • 140-141. «N'esce, e tanto s'inalza al ciel volando, | Che lascia adietro i suoi pensier più saggi»: quasi l'operationi de la ragione non si possano agguagliare a quelle del furore amoroso.
  • 142a. «Altre forme più belle»: le forme separate da la materia.
  • 142b-143a. «ad altri raggi | Di più bel sol vagheggia»: a' raggi del sole intellettuale.
  • 143b. «et io felice»: se l'appetito del senso si conformasse con la volontà illuminata da lume superiore, l'huomo sarebbe felice. Imperochè in quanto è volontà, ha il bene per obietto. In questo illustrata da lume superiore, non si inganna ne l'elettione.
  • 146-148. «Ma la grave e mortale | Mia natura mi stanca in guisa l'ale, | Ch'oltra i begli occhi rado avien, ch'i passi»: translatio criminis. Prima ne la natura humana, per la quale l'appetito del senso si piega a gli obietti piacevoli.
  • 149. «Con lor tratta gl'inganni»: dapoi trasporta la colpa ne la volontà, se pur v'è alcuna colpa: ma pur che l'uno e l'altro appetito sia colpevole, l'uno per haver passati i segni ne l'amar sensualmente l'altro, perchè negando la pace, haveva impedito che l'amor sensuale si convertisse in amicitia, come era l'inclinatione de la volontà.
  • 151. «Ma s'a te non dispiace, o Peregrina»: chiama l'anima ragionevole «peregrina», come chiamò DANTE: «Frate, disse, ciascuna è cittadina | D'una vera Città, ma tu vuoi dire | Che vivesse in Italia peregrina». E 'l PETRARCA, parimente intendendo de l'anima, disse: «Dentro le quai peregrinando albergo». Altrimenti si legge «alta Regina».
  • 154. «Condotto no, ma da virtù divina»: cioè non guidato dal tuo lume naturale e da la tua cognitione, ma rapito da virtù divina e sopranaturale di forme non intese o viste: figura detta da' Greci hysteron proteron, che perturbando l'ordine, mette prima quel ch'è dopo, cioè de le forme separate et de l'inteligenze, le quali non sono viste perchè non sensibili, e non intese abastanza, perchè non se ne intende il quid est, ma il quia est, come insegna san TOMASO.
  • 156a. «A me, che nacqui in terra»: dimanda perdono a la ragione s'egli è troppo desideroso del piacere, perchè intende il piacere per colui che mi lusinga. E quasi ricordandosi d'esser stato chiamato «lusinghiero», trasporta in altrui la colpa.
  • 160a. «Forse ancora averrà»: ch'io non stimi il piacere, o che lo stimi assai meno.
  • 162a. «E col voler mi giunga»: l'appetito del senso, congiungendosi con quello de l'intelletto, parteciperà de la sua immortalità, come Castore di quella di Polluce. Ma di questa unione leggi l'ACCIAIUOLO sovra l'Etica di Aristotele.

CV

Dichiara con la similitudine del fuoco e del fonte, come da un amore nascessero molti amori.

Voi che pur numerate i nostri amori
E per saldar la mia ragione antica,
Qual mi fosse benigna e qual nemica,
4E le mie vecchie colpe e i novi errori,
Non ha tanti l'aprile herbette e fiori,
Nè questo lido e questa piaggia aprica
Ha tante arene ove più il mar s'implica,
8Nè tanti bella notte almi splendori,
Quante fur le mie pene in breve gioco,
E quante le mie fiamme, e 'l cor nudrille
11Pur come faci d'un medesmo foco.
E sparse un fonte sol le dolci stille,
Ma non spense l'arsura o tempo o loco,
14D'Amor nascendo Amori a mille a mille.

  • . 1a «Voi, che pur numerate»: ne' due quadernari imita Anacreonte. I versi di ANACREONTE son questi: «Eἰς τνυς ἐαυτοῦ ἐροντας | ἠ φύλλα πάντα δενδρων | Επίσα σαι κατειπεῖν | Εἰ κμαθῶ θαλάασκος | Σε τῶ γεμῶν ἐρ των | Μόνον τνιῶ λογισκ᾿ ν». Ma ne' terzetti lascia l'imitatione e va poetando di propria inventione e con vaghe comparationi che possono esprimere il suo concetto.

CVI

Descrive il levarsi del sole e de la sua Donna e la stagione e 'l luoco dove habitava.

Dove nessun teatro o loggia ingombra
La vista lieta del notturno cielo,
L'aura si mostra senza benda o velo,
4Sì come stella suol che nulla adombra.
Ma quando l'alba poi la notte sgombra,
E sveglia l'aura e me, ch'avampo e 'l celo,
E si sparge per l'aria il dolce gelo
8E cantan gli augelletti insieme a l'ombra,
Le sorge incontra in più serena fronte
E desta Amor, che ne' bifolci inspira
11Desio di canto più sonoro e vago.
E se talhor si specchia in fiume o 'n fonte
II Sol, ne l'onde tremolar non mira
14Sì bella mai la ripercossa imago.

  • 1-2. «Dove nessun teatro, o loggia ingombra | La vista lieta del notturno cielo»: quasi l'altissime fabriche siano impedimento non solo a veder la sua Donna, ma a contemplar le bellezze del cielo e de la natura, ad imitatione del PETRARCA: «Qui non palazzi, non teatro o loggia, | Ma 'n lor vece un abete, un faggio, un pino | Tra l'herba verde, e 'l bel monte vicino, | Ove si scende poetando, e poggia | Levan di terra al ciel nostro intelletto». Nè men chiaramente in que' versi di DANTE: «Chiamavi il cielo, e 'ntorno vi si gira | Mostrandovi le sue bellezze eterne».
  • 3. «L'aura si mostra senza benda o velo»: questo pare un principio di nuovo amore, perch'erano rimossi tutti gl'impedimenti di contemplar l'una e l'altra bellezza.
  • 5. «Ma quando l'alba poi la notte sgombra»: accenna quello che da gli altri poeti toscani più ampiamente è stato espresso in questa lingua: «Mortalis visus pulchrior esse deo».
  • 10a. «E desta Amor»: nel medesimo tempo si destano il sole, la sua Donna et Amore.
  • 12. «E se talhor si specchia in fiume o 'n fonte»: comparatione de lo specchio del sole a quello della sua Donna.
  • 14b. «la ripercossa imago»: l'imagine che più risplende ne l'acque per la reflessione de' raggi, i quali riflettendosi sogliono moltiplicare. Così VERGILIO nell'ottavo de l'Eneide: «Sicut aquae tremulum labris, ubi lumen aenis | Sole repercussum, aut radiantis imagine Lunae».

CVII

Con la comparatione del vento, dimostra come l'amor de la sua Donna torni in se stesso.

Come vento ch'in sè respiri e torni,
L'aura voi sete; e se da voi si move,
In voi raggira Amor, nè cerca altrove
4Più felici e più chiari e bei soggiorni.
E 'l desio riede in voi co' lieti giorni,
E l'antico pensier con l'herbe nove,
E par ch'in voi rinverda, a voi rinove
8Tante bellezze, e solo a voi s'adorni.
E mentre ei vola fuor di voi talhora,
Tutto di fiamme e di saette armato,
11Spargendo dolci spirti in su l'aurora,
Con un sospiro mi può far beato;
E basterà ch'io senta, anzi ch'io mora,
14Queste brevi parole: amante amato.

  • 1-2a. «Come vento ch'in sè respiri e torni, | L'aura voi sete»: non solo il vento Cecia, il qual tira a sè le nubi, ritorna in se medesimo, ma tutti in qualche modo fanno questo ritorno, perchè il moto de' venti, quantunque non sia perfettamente circolare, è nondimeno obliquo.
  • 2b-3a. «e se da voi si move, | In voi raggira Amor»: l'amore è differente da la benivolenza, come dice s[an] TOMASO ne la seconda parte de la Seconda perchè la benivolenza non si riflette, ma termina ne le persone, a cui ben si vuole, ma l'amore si riflette. Avegnache in ogni amor di concupiscenza non si ricerchi propriamente il ben de l'amico, ma il proprio piacere.
  • 3b. «nè cerca altrove»: cioè in Cipri o in altro luogo celebrato da gli scrittori.
  • 5a. «El desio riede in voi»: descrive la stagion de l'anno che ne dispone ad amare.
  • 7. «E par ch'in voi rinverda»: la reflessione de l'amore non è in un modo comune, come è quella di tutti gli amanti, ma con una maniera assai particolare somiglia quella di Narcisso. Laonde questo par che sia un perfetto modo di ritornare in se stesso.
  • 9. «E mentre ei vola fuor di voi talhora»: per accender gli altri, e per ferirli.
  • 12. «Con un sospiro mi può far beato»: perchè non è necessaria a la felicità et a la perfettion d'amore l'union de' corpi, ma basta quella de gli animi e la vicendevole affettione.

CVIII

Dimostra il medesimo con la similitudine del raggio e de l'eco.

Sì come torna onde si parte il sole,
Uscì da' bei vostr'occhi un raggio altero,
Et illustrò la mente e 'l mio pensiero,
4E da miei lumi avien ch'a voi rivole.
E come indietro a rimandare il sole
Ardente specchio, ch'assomiglia il vero,
Il rendo a voi mentre languisco e pero,
8e 'n guisa d'Eco i detti e le parole.
Dura legge d'Amor: gli affetti miei
In voi raccendo, e sete oggetto e meta
11De' pensieri amorosi, o dolci o rei.
Per me non fuste voi pensosa o lieta:
Deh, si rivolga in me quanto vorrei
14L'amor, che 'n voi finisce, e 'n voi s'acqueta.

  • 1. «Sì come torna, onde si parte il sole»: haveva il Poeta fatta comparatione de l'aura e del vento con l'amor che ritorna in se stesso. Hora significa il medesimo con la similitudine del sole, ma più perfettamente, perch'il ritorno del sole è ne l'istesso punto donde prima s'era partito.
  • 5. «E come indietro a rimandare il sole»: l'essempio del raggio ch'è riflesso ne lo specchio, ci fa similmente quasi veder la riflession de l'amore. Come prima ci haveva posto davanti a gli occhi la ripercossione, o ribattimento, che vogliam dirlo, de l'imagine sensibile. Si rilette dunque prima l'imagine, e da la riflessione de l'imagine, quasi la seconda Iri da la prima, è cagionata la riflessione de l'amore. E questa è compitissima riflessione e, come habbiam detto, simile a quella di Narcisso.
  • 8a. «e 'n guisa d'Eco»: da l'imagini visibili passa ad un'altra sorte d'imagini, che sono così dette per metafora, però ch'elle sono oggetto de l'udito, e sono fatte similmente per riflessione de la voce, a guisa di palla che percotendo in qualche luogo, dove trovi resistenza, ritorna in se medesima.
  • 9a. «Dura legge d'Amor»: che 'l mio amor non si rifletta in me stesso, ma finisca in voi, e 'l vostro in voi medesima, senza rivolgersi a me che vi desidero.
  • 13a. «Deh, si rivolga a me»: affettuosa espressione del suo desiderio.

CIX

Assomigliando la sua Donna a l'aura, si lamenta ch'ella sia leggiera e fugace e nieghi di temprar il suo caldo amoroso, e desidera di riceverla almeno di passaggio.

L'aura, che dolci spirti e dolci odori
Porta da l'Oriente, ov'ella nacque,
Perchè tra verdi fronde e lucid'acque
4E fresche herbette spiri e lieti fiori,
E rinovi i suoi primi e vaghi errori
Lungo le rive, onde m'accese e piacque,
Mai ver me non si volse, e mal non giacque
8In parte ove temprasse i nostri ardori.
E se non è chi la ritenga o coglia,
Mentre si turba il sole e fa sereno,
11E mentre il bosco si riveste e spoglia,
Hor qui si desti mormorando almeno
Tra' vivi fonti e lauri, ov'io l'accoglia
14Nel suo passar veloce, e l'apra il seno.

  • 1-2a. «L'aura, che dolci spirti, e dolci odori | Porta da l'oriente»: gli odori nascono ne le parti caldissime de l'oriente. Ma 'l Poeta chiama «oriente» il luogo dov'è nata la sua Donna. O perchè l'assomiglia al sole et al vento che viene da quelle parte. O perchè ogni habitatione può essere orientale a rispetto d'una altra, come insegna TOLOMEO. Però tutte le provincie si dividono ne la parte orientale e ne l'occidentale.
  • 3a. «Perchè tra verdi fronde»: il vento prende qualità da' luoghi per li quali passa, laonde questo descritto dal Poeta doveva esser odoratissimo.
  • 5a. «E rinovi i suoi primi»: nel senso allegorico intende i diporti de la sua Donna. Nel letterale quegli del vento, che cominci a spirar ne le medesime parti e ne la medesima stagione.
  • 7a. «Mai ver me non si volse»: per sua sciagura.
  • 7b. «e mai non giacque»: per natura de l'aura, la quale è sempre in moto.
  • 9. «E se non è chi la ritenga o coglia»: descrive diverse stagioni de l'anno.
  • 12a. «Hor qui si desti»: ha risguardo a la favola di Cefalo descritta da OVIDIO, et le parole ch'egli stanco et affaticato solea dire chiamando l'aura. E son queste: «Aura, recordor enim, venia cantare solebam | Meque iuves intresque sinus, gratissima, nostros | Utque facis relevare velis, quibus urimur, aestus».

CX

Prima dubita con qual rete possa prender l'aura et in qual parte debba tenderla. E poi si mostra pentito di tentar cosa impossibile.

Di che stame ordirò la vaga rete,
Onde l'aura fugace, Amore, annodi,
Mentre fugge l'insidie e spezza i nodi,
4E le sue fiamme accende, e la mia sete?
D'alte querele forse, o di secrete?
Di soavi lusinghe e care frodi?
O di lacrime sparse in dolci modi?
8O di rime dolenti, o pur di liete?
Dove fia teso il laccio? Ove dispiega
Le belle chiome al vento un lauro ombroso?
11O pur tra l'herbe di smeraldo ascoso?
Ah, nemico di pace e di riposo,
Chi tende a l'aura, e chi la canta e prega,
14E se medesmo solo avolge e lega.

  • 1. «Di che stame ordinò la vaga rete»: fra l'esperienze e le prove di cose impossibili, con le quali il PETRARCA vuol porci avanti gli occhi la varietà de gli amanti, è quella: «E co 'l bue zoppo andrem cacciando l'aura», volendo forse darci a divedere che la maturità de consigli e la gravità con la qual sogliamo conseguir molte cose malagevoli, non bastavano a questa operatione. E tutto che paresse vana l'impresa di colui che portò per impresa «Un che la lepre seguita co 'l carro», come scrisse il padre de l'Autore, nondimeno il far la caccia de la lepre è cosa naturale, ma il cacciar l'aura è cosa fuor di nostra natura, non solo contra ogni usanza. Egual vanità è ne l'uccellare a l'aura. Nondimeno di questa ancora volle lasciar essempio il PETRARCA, dicendo «In rete accolgo l'aura, in ghiaccio i fiori». Ma il Poeta, dubitando se nel testo allegorico vi fosse alcuna cosa non isconvenevole, ricerca qual debba essere la rete che possa prender l'aura. E perchè l'aura è sottile, cerca d'assottigliare la rete; perchè occulta, d'occultarla; perch'è invisibile, di fare il laccio ancora invisibile.
  • 5. «D'alte querele forse, e di secrete»: queste sono l'artificiose fila de l'artificiosa rete, con la quale crede di prender l'aura.
  • 9a. «Dove fia teso il laccio»: ha dubitato de la materia de la rete. E non potendo farla materiale, l'ha fatta spirituale. Hora dubita del luogo, ma non gli sovenendo luogo che non sia termine di qualche corpo, mentre ne va ricercando uno intelligibile, si risolve ch'il tender a l'aura e lo spargere i lamenti a l'aura, sia cosa d'huomo vanissimo, et nimico di pace e di riposo.

CXI

Dedica a la sua Donna molti madrigali d'eccellenti ingegni, ne' quali si celebrava il lauro.

L'aura del vostro lauro in queste carte
Molti germi veggio io, molti coltori;
Ma più vago ei verdeggia in mezo a' cori,
4E coltivato v'è con più bell'arte.
E se potesse a' be' vostri occhi in parte,
Com'egli è dentro, dimostrarsi fuori,
Mille rami vedreste, e mille Amori
8Gir adunando le sue fronde sparte.
Tutti io non posso discoprirvi a pieno
Nè pur quel sol che dentro l'alma i' tegno
11In cui sì fisse ha l'alte sue radici.
E 'l vorrei palesar ne' miei felici
Frutti, che non uscir di questo ingegno,
14Ma sono miei, perchè gli scelsi almeno.

  • 1-2a. «L'aura del vostro lauro in queste carte | Molti germi veggio io»: imitatione del PETRARCA: «Solo d'un lauro tal selva verdeggia | Che 'l mio avversario con mirabil arte, | Vago tra' rami ovunque ei vuol m'adduce». Ma le «carte» sono quasi la selva, o più tosto il giardino, ov'egli è coltivato.
  • 3. «Ma più vago ei verdeggia in mezo a' cori»: imitatione similmente del PETRARCA: «[…] e piantovvi entro in mezo al core, | Un lauro verde sì che di colore | Un lauro verde havria ben vinto, e stanco».
  • 4. «E coltivato v'è con più bell'arte»: mille sono i coltori, ma due solamente sono le colture, l'una esteriore, l'altra interiore de l'animo. E benchè quella sia bella, questa nondimeno l'avanza di bellezza, anzi quella è dirizzata a questa com'a suo fine, perchè la poesia non prepone altro obietto che di quello di coltivar gli animi e gli ingegni di chi legge.
  • 5. «E se potesse a' be' vostri occhi in parte»: se la sapienza e la virtù si potesse riguardar con gli occhi, accenderebbe di sé incredibile amore, come dicono PLATONE e M[ARCO] TULLIO.
  • 9. «Tutti io non posso discoprirvi a pieno»: cioè tutti gli amori, e particolarmente quel di sapere, di cui disse il PETRARCA: «E l'amor del saper, che m'ha sì acceso | Che l'opra è ritardata dal desio». Et un altro poeta prima di lui: «Sed si tantus amor casus cognoscere nostros». E l'amor de la virtù e quel de gli honori e de gli amici.
  • 10a. «Nè pur quel sol»: intende l'amor de la sua Donna, il qual ha tutte le radici nel cuore.
  • 12b-13a. «ne' miei felici | Frutti»: ne' componimenti, i quali chiamo tutti miei, non perch'io gli habbia fatti, ma perch'io gli ho coltivati e colti.

CXII

Risponde ad un suo amico de la natura d'Amore.

Amor col raggio di beltà s'accende
Che si sparge in colori e 'n voce spiega,
E s'hor promette bella donna, hor nega
4Vigor da speme, e da timor ei prende.
Siede nel cor quasi in sua reggia, e splende
Ne gli occhi, e là si spinge ove ci piega
Natura; e s'huomo a lui fa voti e 'l prega
8Come suo Dio, soverchio honor gli rende.
Tu, se pur cerchi al viver tuo sostegno,
Prendilo da Ragion, che contra Amore
11Quasi contra nemico armata viene.
Ella corregga ogni tuo vano errore
E s'armi seco un suo guerriero Sdegno,
14Che 'l penoso tuo cor tragga di pene.

  • 1. «Amor col raggio di beltà s'accende»: descrive il nascimento d'Amore, il quale nasce di bellezza.
  • 2a. «Che si sparge in colori»: cioè di bellezza sensibile, la quale è principalmente obietto di due sensi.
  • 3a. «E s'hor promette»: parla de l'accrescimento d'Amore.
  • 5. «Siede nel cor quasi in sua reggia»: dimostra la sede di Amore secondo ARISTOTELE e gli altri Peripatetici, i quali hanno voluto che l'anima sia indivisibile nel soggetto, ma divisibile ne le virtù, perchè PLATONE estimò altrimente, e la divise ancora nel subietto, ponendo la parte ragionevole nel cervello, l'irascibile nel cuore, e la concupiscibile nel fegato, come habbiamo già detto. Tutto che non sia mancato chi habbia voluto dar a le parole di PLATONE altro senso, dicendo ch'egli colloca nel cuore la concupiscibile e la nutritiva nel fegato.
  • 6b-7a. «e là si spinge, ove ci piega | Natura»: dimostra ch'Amore non è ne l'inclinatione naturale solamente, ma ch'egli è moto vehementissimo.
  • 7b. «e s'huomo a lui fa voti»: accusa gli idolatri d'Amore, e biasima se medesimo, ch'alcuna volta sia stato in questo numero, benchè da scherzo.
  • 9. «Tu, se pur cerchi al viver tuo sostegno»: dimostra l'error suo a l'amico, il qual troppo si fidava d'Amore, dicendo che più si doveva fondar ne la ragione, che poteva liberarlo di questa passione amorosa.

CXIII

Si duole che la sua Donna faccia maggiore stima de la fede d'un cane che de la propria.

È vostra colpa, Donna, o mia sventura,
Che nel fido animale a me soggetto
La fede amiate, e nel fedel mio petto
4L'habbiate a sdegno, ov'è sì bella e pura?
Et io l'ho per ragione, ei per natura.
Pur egli v'è sì caro, io sì negletto;
Egli nutrito di pietoso affetto,
8Di pascer le mie voglie alcun non cura.
Ma s'a la fede mia cotanto noce
Quel suo lume immortale, onde s'informa
11Ben ch'egli sia del Ciel sì nobil dono,
Deh potess'io di can prender la forma,
E lusingando homai con altra voce
14Chieder pietà, di cui sì degno sono.

  • 1a. «È vostra colpa»: dubita se l'imperfettione de l'amore sia colpa de la sua Donna o sua sventura.
  • 2a. «Che nel fido animale»: nel cane, il quale appresso gli Egittij era simbolo de la fede, come dice GIULIO CAMILLO in que' versi: «Il verde Egitto per la negra arena, | Ma più per quei, che d'adornar d'ingegno | Finse de l'amicitia dolce segno, | La nostra forma d'ogni fede piena».
  • 3b. «e nel fedel mio petto»: dove per la sua nobiltà devrebbe essere amata.
  • 5. «Et io l'ho per ragione, ei per natura»: dice d'haver la fede per ragione, perchè non parla de la fede, inquanto è una de le virtù teologiche, e se di ciò parlasse, egli havrebbe detto di haverla per gratia di Dio, imperochè «Fides est donum dei». Ma ragiona de la fede morale, o civile, la quale è fondamento de la giustitia. Laonde è convenevole ch'ella sia un habito elettivo come gli altri. Ma l'eleggere è operatione de la ragione.
  • 5b. «ei per natura»: perchè ne gli animali irragionevoli è uno istinto di natura, come dice PLUTARCO, molto simile a la virtù.
  • 10b. «Quel suo lume immortale»: cioè la ragione, la qual è forma di tutte le virtù. E ciò disse ad imitatione del PETRARCA, il qual prima havea detto: «Et è spento ogni benigno lume | del Ciel, per cui s'informa humana vita». Nè molta è la diversità del sentimento.

CXIV

Assomiglia il Poeta gli occhi infermi de la sua Donna a le stelle coperte da' nuvoli e da' vapori, e prega Amore che scacciando il male gli faccia sereni.

I chiari lumi, onde 'l divino Amore
In due zaffiri se medesmo accende,
Simili a quel che 'n cielo adorni ei rende,
4Hor nube copre di sanguigno humore.
Nube vaga e crudel, crudele ardore
Sì come è l'altro, onde purpureo splende
Alcun pianeta e 'n oriente ascende
8Che sparso è di rosato aureo colore.
Ma pur chi tinge il rugiadoso velo
De le terrene stelle, e 'l novo aspetto
11Che ci annuncia di mesto, e d'infelice?
Deh, se le gira Amor come suo cielo,
Ei le sereni, e queti il nostro petto
14La bella luce angelica e beatrice.

  • 1a. «I chiari lumi»: gli occhi simili al zaffiro e del color del cielo, e per questa cagione vaghissimi a risguardare. «Zaffiri» furono ancora chiamati dal PETRARCA per la similitudine del colore, e «smeraldi», per la medesima, gli chiamò DANTE.
  • 5a. «Nube vaga»: assomiglia il rossor de gl'occhi a le nubi vermiglie che si veggono la mattina ne l'oriente.
  • 13a. «Deh, se le gira Amor»: affettuosamente desidera ch'Amor le risani e le ritorni ne la sua prima bellezza.

CXV

Paragona la bellezza de la sua Donna doppo la malatia, a gli alberi già rivestiti di fronde, a le faci riaccese et al serenarsi del cielo.

Non è sì bello il rinverdirsi un faggio
O 'l ravivar di lucida facella,
O 'l serenar di tenebroso cielo,
Come ne gli occhi vostri il dolce raggio
5Par di novo racceso, e come è bella
La rosa che s'infiora al mezo gelo;
E se già piacque la beltà smarrita,
Hor, che farà questa beltà fiorita?

  • 1a. «Non è sì bello»: con tre similitudini descrive la bellezza de la sua Donna doppo la ricuperata sanità. E l'una è più illustre de l'altra, e l'ultima è illustrissima, perchè l'assomiglia al ciel tenebroso, il qual si va serenando. E convenevolmente, perchè sì come le tenebre sono privatione de la luce, così l'infermità è privatione de la sanità, e per conseguente de la bellezza che indi da lei resulta, quasi fior da fronde, o quasi raggio da luce. Ma dimostra che la bellezza de la sua Donna era così grande, che per infermità non era in tutto perduta, quantunque si fosse alquanto smarrita.
  • 6a. «La rosa che s'infiora»: cioè il color de le guance, il qual torna a mostrarsi ne le guancie candidissime, e poco prima essagui e fredde per l'infermità.
  • 7. «e se già piacque la beltà smarrita»: argomento dal meno al più; ma non appare la forma de l'argomento, perchè si fa con l'interrogatione.

CXVI

Nel medesimo soggetto. Loda maravigliosamente la bellezza de la sua Donna.

Languidetta beltà vinceva Amore,
Bench'egli sì possente e forte sia;
E se tanto potea mentre languia,
Quanto hor potrà, ch'acquista il suo vigore?
5O pudica beltà, ch'invitta sei,
E vincitrice ancor d'huomini e Dei,
Un tuo breve languir Natura appaga,
Per che dopo il languir ti fa più vaga.

  • 1a. «Languidetta beltà»: mirabil forza de la bellezza che possa vincere Amore ne la sua languidezza.
  • 2a. «Bench'egli sì possente»: accresce le lodi de la bellezza vincitrice, accrescendo quelle d'Amore, ch'è il vinto. Luogo usato per lodare la virtù de' vincitori prima da HOMERO che da alcun altro, il quale assi spesso lodò i Troiani perch'erano stati vinti da' Greci, e particolarmente Hettore, accioche la virtù d'Achille, da cui agevolmente era superato, apparisse maravigliosa a ciascuno.
  • 3a. «E se tanto poeta»: argomento dal meno al più, fatto similmente con l'interrogatione.
  • 5. «O pudica beltà, ch'invitta sei»: a differenza de l'impudica, la quale è vinta da Amore, chiama la bellezza «pudica invitta».
  • 6a. «E vincitrice»: ma accrescendo, perchè gran loda è il non esser vinto, grandissima il vincere coloro che de gli altri son vittoriosi.
  • 7a. «Un tuo breve languir»: perchè l'infermità sono naturali, e s'elle son brevi, non diminuiscono la bellezza.
  • 8a. «Per che dopo il languir»: affetto del Poeta.

CXVII

Invita in questa artificiosa corona de' Madriali tutte le Ninfe a cononar la sua Donna.

Vaghe Ninfe del Po, Ninfe sorelle,
E voi de' boschi, e voi d'onda marina,
E voi de' fonti e de l'alpestri cime,
Tessiam hor care ghirlandette e belle
5A questa giovinetta peregrina,
Voi di fronde e di fiori, et io di rime.
E mentre io sua beltà lodo et honoro,
Cingete a Laura voi le treccie d'oro.
Cingete a Laura voi le treccie d'oro,
10De l'arboscello, onde s'ha preso il nome.
O pur de' fiori, a' quali il pregio ha tolto,
E le vermiglie rose, e 'l verde alloro
Le faccian ombra a l'odorate chiome,
Et a le rose del fiorito volto.
15E de l'auro e del lauro e de' be' fiori
Sparga l'aura ne l'aria i dolci odori.
Sparga l'aura ne l'aria i dolci odori,
Mentr'io spargo nel cielo i dolci accenti,
E gli porti ove Laura udir gli suole,
20E dove Mincio versa i freschi humori
Portino ancora i più cortesi venti
Il chiaro suon de l'alte mie parole,
Dove cantaro già, quand'ella nacque,
I bianchi cigni in fresche lucid'acque.
25I bianchi cigni in fresche lucid'acque
Morendo, fanno men soave canto
Di quel ch'udì quando costei nascea.
E 'l bel terren, dov'ella in cuna giacque,
Tutto vestissi di fiorito manto,
30E di cristallo il fiume allhor parea,
E pretiose gemme i duri sassi
Sotto gli ancor tremanti e dubbi passi.
Sotto gli ancor tremanti e dubbi passi,
Nascer facea la bella fanciulletta
35Di mille vari fior lieta famiglia.
E se premeva un cespo, o i membri lassi
Posava in grembo de la molle herbetta,
Era a vederla nova meraviglia.
Qual fosse poi, tu dillo o fiume vago,
40Tu dillo altrui, famoso e chiaro lago.
Tu dillo altrui, famoso e chiaro lago,
Come dapoi crescendo il biondo crine
Laura in te si specchiasse, e gli occhi e 'l viso,
E come nel mirar la cara imago
45E le bellezze sue quasi divine
Rassomigliasse il giovine Narciso.
Ditelo augelli, e voi da le bianche ali,
Voi che le sete sol nel canto eguali.
Voi che le sete sol nel canto eguali,
50Già tacevate, o cigni, in verdi sponde
Cantando Laura di dolcezza piena.
Et eran tante le sue voci e tali,
Che parean mormorando dir quell'onde:
- È per fermo costei nova Sirena. -
55Oltre i candidi cigni, onde beate,
Son più belle Sirene in voi già nate.
Son più belle Sirene in voi già nate
Acque e rive felici, ove securo
Il buon Titiro già pascea la greggia.
60Nè per dolce armonia così lodate
O Amarilli o Galatea già furo,
Com'è costei, che quel cantar pareggia,
Di cui tra i boschi, e 'n picciola capanna,
Indegno è 'l suon de l'incerata canna.
65Indegno è 'l suon de l'incerata canna,
D'accordarsi al bel canto, e se l'udiro
Il rozo armento e i semplici bifolci,
Per maraviglia ciò, che l'alme affanna
Obliar questi, e quello ogni desiro
70De l'herbe verdi, o pur de l'acque dolci;
E di seguir il natural costume
Quasi scordossi per vaghezza il fiume.
Quasi scordossi per vaghezza il fiume
Di rendere al gran Po l'usato homaggio,
75Da cui tenuta in sì gran pregio è Laura,
Ch'altra Ninfa agguagliarle ei non presume.
Se l'ode sotto un lauro o sotto un faggio
Con dolcissimi accenti addolcir l'aura,
O se guidar le vede i cari balli
80Sovra i candidi fiori, e sovra i gialli.
Sovra i candidi fiori, e sovra i gialli
Suole spesso ballar Laura gentile,
Con leggiadri sembianti al dolce suono.
Degna, a cui bianche perle e bei coralli
85Del nostro mare e del novello aprile
Le sia portato il primo, e 'l più bel dono,
Degna, a cui ne' vicini alteri monti
Apra l'antica Madre i novi fonti.
Apra l'antica Madre i novi fonti
90Al bel viso di Laura, et a lei mande
Verdi fronde la selva in queste piagge.
E 'nghirlandate homai le belle fronti,
Portin le Ninfe homai varie ghirlande,
E l'humide, e l'alpestri, e le selvagge.
95E voi siate le prime, e le più snelle,
Vaghe Ninfe del Po, Ninfe sorelle.

  • 1. «Vaghe Ninfe del Po, Ninfe sorelle»: «Ninfe» dette furono da gli Antichi, quasi Linfe, ch'è nome de l'acque, ma il nome si stende ancora a l'altre.
  • 2a. «E voi de' boschi»: pur chiamate Driade et Amadriade, che nascevano e morivano insieme con gli alberi.
  • 2b. «e voi d'onda marina»: che sono comprese sotto questo nome universale.
  • 3. «E voi de' fonti e de l'alpestri cime»: Naiade son propriamente quelle de fonti, Oreadi quelle de' monti, come dice SERVIO appresso VERGILIO nell'ultima Egloga. Ma sotto il nome di Ninfe s'intendono ancora le Muse, come afferma il medesimo autore nel medesimo luogo. Ma il Poeta per aventura dee intendere le fanciulle ch'abitavano in que' paesi appresso al fiume et vicino al mare e vicine a le montagne et a le fontane.
  • 4. «Tessiam hor care ghirlandette e belle»: le ghirlande e le corone sono prese per la celebratione non solo da' greci poeti, ma da nostri.
  • 9a. «Cingete a Laura»: due corone attribuisce a la sua Laura, una di lauro, o per la conformità del nome o per la virtù de la poesia, l'altra di fiori, havendo forse risguardo a' conviti ne quali i convitati si coronavano di fiori.
  • 15a-16. «E de l'auro e del lauro […] | Sparga l'aura ne l'aria» figura detta da' Latini allitteratione, che si fa con la mutatione d'alcuna lettera.
  • 17a. «Sparga l'aura»: è detto con affetto d'huom che desideri.
  • 18. «Mentr'io spargo nel cielo i dolci accenti»: gli sparge forse ne l'aria perchè la loda in vano, ad imitatione di que' versi di VIRGILIO: «Atque, ibi haec incondita solus | Montibus et sylvis studio iactabat inani».
  • 19. «E gli porti ove Laura udir gli suole»: ch'i venti portino le parole, fu parimenti pensier di VERGILIO in quel verso: «Vos etiam divum partem referatis ad aures».
  • 25a. «I bianchi cigni», è proprio de' cigni cantare soavissimamente avanti la morte, come si legge nel Fedone, non per alcun dolore, ma perchè essendo sacrati a Febo, partecipano de la divinatione e de la virtù del presagio. Laonde si rallegrano, sapendo prima i beni de l'altra vita. Ma il Poeta attribuisce questo presagio a' cigni per la felicità che si aspettava del nascimento di Laura, et pare imitatione di quell'epigramma greco fatto nel nascimento di Vergilio e trasportato in questa lingua dal sig[nor] Angelo COSTANZO. E basta per intendimento quel verso: «Essendo nato tra 'l soave canto | De' bianchi Cigni».
  • 33. «Sotto gli ancor tremanti e dubbi passi»: imita il PETRARCA ne la fanciullezza di Laura da lui descritta: «Et hor carpone, hor con tremante passo | Legno, acqua, terra o sasso | Verde facea, chiara, soave, e l'herba | Con le piante e co' piè fresca e superba».
  • 35. «Di mille vari fior lieta famiglia»: «E i fiori e l'herbe, sua dolce famiglia» disse parimente il PETRARCA ragionando de la primavera.
  • 39a. «Qual fosse»: invita poeticamente il fiume e 'l lago a celebrare il nascimento de la sua Donna, in quel modo che VIRGILIO haveva fatta pianger la morte di Gallo da gli alberi e da' mirti, in que' versi: «Illum etiam lauri, illum flevere Mirycae | Pinifer illum etiam sola sub rupe iacentem | Menalus, et gelidi fleverunt saxa Lycei». L'imitatione è dal luogo del continuo, o de gli opposti, perchè se le cose inanimate maravigliosamente s'introducono a pianger la morte, con l'istesso artificio si possono introdurre a cantare il nascimento.
  • 41a. «Tu dillo altrui»: ha descritte le maraviglie del nascimento e de l'infantia, hor descrive le bellezze de la gioventù.
  • 43a. «Laura in te si specchiasse»: molto più commodamente si può specchiare nel lago che nel mare, nel quale si specchia il Coridone di VERGILIO: «Nec sum adeo informis: nuper me in littore vidi, | Dum ventis immotum staret mare».
  • 46. «Rassomigliasse il giovane Narciso»: descrive il compiacimento di se stessa. Ultimamente converte il parlare a' cigni a' quali la paragona nel canto, e tocca per aventura una opinione di PORFIRIO nel libro de l'astinenza de gl'animali, cioè che tutti gli animali irragionevoli habbiano qualche parte di ragione, e tutti parlino, ma noi non intendiamo le parole. Ma fra gli Antichi, Melampo e Tiresia furon creduti ch'intendessero il parlar de' bruti, et molto da poi APOLLONIO TIANEO disse in una compagnia havere inteso il parlar de la rondine, la quale annuntiava a l'altre ch'era cascato un asino pieno di frumento. Ma la falsa opinione è più espressamente accennata ne l'Aminta, favola pastorale del Poeta: falsa la dico, perchè gli huomini solamento hanno congiunte queste due cose, cioè la ragione e il parlare, le quali furono da' Greci chiamate con un nome solamente il quale è Logos. Ma i poeti con queste cose impossibili cercano molte fiate di muover gli uditori a maraviglia.
  • 49a. «Voi che le sete sol»: tacevano i cigni nel cantare di Laura per maraviglia e per honore. E forse per li cigni intende allegoricamente i poeti mantovani.
  • 52-53. «Et eran tutte le sue voci e tali, | Che parean mormorando dir quell'onde»: accenna una opinione d'antichi filosofi, che la natura parli con la voce di tutte le cose.
  • 55a. «Oltre i candidi cigni» l'ha paragonata co' cigni e la paragona con le Sirene e la chiama la più bella de le Sirene, havendo risguardo non solo a la bellezza del corpo humano, ma de l'animo.
  • 58a. «Acque, e rive felici»: intende quelle di Mantova, dove il buon VERGILIO, inteso sotto il nome di Titiro, cantò d'Amarilli e di Galatea, Ninfe ch'allegoricamente sono prese per Roma e per Mantova, come dicono gli espositori de la prima Egloga.
  • 62a. «Come è costei»: assomiglia il canto di Laura a quel di VERGILIO.
  • 65a. «Indegno è 'l suon»: mostra che la siringa, instrumento pastorale, sia indegno de la S[ua] D[onna], la qual merita d'esser celebrata da più degno canto.
  • 69b-70. «e quelli ogni desiro | De l'herbe verdi, o pur de l'acque dolci»: imita quel luogo: «Immemor herbarum quos est nitatur iuvenca».
  • 71. «E di seguir il natural costume»: accresce la maraviglia simile a quella: «E sai come al suo canto | Correano in verso al fonte | l'acque nel fiume» perch'è simil maraviglia che l'acque si fermi e che vada per contrario corso al naturale. VERGILIO disse similmente: «Et mutata suos requierunt flumina cursus».
  • 73a. «Quasi scordossi»: descrive la bellezza di Laura ne la dolcezza del canto e ne la leggiadria usata nel ballare.
  • 77a. «Se l'ode sotto un lauro»: o pone questi due per ogni arbore, o pur imita il PETRARCA, il qual disse: «E seder femmi in una fresca riva, | La qual ombrava un bel Lauro, et un Faggio», che significano, come pare a GIULIO CAMILLO, l'eloquenza e la sapienza. E disse «faggio» nel numero del maschio, ma in quello de la femina il BEMBO: «Faggio del mio piacer compagna eterna», ad imitatione de' Latini.
  • [81-88] . Mostra la nobiltà di Laura, la qual dee esser honorata co' doni de la terra e del mare, e fra' doni del mare scieglie cose vaghissime e conformi a la sua bellezza, come son perle e corali, e fra quelli de la terra similmente.
  • 89a. «Apra l'antica Madre»: cioè la terra, così chiamata da tutti, perch'il nostro principio e da terra.
  • 89b. «i novi fonti»: fa quella figura che si dice contraposto, e particolarmente ha risguardo a' novi fonti che si facevano su 'l modenese: ripiglia il parlar de le Ninfe, come haveva fatto nel primo madriale, e finisce la corona.

CXVIII

Loda la bellezza di Laura assomigliandola a le piante che stillano lacrime et odori.

Non è d'Arabia peregrina pianta
Questa, c'ha dolce odore,
Perchè 'n lacrime stilli il suo dolore,
Nè 'l ventre hebbe giamai gravoso e pieno,
5Ma sovra lucide acque
Nata è di Manto nel felice seno;
Ma tal, com'ella nacque,
Che tutti l'honorar, s'a tutti piacque,
Immortal qui l'honore
10Serba sì come verde il suo colore.
Caro pregio del Cielo e di Natura
Che non hai paragone,
Tua gratia a te mi scorga e mia ventura,
Ove lampeggi e tuone;
15Perchè de le tue fronde io m'incorone,
Che di Giove il furore
Mai non offenda, o l'aureo stral d'Amore.

  • 1a. «Non è d'Arabia»: de la Felice, dove nascono gli odori. Perchè tre son l'Arabie: la Felice, la Deserta e la Petrea, ma ne la Fenice nascono la cassia, il cinamomo, la mirra et altre piante odorifere.
  • 2. «Questa, ch'ha dolce odore»: ad imitatione del PETRARCA: «Quel che d'odore e di color vincea | L'odorifero e lucido Oriente».
  • 3. «Perchè'n lagrime stilli il suo dolore»: benché pianga. Paragonandola in questo atto con gli alberi già detti.
  • 4. «Nè 'l ventre hebbe giamai gravoso e pieno»: è vergine, e però dissimile a Mirra, convertita ne l'albero di questo nome, la qual, come si legge ne le favole d'OVIDIO, fuggendo l'ira del padre co 'l quale ella giacque per inganno fattogli da la nutrice, si partì gravida d'Adone, ma no 'l partorì prima ch'ella fosse trasformata e ricoperta da la dura corteccia. Ma nel parto meritò l'aiuto di Venere.
  • 5. «Ma sovra lucide acque»: descrive la patria per dimostrar ch'ella non sia straniera.
  • 7. «Ma tal, com'ella nacque»: cioè vergine ancora.
  • 11a. «Caro pregio del Cielo»: ha risguardo a la proprietà del lauro, il quale, com'è scritto, non è percosso dal fulmine. Laonde Augusto, come scrive SVETONIO ne la sua vita, per timor de' fulmini, solea coronarsi di lauro.

CXIX

Paragona il canto di Laura a' dolcissimi suoni fatti naturalmente e dimostra gli effetti de la sua meravigliosa armonia.

Non fonte, fiume od aura
Odo in più dolce suon di quel di Laura.
Nè 'n lauro, o 'n pino o mirto,
Mormorar s'udì mai più dolce spirto.
5O felice a cui spira,
E quel beato che per lei sospira.
Chè se gli inspira il core,
Pote al Ciel aspirar co 'l suo valore.

  • 1. «Non fonte, fiume od aura»: sono questi quattro versi fatti ad imitazione de' primi di TEOCRITO, che si leggono nel suo Tirsi, e son questi: «Ἀδύ τι τὸπoς ὑθύρισμα, καὶ ἀ πίτις, αἰπόλε πα | ἂ ποτί ταἷς παγαἷσι, μελίσδεται ἀδὺ δε καὶ τὺ συρισδες·».

CXX

Invita Amore a la meravigliosa coltura del suo lauro.

Sian vomeri il mio stile e l'aureo strale,
Amore, al bel terren del novo alloro;
Aura, quel dolce ventilar de l'ale
Che tu scotendo vai purpuree, e d'oro;
Acqua il mio pianto, che sì largo inonda
La coltura mirabile, e 'l lavoro;
E se non l'erge al Ciel da questa sponda,
Le sia terra il mio core, e tu 'l feconda.

  • 1-2. «Sian vomeri il mio stile, e l'aureo strale, | Amore, al bel terren del novo alloro»: è detto ad imitatione del PETRARCA, il qual disse: «Vomer di penna, con sospir del fianco | Fecero sì, ch'al ciel n'andò l'odore». Ma il Petrarca il coltiva con un «vomero» solo, cioè con la penna ch'è instrumento de la poesia, il TASSO con lo stile e con lo strale, con la poesia, dico, e con l'amore.
  • 3a. «Aura, quel dolce ventilar»: segue la descrittione dela maravigliosa coltura.

CXXI

Questo sonetto con l'altro accompagnano un libro de' madrigali dedicato a la S[ignora] Laura.

In queste dolci et amorose rime,
Laura, vedrete il vostro lauro impresso,
Più caro de la palma e del cipresso,
4E d'ogn'altro, ch'al Cielo alzò le cime.
E non è pianta che si pregi e stime,
Tanto in Parnaso o lungo il bel Permesso,
Ne su le rive del suo fiume istesso,
8Tanto ei piacea ne le sembianze prime.
E verdeggia di lui selva sì bella
Che m'invaghisce, e choro amico e lieto
11In compagnia d'Amor vi canta a l'ombra
Che fa d'un ramo la maggior facella;
E 'l vago et odorifero laureto
14Io vi consacro, che 'l mio core ingombra.

  • 1. «In queste dolci, et amorose rime»: «dolci» per la qualità de versi e per l'arte usata dal Poeta; «amorose» le chiama per la materia d'amore, de la qual si tratta.
  • 2. «Laura, vedrete il vostro lauro impresso» cioè il vostro nome, o voi medesma, ch'allegoricamente sete significata nel lauro.
  • 3a. «Più caro de la palma»: il prepone a due alberi famosissimi, ma l'uno simbolo de la vittoria, l'altro de la morte, quasi volendo accennare che senza lei, l'una gli sarebbe poco men dura de l'altra.
  • 5a. «E non è pianta»: ha risguardo a l'eccellenza di questo lauro.
  • 7a. «Ne su le rive»: accenna la tavola de la sua trasformatione.
  • 9. «E verdeggia di lui selva sì bella»: è preso dal PETRARCA: «solo da un lauro tal selva verdeggia».
  • 10b. «e choro amico e lieto»: è simile a que' versi del medesimo poeta: «Ma Ninfe e Muse, a quel tenor cantando».
  • 12. «Che la d'un ramo la maggior facella»: accenna la proprietà del lauro, di cui appresso ragioneremo.
  • 13. «E 'l vago et odorifero laureto»: chiama «laureto» la poesia amorosa, o i pensieri amorosi che germogliando a guisa d'alberi il muovono a poetare.

CXXII

Ne l'infermità di Laura descrive l'affettuoso pianto che l'impetrò la salute.

Secco era quasi l'odorato alloro
Da cui già trasse Amor tante faville,
E si spargeano i prieghi a mille a mille,
4E mille occhi piangeano, e i miei con loro.
Ma scolorir vedendo il suo tesoro,
Due luci si turbar così tranquille,
E versar così pure e vaghe stille
8Che fur più belle de la pioggia d'oro.
O dolce pioggia d'amoroso pianto,
Cristalli e perle da' celesti lumi
11Lascivo Amor non vi spargea, ma santo.
Così rinverde fra rugiade e fiumi
Il vivo lauro, e stanno a l'ombra intanto
14Valor, senno, bellezza, alti costumi.

  • 1. «Secco era quasi l'odorato alloro»: perchè l'infermità è cagionata da qualche intemperie, e suole esser cagione di siccità, perchè ei prima perde la vita, la qual consiste nel caldo e ne l'humido.
  • 2. «Da cui già trasse Amor tante faville»: tante fiamme amorose.
  • 3a. «E si spargeano i prieghi»: come suole avenire ne l'infermità che sono di persone amate da molte et havute in pregio, paragona questo pianto, ch'egli chiama [9-10]«pioggia di lacrime e di perle e di cristalli», a la pioggia d'oro tanto celebrata da' poeti.
  • 11a. «lascivo amor»: a differenza di quella d'oro, perchè Giove si converti in cosi fatta pioggia mosso da lascivo Amore, come dimostra la favola di Danae, descritta da TERENZIO ne l'Eunuco, de la quale fa mentione ancora s[ant'] AGOSTINO nel libro De civitate Dei.
  • 12a. «Così rinverde»: metaforicamente intende la sua Donna.

CXXIII

Descrive la bellezza di due leggiadre donzelle, il cantare a vicenda e poi insieme.

Io mi sedea tutto soletto un giorno,
Sotto gli ombrosi crini
Di palme, abeti e pini,
E così ascoso udia
5Lauretta insieme e Lia,
Nel solitario horrore.
Due vaghe ninfe, appresso un chiaro fonte,
Tra l'herbe fresche e i lucidi ruscelli,
Ambe a cantare, et a risponder pronte,
10Come di Primavera i vaghi augelli,
Ambe vidi con lunghi aurei capelli,
Ambe soavi il riso,
Bianche e vermiglie il viso,
Ambe nude le braccia;
15Nè so qual più mi piaccia,
Chè par ciascuna un fiore.
L'una diceva a l'altra: - Amor possente
È più di fera in selva e più del foco,
Più che nel verno rapido torrente.
20Amor si prende il mio languire in gioco,
Ond'io cerco temprarlo a poco a poco,
Ch'arder già non vorrei
Con tutti i pensier miei,
Ma sol scaldarmi alquanto;
25Nè tempra amaro pianto
Il mio sì lungo ardore. –
E l'altra gli rispose: - Amor soave
E più, ch'aura non suol di fronda in fronda,
Quando non spinge al porto armata nave,
30Ma sol fa tremolare i giunchi e l'onda;
E via più dolce d'ogni humor, ch'asconda
O stilli o foglia o canna,
Più di mel, più di manna.
E sol di lui mi doglio,
35Ch'arde men, ch'io non voglio,
In poca fiamma il core. -
E poi diceano insieme: - O sia co 'l freno,
O sia con legge o senza, Amor felice
Sol può far Donna che l'accoglia in seno,
40E s'ella il fa palese, e se no 'l dice.
E sì come ogni fior da sua radice,
E di fontana il rio,
Di bellezza il desio,
La dolcissima voglia
45Si deriva e germoglia:
Dunque viva l'amore. -

  • 1a. «Io mi sedea»: descrive il suo otio, e 'l luogo eletto al suo riposo.
  • 2. «Sotto gli ombrosi crini»: per metafora intende le fronde, come si intende in quel verso: «Spiegò chioma d'April tenero bosco».
  • 5. «Lauretta insieme e Lia»: allegoricamente sono prese per la poesia, la quale è la medesima con la filosofia, e per l'attione, cioè per la vita contemplativa e per l'attiva.
  • 9. «Ambe a cantare, et a risponder pronte» e imitatione di quel luogo di VERGILIO: «Arcades ambo | Et cantare pares, et respondere parate». E ciò dice peraventura, perchè la poesia par diletto comune, e quasi comune studio de la vita speculativa e di quella ch'è posta ne l'attione.
  • 17a. «L'una»: cioè Lauretta, desidera che l'amore sia temperato perchè'l soverchio affetto par che impedisca la contemplatione.
  • 27a. «l'altra»: loda la dolcezza d'Amore, forse perchè la vita attiva è più affettuosa de la contemplativa.
  • 37. «E poi diceano insieme» s'accordano ultimamente nel lodar l'amore, il quale è desiderio di bellezza, a differenza de l'altro che non ha obietto. La ballata è fatta ad imitatione d'una di Guido CAVALCANTE, antico poeta toscano, per la sua forma humile e dimessa molto, atta nondimeno a ricevere ogni dolcezza, ogni soavità et ogni gratia de la poesia amorosa.

CXXIV

Loda un lavoro fatto da la sua Donna, assomigliandolo ad un cielo stellato.

O bella man, che nel felice giorno,
Fra pretiose gemme e dolci odori,
Il serico trapunto e i nostri cori
4Passavi insieme, e saettavi intorno,
Quando pria rimirai nel seno adorno
Le variate forme e i bei colori:
- È prato (dissi) d'odorati fiori
8Questo, ch'a gli altri fa vergogna e scorno? -
Pur mi raccolsi, e nel leggiadro velo
Io riconobbi la mirabil arte,
11E d'angelica man l'opra ingegnosa,
Simile a quella che figura in Cielo
Tante imagini vaghe, e ben comparte
14Le chiare stelle ne la notte ombrosa.

  • 1. «O bella man, che nel felice giorno»: «felice» il chiama, per la vista de la sua Donna.
  • 2. «Fra pretiose gemme e dolci odori»: intende quelle gemme che portava ne le dita, e de gli odori del coscino profumato, e forse de le gioie ch'erano nel ricamo stesso.
  • 3a. «Il serico trapunto»: così chiamò il PETRARCA: «D'un bello aurato, e serico trapunto».
  • 6a. «Le variate forme»: cioè fatte variamente, per dimostrar l'eccellenza de l'arte, ne la quale dee mostrarsi gran varietà.
  • 7a. «È prato, dissi»: il ricamo era a tronchi, a foglie et a fiori. Però il Poeta mostra di dubitar se fossero fiori naturali.
  • 9a. «Pur mi raccolsi»: cioè doppo il dubbio e doppo lo stupore.
  • 10. «Io riconobbi la mirabil arte»: loda l'arte e l'opera, assomigliandola per l'eccellenza ad un cielo sparso di stelle. Perchè le stelle ancora furono chiamate «fiori del cielo».

CXXV

Parla con Amore e gli domanda perchè sempre accresca le sue amorose passioni.

Perchè tormenti il tormentoso petto
E pur trafiggi il mio trafitto core?
Perchè le pene con le pene, Amore,
4E 'l dolor cresci co 'l dolente affetto?
Perchè giungendo vai, con tuo diletto,
Piaghe a le piaghe, et a l'ardore ardore?
Perchè raddoppi i colpi e 'l tuo furore
8Ch'io per morir con men vergogna aspetto?
Non esser di pietà, Fanciul, sì parco,
Chè non ho loco da ferite nove,
11E 'ndegna è d'huom già vinto altra vittoria.
Te seguitiamo, e siam tua preda. Altrove
Spendi homai le saette e tendi l'arco:
14Chè 'l salvar l'innocente, è vera gloria.

  • 1. «Perchè tormenti il tormentoso petto»: «tormentoso» per «tormentato» dissero i Poeti, et «faticoso» per «affaticato», come il PETRARCA: «Co 'l tormentoso fianco».
  • 2. «E pur trafiggi il mio trafitto core?»: il cuore, già trafitto d'Amore, trafiggea di nuovo con le saette del desiderio.
  • 3a. «perchè le pene»: l'altre dimande tutte sono somigliante, e fatte ne l'istesso subietto.
  • 9. «Non esser di pietà, Fanciul, sì parco»: perchè i vecchi e i fanciuli sogliono essere compassionevoli, come dice ARISTOTELE nel secondo de la sua Retorica.
  • 10. «Chè non ho loco da ferite nove»: verso levato di peso da le Rime del BEMBO, il qual costume prese il Poeta da VERGILIO, che spesso si serviva de' versi de' poeti più antichi.
  • 11a. «E 'ndegna»: perchè a' vinti mancano gl'animi e le forze, non sogliono riportar lode coloro che gli superano di nuovo.
  • 12a. «Te seguitiamo»: confessa d'esser domato e soggetto, laonde ha risguardo a quel verso: «Parcere subiectis et debellare superbos».

CXXVI

Parla de le nozze di Laura metaforicamente.

Questa pianta odorata e verginella,
Che secura dal fulmine e dal gelo
Cresce sì cara al Mondo, e cara al Cielo,
Quanto divien maggior, tanto è più bella;
E giovanetta mano hor di lei coglie
I novi frutti, e le novelle foglie.
O fortunata man cui tanto lice;
E chi vi canta a l'ombra ancor felice.

  • 1a. «Questa pianta»: è descrittione del lauro, che non perde mai foglia e, come scrivono, è sicura dal fulmine.
  • 3a. «al Mondo»: per le corone, le quali si fanno de gli Imperatori.
  • 3b. «al Cielo»: perch'è privilegiata dal fulmine. Ma allegoricamente intende Laura, la qual cresceva co 'l favor degli huomini e del cielo.
  • 4. «Quanto divien maggior, tanto è più bella»: la bellezza, come dice ARISTOTELE, è solamente ne' corpi grandi, perchè i piccioli sono leggiadri.
  • 5a. «giovanetta mano»: de lo sposo, ch'era giovine.
  • 6a. «I novi frutti»: d'Amore.
  • 7a. «O fortunata man»: ne l'esclamatione dimostra l'affetto.

CXXVII

De le nozze di Laura parla ne l'istesso modo.

De l'arboscel, c'ha si famoso nome,
Hor s'ha fatta Himeneo la santa face,
E de le verdi fronde orna le chiome
Amor, con tuo dolore e con tua pace.
5E tu, che spesso gli volavi intorno,
Come al suo cibo suole augel rapace,
A la bell'ombra più non fai soggiorno,
Pur con tua pace, Amore, e con tuo scorno.

  • 1. «De l'arboscel, ch'ha sì famoso nome»: perch'è celebrato da' poeti toscani e dal PETRARCA principalmente.
  • 2. «Hor s'ha fatta Himeneo la santa face»: perchè Himeneo si dipinge con la face.
  • 3. «E de le verdi frondi orna le chiome»: CATULLO corona Himeneo d'amaranto in que' versi: «Cinge tempora floribus | Inavedentis amaraci». Ma TEOCRITO gli dà la corona di iacinto ne l'Epitalamio d'Elena, in que' versi: «Εν ποκ᾿ἄρα Σπάρτα, ξανθότριχι παρ Μενελάω | Παρθενικαὶ θάλλοντα κόμαις ὑάκινθον ἒχοισαι | Πρόσθε νεογπῶ θαλάμω χορὸν ἐσασαντο». Il traduttore intese di lauro, perchè il lauro, per mio giudicio, descrisse in que' versi: «Ad veteres clarum quondam Lacedemonis arces | Constitit igniferis Hymenaeus tempora ramis | E victas». Nè so ch'il giacinto habbia questa proprietà, come appresso dichiarerò, ma il lauro.

CXXVIII

Ragiona con l'Aure e con l'Hore affettuosamente

Hore fermate il volo
Nel lucido oriente,
Mentre se 'n vola il ciel rapidamente.
E carolando intorno
5A l'alba mattutina
Ch'esce da la marina,
L'humana vita ritardate e 'l giorno.
E voi, Aure veloci,
Portate i miei sospiri
10Là dove l'aura spiri.
E riportate a me sue chiare voci,
Sì che l'ascolti io solo,
Sol voi presenti, e 'l Signor nostro Amore,
Aure soavi et hore.

  • 1. «Hore fermate il volo»: perchè per la velocità loro fu detto che volassero intorno al carro del Sole da OVIDIO e da altri poeti.
  • 4. «E carolando intorno»: «carole» sono i balli, così forse chiamati da la voce latina chorea, perchè il movimento del sole con l'altre stelle fu da PLATONE nel Timeo chiamata chorea, ma essendo presa la metafora da cosa vaghissima, acconcia a questa maniera di componimenti.
  • 8a. «E voi aure»: ha parlato con l'Hore; hora volge il parlare a l'Aure, perchè l'Aure e l'Hore sono somiglianti ne la velocità.

CXXIX

Descrive l'apparire de l'Aurora e de la sua Donna.

Ecco mormorar l'onde,
E tremolar le fronde
A l'aura mattutina, e gli arboscelli.
E sovra i verdi rami i vaghi augelli
5Cantar soavemente,
E rider l'oriente.
Ecco già l'Alba appare,
E si specchia nel mare,
E rasserena il cielo
10E le campagne imperla il dolce gelo,
E gli alti monti indora.
O bella e vaga Aurora,
L'aura è tua messaggiera, e tu de l'aura
Ch'ogn'arso cor ristaura.

  • 12-13a. «O bella e vaga Aurora, | L'aura è tua messaggiera»: imitatione di DANTE, il qual disse: «E l'aura annunciatrice de gli allori». Ma il Poeta, chiamando l'Aurora «messaggiera» de la sua Donna, ha risguardo non solo al tempo del levarsi, ma a la bellezza de la sua Donna. Et in queste maniere di poesia, il lettore avvertisca quanto sia bene osservato che DEMETRIO FALEREO disse de' poemi di SAFFO, ch'essi fussino ripieni de gli horti, de le Ninfe, de gli amori, de gl'himenei, de' fiori e d'altre cose vaghissime, et oltre tutte l'altre convenienti in questa forma del dire fiorita e gratiosa, nela quale dimostrò molta eccel[lenza] il TASSO padre de l'Autore.

CXXX

Dimostra come nel nascimento del sole egli si mova a cercar la sua Donna.

Quando l'Alba si leva e si rimira
Ne lo specchio de l'onde, allhora i' sento
Le verdi fronde mormorar al vento,
4E così nel mio petto il cor sospira.
E l'Aurora mia cerco; e s'ella gira
Ver me le luci, mi può far contento;
E veggio i nodi che fuggir son lento,
8Da cui l'auro hora perde, e men si mira.
Nè innanzi al novo sol, tra fresche brine,
Dimostra in ciel serern chioma sì vaga
11La bella amica di Titon geloso,
Come in candida fronte è il biondo crine,
Ma non pare ella mai schifa nè vaga,
14Per giovenetto amante o vecchio sposo.

  • 1a. «Quando l'Alba si leva»: è simile a quello: «Et gli amanti pungea quella stagione | Che per usanza a lacrimar gli appella».
  • 5a. «E l'Aurora mia cerco»: scherza vagamente su 'l nome de l'Aurora e de la sua donna.
  • 7a. «E veggio i nodi»: le treccie annodate a la testa.
  • 9a. «Nè innanzi al novo sol»: paragona la sua Donna a l'Aurora.
  • 12a. «Ma non pare ella»: dimostra la virtù dela S[ignora] L[aura] et insieme la felicità: la virtù perchè non era accesa di giovane amante, come si dice che l'Aurora fosse innamorata di Cefalo; la felicità perchè non hebbe vecchio marito, come si favoleggia de l'Aurora, a cui fu dato per marito Titone, benchè DANTE la chiami concubina: «La concubina di Titone antico | Già s'imbiancava al balzo d'Oriente».

CXXXI

Assomiglia il suo amore acceso ne gli occhi de la sua Donna al fuoco che s'accende ne lo specchio.

Qual da cristallo lampeggiar si vede
Raggio, ch'accender suole esca repente,
Tal de' begli occhi vostri il lume ardente
4Ch'a me da voi risplenda, a voi se 'n riede.
Specchio son io di beltà no, di fede,
Puro et informe, e sol a voi presente
Fatto sono da voi bello e lucente
8De la vostra beltà, che mia si crede.
E se non ch'assai spesso il duol la fronte
Mi turba, e turba in me la vostra imago,
11N'arderian fiamme più vivaci e pronte.
Ma qualunque io mi sia, turbido o vago,
Son vostro specchio, e lacrimosa fonte.
14O miracol d'Amor, possente mago.

  • 1a. «Qual da cristallo»: convenevolmente assomiglia il Poeta gli occhi a lo specchio, sì per l'humor christallino, il quale è negli occhi, sì perchè gli occhi ritengono la specie, o le forme de le cose, che vogliam dirle, non altrimenti che facciano gli specchi.
  • 3. «tal»: parla de l'amor che s'accende per reflessione, come il fuoco de gli specchi.
  • 5a. «Specchio son io»: perchè m'imprimo de la vostra forma e son bello per questa cagione. Ma intende peraventura de l'animo, perchè l'huomo è l'animo e l'intelletto, come piaceva a' Platonici.
  • 12a. «Ma qualunque io mi sia»: assomiglia se stesso a la fonte, come prima haveva fatto a lo specchio, anzi più tosto dice d'esser già trasformato in ispecchio et in fonte, imitando in ciò ANACREONTE, il quale tra le molte trasmutationi ch'egli desiderava di fare, numera queste due. Ma l'affetto del Poeta è maggiore perch'afferma d'essersi trasmutato in quelle forme ne le quali Anacreonte desidera trasformarsi. I versi d'ANACREONTE son questi: «Εγὼ δ᾿ ἰσοπτρον εἵλω, | οπως ἀει Βλὲτης Με | […] | γδορ θέλω χυέασαι | ωπως».

CXXXII

Risponde con le medesime rime ad un sonetto del S[ignor] G[iovanlorenzo] Malpiglio nel quale dall'amico era stato chiamato Apolline.

Per ch'io l'aura pur segua, e nel mio pianto
Le preghi, mentre fugge altera e presta,
Non sono Apollo con terrena vesta,
4Che Peneo vide, e vide Anfriso e Xanto.
Nè d'entrar nel suo speco ancor mi vanto,
Se 'l futuro predice e manifesta;
Ma, se mai lagrimando Amor si desta,
8Quel ch'ei spira, Malpiglio, io scrivo e canto.
Egli dettava già soavi accenti
Quand'io sul Po tessea verdi ghirlande,
11E nove rime egli formò pur dianzi,
La 've tra gelide acque e sacre ghiande
Pascer forse potrian le pure menti
14Fole più dolci de gl'altrui romanzi.

  • 1a. «Per ch'io l'aura pur segua»: cioè sono a Febo simile ne l'amore, ma non già ne la virtù de la poesia, nè de la profetia, perchè in lui è divinità e ne gl'inspirati da lui furore. Ma nel Poeta l'una è l'arte, l'altra prudenza.
  • 7-8. «Ma, se mai lagrimando Amor si desta, | Quel ch'ei spira, Malpiglio, io scrivo e canto»: dice per giuoco d'esser inspirato d'Amore, benchè non sia da Febo forse perchè Amore è natural possessore de gli animi nostri.

CXXXIII

Dice che per troppo rimirar la bellezza de la sua Donna diventa cieco.

Donna gentil, mentr'io vi miro e canto,
Mi passa un dolce ardore
Di vena in vena, e mi distrugge il core.
E lodando il bel viso, e 'l vago petto,
5E le due nere ciglia,
Dico: - Deh qual diletto
E qual dolcezza è questa, e maraviglia? -
Al fin pieno di gioia e di stupore
Non so s'io veggia, o pur s'io prenda errore.
10Lasso, io m'abbaglio, e si conforta alcuno
Ne' begli occhi soavi,
Tra 'l color bianco e 'l bruno,
Sì come vuol, chi tien del cor le chiavi.
E dimostrando a me luce maggiore,
15Per veder troppo, mi fa cieco Amore.

  • 2-3a. «Mi passa un dolce ardore, | Di vena in vena»: Didone appresso VERGILIO nutrisce la ferita ne le vene, il Poeta sente il fuoco.
  • 6. «Dico: Deh qual diletto»: la maraviglia è de le cose piacevoli, perch'è de le cose nuove.
  • 8. «Alfine»: nasce la maraviglia da l'incertitudine, perchè si maraviglia colui che non intende la cagione. Ma il saper non è altro che il conoscer le cose per le sue cagioni.
  • 10. «Lasso, io m'abbaglio»: gli occhi fanno diversi effetti, secondo la varia disposition di chi risguarda.

CXXXIV

Parla con Amore del suo fuoco uscito da un lauro et intende metaforicamente de l'amoroso desiderio nato da la bellezza di Laura.

- Con qual focil meraviglioso, Amore,
Il mio bel foco hai desto?
E di qual selce tratto il vivo ardore? -
- Nè ferro trasse il tuo vivace foco,
5Nè fuor di pietra ripercosso uscio,
Ma da la scorza d'un bel Lauro è nato. -
-E chi serba la fiamma in freddo loco?
O chi la tempra in guisa, o Signor mio,
Che non avampi l'arboscello amato? -
10- La Natura, non io, per nostro honore:
Suo miracolo è questo.
Io d'esca in vece l'avicino al core. -

  • 1a. «Con qual focil»: perchè da la selce sfavilla il fuoco, al picchiar del focile, accennando forse che la sua Donna sia dura e fredda come una pietra.
  • 5a. «Nè ferro trasse»: la risposta d'Amore, ne la quale egli dice ch'il suo fuoco non è tratto da ferro, cioè che 'l suo amore non è prodotto con molto sforzo de la persona amata.
  • 6a. «Ma da la scorza»: «la scorza» è la parte esteriore e significa l'apparenza. È nato dunque per l'apparente cortesia.
  • 7. «E chi serba la fiamma in freddo loco»: cioè l'amore nel suo petto, ch'è tutto freddo.
  • 8a. «O chi la tempra in guisa»: ch'ella non s'inamori. Amore di nuovo risponde al dubbio del Poeta, e la risposta è fondata sovra una natural proprietà del lauro, del quale fregandosi insieme la scorza o i rami, suole uscire il fuoco, come scrive TEOFRASTO, e più ampliamente il MATTIOLO, ov'egli tratta di questa materia.

CXXXV

Dice che 'l suo desiderio non è amoroso, ma di vendetta.

Donna, quella saetta
Onde già mi percosse il mio Signore,
Accese il mio voler d'immenso ardore.
Hor, benchè spenta sia nel petto mio
5La brama e 'l foco, pur i' bramo et ardo
Per voi, che fiera quanto bella sete.
Ma la fiamma de l'alma e 'l suo desio
Già non deriva da soave sguardo,
E non è quel che voi forse credete.
10Bramo sì, ma vendetta:
E se pur dè gioir, non per amore,
Ma per disdegno homai gioisca il core.

  • 2b. «il mio Signore»: cioè Amore.
  • 4-5a. «Hor benchè spenta sia nel petto mio | La brama, e 'l foco»: cioè il desiderio amoroso, il quale è detto «foco».
  • 5b-6. «pur i' bramo et ardo | Per voi, che fiera quanto bella sete»: dimostra due diverse cagioni di due diverse passioni. Le cause sono la bellezza e la crudeltà: l'una genera amore, l'altra ira. E dice d'arder parimente, perchè l'ira è accension del sangue intorno al core.
  • 10. «Bramo sì, ma vendetta»: diffinisce l'ira per cagione formale, ch'è desiderio di vendetta.
  • 11a. «E se pur dè gioir»: quasi il piacer sia altrettanto ne l'ira, quanto ne l'amore. Leggi i Filosofi, c'hanno scritto dapoi che queste poesie furono divulgate.

CXXXVI

Si contengono in questa canzonetta le leggi che scrisse Amore nel tronco d'un lauro.

Con la saetta de la punta d'oro,
Ond'hebbi al petto sì mortal ferita,
Scrisse per leggi Amor de la mia vita,
Nel verde tronco d'un frondoso alloro:
5- Ama et ardi; e ristoro
Sia quest'ombra a l'ardor che stilla in pianto. -
Dolci mie leggi, ond'io mi glorio e vanto,
Temute e care, ond'io gioisco e moro,
Se non basta nel tronco, ov'ei mi lima,
10Nel mezo del mio petto Amor l'imprima.

  • 1a. «Con la saetta»: l'instrumento co 'l quale si scrivono l'altre leggi, suole essere la penna; ma queste sono scritte con la saetta per dimostrar la violenza con la quale son date, o la crudeltà. Il legislatore è Amore, il quale dà queste leggi particolari, oltre l'universali, la tavola è il lauro, le leggi sono tre: la prima [5] «ama», per la qual già è comandata la soggettione amorosa; la seconda [5] «ardi», quasi non basti l'amare se non s'ama ardentemente; la terza dimostra il premio, il quale è [6] d'«ombra». Nè si promette altro ristoro. Il Poeta, esclamando per soverchio affetto, le chiama [7] «dolci», havendo risguardo a la dolcezza del refrigerio, e [8] «temute», perch'egli teme di maggior pena, non osservandolo intieramente.

CXXXVII

Sono assomigliate le sue speranze a gli alberi che si piantano il primo di maggio.

Quest'arbor ch'è traslato al novo maggio,
Lasciando i larghi campi e l'alte rive,
Frondeggia a voi su l'alba; e pur non vive,
4Ma consola il morir co 'l vostro raggio.
In me troncaste, e con più grave oltraggio,
Voi le speranze, e son di vita hor prive,
E non spiegano i rami a l'aure estive,
8Nè ponno verdeggiar qual pino o faggio.
Nè basta il vento lor de' miei sospiri,
Nè del mio pianto l'amorosa pioggia,
11Ne 'l vostro sol, perchè risplenda e giri.
Nè cresceranno in disusata foggia
Tra quel lume sereno e i miei desiri,
14Se ramo in lauro non s'inesta e poggia.

  • 1. «Quest'alber ch'è traslato al novo maggio»: l'albero troncato e trapiantato il primo di maggio, com'è usanza comune di tutta Italia, non ricevendo più nutrimento da la terra, si può dire che sia privo de l'anima vegetativa il cui officio è di nutrire, e per conseguente ch'egli sia morto, nondimeno conserva per molti giorni le foglie verdi. Ma le speranze sono, com'egli dice, [5] «troncante» con maggiore ingiuria, perchè non ritengono più il verde, havendo risguardo a quel verso di DANTE: «Mentre che la speranza ha fior del verde». Quasi voglia dire le mie speranze, per la mutatione de l'amore, non solamente sono collocate in altra parte, ma sono in tutto morte.
  • 9a. «Nè basta il vento»: vaghissimamente, con la similitudine de gli alberi, descrive la sua disperatione.
  • 12. «Nè cresceranno in disusata foggia»: aggiunge la conditione per la quale possono ancora haver vita et accrescimento, e questo è l'amor de la sua Donna, significato per l'inesto. Perchè si come ne l'inesto l'una piante vive ne l'altra e produce i frutti, così ne l'amore l'uno amante è solito al vivere ne l'altro.
  • 14. «Se ramo in lauro non s'inesta e poggia»: «poggiar» propriamente è salire il poggio, ma per metafora si piglia per ogni sorte di salita o di inalzarsi o di volare, come prese il PETRARCA dicendo «E fu l'ucel che più per l'aria poggia».

CXXXVIII

Nel medesimo soggetto, fa comparatione di questi alberi con l'helitropio.

Già difendesti con ramose braccia,
Frondosa pianta, l'herbe e le viole
In verdi piagge o 'n selve ombrose e sole,
4Quando l'aria si scalda, e quando agghiaccia.
Hor credo ben, che di mutar ti piaccia
Paese e stanza: e come Clitia suole,
Sei tu per gratia volta al novo sole,
8Che le tenebre mie disperde e caccia,
Et a la bella porta, a cui d'intorno
Sparge sua luce. E s'io lei veggio aprirti,
11Stimo men chiara quella ond'esce il giorno.
Ma se cambiar mille amorosi spirti
Potesser le sembianze, al bel soggiorno
14Sempre verdeggiaranno i lauri e i mirti.

  • 1. «Già difendesti con ramose braccia»: «braccia» de le piante disse metaforicamente il Poeta, ad imitatione di quel verso «Annosaque brachia pandit».
  • 5a. «Hor credo ben»: assomiglia gli alberi piantati avanti la casa de la sua Donna a Clitia, altrimenti detta l'helitropio o 'l mirasole. La favola è raccontata da OVIDIO e nota a ciascuno.
  • 7a. «Sei tu per gratia volta»: rende la cagione de la similitudine.
  • 9a. «Et a la bella porta»: ne la comparatione assomiglia la porta de la sua Donna a quella d'oriente.

CXXXIX

Prega l'Aura che porti le sue parole a la sua Donna.

Aura, c'hor quinci scherzi hor quindi vole,
Fra 'l verde crin de' mirti e de gli allori,
E destando ne' prati i vaghi fiori
4Con dolce furto un caro odor n'invole;
Deh, se pietoso spirto in te mai suole
Svegliarsi, lascia i tuoi lascivi errori,
E colà drizza l'ali, ove Licori
8Stampa in riva del fiume herbe e viole.
E nel tuo molle sen questi sospiri
Porta, e queste querele alte amorose
11Là 've già prima i miei pensier n'andaro.
Potrai poi quivi a le vermiglie rose
Involar di sue labra odor più caro,
14E riportarlo in cibo a i miei desiri.

  • 1. «Aura, c'hor quinci intorno scherzi e vole»: altrimenti si legge: «dura, c'hor quinci scherzi, hor quindi vole». Poeticamente ragiona con l'aura, a la quale attribuisce il destare i fiori, come attribuì il PETRARCA dicendo «E desta i fior tra l'herbe in ciascun prato», perchè l'aure portando l'odor lontano lo fanno sentire. Per questa cagione ancora è detto ch'involino gli odori.
  • 5a. «Deh, se pietoso spirto»: perchè l'aura è spirito, [6] «errori» le mutationi perch'i venti si mutano.
  • 7a. «E colà drizza l'ali»: l'aure sono dipinte alate, perchè niuna cosa è più veloce.
  • 8. «Stampa in riva del fiume herbe e viole»: a differenza di quell'altro: «Ove vestigio human la rena stampi», per dimostrar la vaghezza del luogo nel quale erano sì spessi i fiori, che rimarranno impressi de la forma del piede.
  • 12. «Potrai poi quivi»: leggiadrissimamente conclude invitando l'aura al furto de' più soavi odori.

CXL

Dice che la sua Donna fa miracolosi effetti con la sua presenza e con lo star lontana ne la città e ne la villa similmente.

Hor, che l'aura mia dolce altrove spira
Fra selve e campi, ahi ben di ferro ha 'l core
Chi riman qui solingo, ove d'horrore
4È cieca valle, di miseria e d'ira.
Qui nessun raggio di beltà si mira:
Rustico è fatto, e co' bifolci Amore
Pasce gli armenti, e 'n su l'estivo ardore
8Hor tratta il rastro, et hor la falce aggira.
O fortunata selva, o liete piagge
Ove le fere, ove le piante e i sassi
11Appreso han di valor senso e costume.
Hor, che far non potria quel dolce lume,
Se fa, dond'egli parte, ov'egli stassi,
14Civili i boschi e le città selvagge?

  • 1a. «Hor, che l'aura mia dolce»: cioè la mia Donna, la qual per traslatione chiama «aura» sua «dolce».
  • 2b. «ahi ben di ferro ha il core»: è imitatione di que' leggiadrissimi versi di TIBULLO: «Rura tenent Cornute meam, villaeque puellam. | Ferreus est heu quisquis in urbe manet. | Ipsa Venus latos iam nunc migravit in agros | Verbaque Aratoris rustica discit Amor». Ma il Poeta usa insieme il luogo de' congiunti, perchè pascendo gli armenti, i bifolci sogliono cantar mandriali et altre compositioni sì fatte.
  • 9. «O fortunata selva, o liete piagge»: cioè per la sua presenza, la qual fa queste meraviglie simili a quelle: «Raccogliete voi piagge i miei desiri, | e tu sasso che spiri | Dolcezza et versi amor d'ogni pendice».
  • 12. «Civili i boschi e le città selvagge»: figura ne la quale il predicato implica contraddittione al soggetto, vaghissimamente usata da' nostri poeti.

CXLI

Narra come facendo prova d'estinguer uno amore, n'habbia acceso uno altro e racceso il primo similmente.

L'incendio, onde tai raggi uscir già fore,
Rinchiuso è ben, ma in nulla parte spento,
E per nova beltà ne l'alma sento
4Svegliarsi un novo, inusitato ardore.
Serve indiviso a due tiranni il core;
A' vari oggetti è un pensier fermo e intento,
E per doppia cagion doppio è 'l tormento:
8Chi mai tai meraviglie udio d'Amore?
Lasso e stolto già fui, quando conversi
Incontra 'l Ciel l'armi di sdegno, e volsi
11Trionfar di colui che sempre vinse.
Chè s'allhora un sol giogo io non soffersi,
Hor due ne porto; e s'un lacciuolo i' sciolsi,
14Quegli ordio novo nodo, e 'l vecchio ei strinse.

  • 1. «L'incendio, onde tai raggi uscir già fore»: chiama «incendio» l'Amore e «raggi» i segni d'Amore e le dimostrationi come le poesie e l'altre sì fatte.
  • 3a. «E per nova belta»: descrive il principio d'un nuovo amore, e fu questo soggetto trattato da OVIDIO ne gli Amori in quella elegia la qual comincia [d.].
  • 5a. «Serve indiviso»: era il principio de l'amore, però il cuore, quasi regno de l'Amore, non era ancora diviso.
  • 6a. «A' vari oggetti»: uno non di numero ma di specie, amoroso come l'altro, o pur di genere o d'analogia.
  • 7. «E per doppia cagion doppio è il tormento»: nondimeno questa non pare maraviglia, ma chi la considera sottilmente è grandissima, perchè l'amor suole diminuir per la divisione, e l'uno suole esser quasi trastullo de l'altro, come si raccoglie da que' versi «Ubi tu Pamphilum, ego Phedriam».
  • 9a. «Lasso e stolto ben fui»: dimostra come questi amori non fossero per elettione, ma quasi fatali, seguendo il costume de gli altri amanti, i quali danno la colpa a le stelle et al fato de gli errori de la propria volontà, non si ricordando di que' versi: «Qual colpa è de le stelle | O de le cose belle», e di quegli altri: «Il Cielo i nostri movimenti initia | Non dirò tutti, ma posto ch'io il dica | Lume v'è dato a bene, et a nequitia, | E libero voler, che s'affatica».

CXLII

Nel medesimo soggetto de' baci.

Dal vostro sen, qual fuggitivo audace,
Corso al varco odorato era il mio core,
Quando fra dolci spirti e dolce humore,
4Un bacio attrasse il prigioner fugace.
Parte n'attrasse sol: perchè tenace
Parte in voi ne ritenne antico amore,
Fra 'l mel natio de l'uno e l'altro fiore,
8Ond'ei suo visco inestricabil face.
Pur novo bacio poi la tronca parte
Ritroncando, libò la più gradita;
11L'altra languendo in voi misera stassi.
Deh, fia mai ch'io 'l raccolga, e con quest'arte,
E poi con l'alma in un sol loco i' lassi
14Come spira ne' morsi ape la vita?

  • 1. «Dal vostro sen, qual fuggitivo audace»: assomiglia il cuore a' fuggitivi, perchè l'amore non parea volontario.
  • 2a. «Corso al varco odorato»: chiama «varco» la bocca perchè nel respirare è quasi varco de l'anima.
  • 4. «Un bacio attrasse il prigionier fugace»: quel, di cui già s'è parlato.
  • 5a. «Parte n'attrasse sol»: racconta la divisione del cuore, prima in due parti, e poi in due altre con un nuovo bacio, in guisa che l'ultima, e la minore ritenuta da l'antico amore, restò ne l'usata prigione.
  • 12. «Deh, fia mai ch'io 'l raccolga, e con quest'arte»: desidera di riunir il cuore con l'«arte» medesima con la quale era stato diviso, e di lasciarlo poi in un sol luogo, sì come l'api sogliono lasciar la vita. Il luogo è imitato in VIRGILIO, che disse: «dulcemque ponunt in vulnere vitam».

CXLIII

Loda gli occhi negri scintillanti, assomigliandoli al mar profondo in cui risplendono i raggi del sole.

Questo sì puro, e lieto, e dolce raggio
Non è di stella o pur di bianca luna,
Ma par di sole, e sole altro non haggio.
E mentre sete più, luci, tranquille,
5Quasi un bel mare il bel profondo inbruna,
Con più soavi e lucide faville.
O sian lumi d'Amore ardenti e chiari,
O de l'alma gentil, ch'in voi si mostra,
Deh, non turbi Fortuna occhi sì cari,
10E 'l bel sereno, e l'alta pace vostra.

  • 1. «Questo sì puro, e lieto, e dolce raggio»: questo raggio, che risplende ne gli occhi (dice il Poeta) non è raggio di luna o di stelle, ma di sole, perch'egli è luminoso molto, essendo il lume della cagione di letitia, e le tenebre, a l'incontro, di mestitia, e molto puro. Conditione che parimente s'appartiene al sole, il qual purifica l'aria più di tutti gli altri pianeti.
  • 5a. «Quasi un bel mare»: il sensorio de gl'occhi, come dice Aristotele, naturali, ne' piccioli è de la natura de l'acqua e in quelli, come afferma il medesimo ne' libri De le parti de gli animali, che son negri, è molto humore, e ciò prova con la similitudine del mare, il quale all'hora ch'è più profondo è più negro.
  • 7a. «O sian lumi d'Amore»: cioè «raggi», ad imitatione d'OVIDIO.
  • 8a. «O de l'alma gentil»: imita il PETRARCA, il qual disse: «Sì che visibilmente il cor traluce» et in un altro luogo: «De l'alma che traluce come un vetro».
  • 9a. «Deh, non turbi»: affettuosamente desidera ch'i begli occhi siano sempre sereni, e chiama [10b] «pace» de gli occhi la serenità.

CXLIV

Loda gli occhi bianchi.

De' vostri occhi sereni il dolce humore,
Quasi un candido mare, ha picciol fondo,
Sì che traluce al mio pensier profondo,
Con dolcissime voglie il nobil core.
Anzi, in quel lucidissimo candore
L'alma si scopre, e no 'l perturba Amore,
E non vi sono insidie, o scogli o sirti,
Nè fa tempesta d'amorosi spirti.

  • 1a. «De' vostri»: la bianchezza de gl'occhi, come afferma ARISTOTELE nel medesimo luogo, è cagionata dal poco humore, come avviene parimente nel mare il qual non sia di molta profondità. Laonde il Poeta con gentile artificio, in lodar l'opposto usa il luogo de l'opposto, perchè si manifesta in questi a guisa di fondo quello che ne gl'altri si nasconde, cioè il pensiero o la passione, o altra cosa sì fatta. È trattato questo luogo con molta vaghezza, per esperienza e per prova d'ingegno.
  • 7a. «E non vi sono»: havendolo assomigliato al mare, dice che non asconde gli scogli o le sarti sotto l'acqua et in somma loda la sincerità.

CXLV

Si duole che la Gelosia habbia contaminata la dolcezza e la soavità ch'egli sentiva ne l'amare.

Quel puro ardor, che da i lucenti giri
De l'anima immortale in me discese,
Sì soave alcun tempo il cor m'accese
4Che nel pianto gioiva e ne' sospiri.
Come minacci Amor, come s'adiri,
Quali sian le vendette e quai l'offese,
Per prova seppi allhor, nè più s'intese
8Che beassero altrui pene e martiri.
Hor ch'empia Gelosia s'usurpa il loco
Ove sedeva Amor solo in disparte
11E fra le dolci fiamme il ghiaccio mesce,
M'è l'incendio noioso, e 'l dolor cresce
Sì ch'io ne pero, ahi lasso: hor con quale arte,
14Se temprato è dal gel, più m'arde il foco?

  • 1. «Quel puro ardor, che da i lucenti giri»: «puro» chiama il suo amore, perch'era amor de la bellezza de l'anima, e da lei cagionato. «Lucenti giri» de l'anima son detti gl'occhi ad imitatione di PLATONE, il qual disse nel Timeo: «Principio Dij figuram capitis ad rotunditatem mundi finxere, in eoque; duos illos animae divinos circuitus statuerunt».
  • 3a. «Sì soave alcun tempo»: cioè mentre fa puro et acceso da la bellezza de l'animo o solamente, o principalmente.
  • 5a. «Come minacci Amor»: dimostra d'haver fatta esperienza de le passioni amorose.
  • 9. «Hor ch'empia Gelosia s'usurpa il loco»: cioè il cuore o la mente.
  • 11a. «E fra le dolci fiamme»: chiama «fiamme» i desideri amorosi e [11b] «ghiaccio» il timore o il sospetto de la gelosia.
  • 12a. «M'è l'incendio noioso»: cioè l'amare ardentissimamente.
  • 13a. «ahi lasso»: si meraviglia come la gelosia possa accrescer l'amore.

CXLVI

Descrive in se medesimo la natura e la sollecitudine de' gelosi.

Geloso amante, apro mill'occhi e giro,
E mille orecchi ad ogni suono intenti,
E sol di cieco horror larve e spaventi,
4Quasi animal ch'adombre, odo e rimiro.
S'apre un riso costei, se 'n dolce giro
Lieta rivolge i begli occhi lucenti,
Se tinta di pietà gli altrui lamenti
8Accoglie, o move un detto od un sospiro,
Temo ch'altri ne goda, e che m'invole
L'aura e la luce; e ben mi duol che spieghi
11Raggio di sua bellezza in alcun lato.
Si nieghi a me, pur ch'a ciascun si nieghi:
Che quando altrui non splenda il mio bel Sole,
14Ne le tenebre ancor vivrò beato.

  • 1a. «Geloso amante»: finge che 'l geloso sia uno mostro con mille occhi e mille orecchie, ma allegoricamente per [1b] «occhi» e per [2a] «orecchi» intende i pensieri del geloso.
  • 5a. «S'apre un riso costei»: narra molte cose che soglion esser cagion de la gelosia.
  • 9a. «Temo ch'altri ne goda»: dice quel che è la gelosia, cioè timore ch'altri non goda de la bellezza de la cosa amata.
  • 9b-10a. «e che m'invole | L'aura e la luce»: pare che 'l sospetto sia tanto che si stenda ancora a le cose impossibili, e somiglia a quello: «Pur come Donna in un vestire schietto | Celi un huom vivo, e sotto un bianco velo».
  • 11a. «Si nieghi a me»: descrive la natura del geloso, simile a quella de l'invidioso, la qual, come dice ARISTOTELE nel secondo de la Retorica, è molestia, per la prosperità de' simili. Cioè non si dogliono tanto per la privatione, quanto perchè gl'altri posseggono quello che lor manca, et quella differenza distingue l'invidia da l'emulatione. Perchè l'emulo si duole non perchè gl'altri godano, ma perch'esso non gode similmente. Ma il geloso, per opinione de l'Autore, in ciò è diverso da l'emulo et è più somigliante a colui che porta invidia.

CXLVII

Nel medesimo soggetto.

O ne l'amor che mesci
D'amar novo sospetto,
O sollecito dubbio e fredda tema
Ché pensando t'accresci,
5Et avanzi nel petto
Quanto la speme si dilegua e scema?
S'amo beltà suprema,
Angelici costumi
E sembianti celesti
10E portamenti honesti,
Per ch'avien che temendo io mi consumi?
E che mi strugga e roda,
S'altri gli mira e loda?
Già difetto non sei
15De la gentil mia Donna,
Chè nulla manca in lei, se non pietate;
E temer non devrei
Ch'ove honestà s'indonna
Regnasse Amor fra voglie aspre e gelate.
20Pur la sua gran beltate,
Ch'altrui sì rasserena,
E lo mio picciol merto
Mi fa dubbioso e 'ncerto,
Tal che sei colpa mia, non sol mia pena:
25Sei colpa e pena mia,
O cruda Gelosia.
E me stesso n'accuso,
Ch'al mio martir consento
Sol per troppo voler, per troppo amare;
30E quel che dentro è chiuso,
Con cento lumi e cento
Veder i' bramo, e non sol ciò ch'appare.
Luci serene e chiare,
Soavi e cari detti,
35Riso benigno e lieto,
Che fa nel più secreto
Albergo l'alma fra celati affetti?
Fra gli occulti pensieri,
Che vuol, ch'io tema e speri?
40Voi, sospiri cortesi
E fidi suoi messaggi,
A cui ve 'n gite, a cui portate pace?
Deh, mi fosser palesi
Vostri dolci viaggi,
45E quel che nel suo core asconde e tace.
Oimè, che più le piace?
Valore o chiara fama,
O bella giovinezza,
O giovenil bellezza
50O più sangue reale honora et ama?
Ma, se d'amor s'appaga,
Forse del nostro è vaga.
È 'l mio vero et ardente,
E per timor non gela,
55Nè s'estingue per ira o per disdegno,
E cresce ne la mente
S'egli si copre e cela.
Però se rade volte ascoso il tegno,
Ben di pietate è degno,
60E degni di mercede
Sono i pensier miei lassi;
Così solo il l'amassi,
Come il mio vivo foco ogn'altro eccede,
Chè non temerei sempre
65In disusate tempre.
Nè solo il dolce suono,
E l'accorte parole
Di chi seco ragiona, e i bei sembianti,
Ma spesso il lampo e 'l tuono
70E l'aura e 'l vento e' l sole
Mi fan geloso, e gli altri Divi erranti.
Temo i celesti amanti,
E se ne l'aria io veggio
O nube vaga o nembo,
75Dico: - Hor le cade in grembo
La ricca pioggia, - e co 'l pensier vaneggio,
Ché spesso ancor m'adombra
Duci et Heroi ne l'ombra.
Canzon, pria mancherà fiume per verno,
80Che nel mio dubbio core
Manchi per gelo Amore.

  • 1. «O ne l'amor, che amor»: chiama la gelosia con molti sinonimi, i quali si convengono al poeta, come insegna ARISTOTELE nel terzo de la sua Retorica: la chiama [2]«sospetto» ne l'amore, a differenza de gl'altri sospetti che non sono amorosi, perchè questa diversità basta a dimostrar quel ch'ella sia; la chiama [3a]«dubbio», la chiama [3b]«tema» similmente. Dimostra più chiaramente da' congiunti e da gl'opposti quale sia. Imperoch'è sempre accompagnata col pensiero, dal qual piglia accrescimento, è sempre contraria alla speranza. Laonde alcuni hanno detto che la gelosia è quasi infermità e febre de la speranza ch'al fine l'uccide, convertendosi in disperatione.
  • 7a. «S'amo beltà suprema»: dubita come gelosia possa esser de le bellezze de l'animo o di quelle del corpo che sono congionte con l'honestà.
  • 14-15. «Già difetto non sei | De la gentil mia Donna»: dice che la gelosia non è difetto de la sua Donna, ne la quale non è altro mancamento che di pietà, e non intende di quella ch'è propriamente pietà, la qual è numerata con l'altre supreme virtù de la mente, cioè con la fede e con la religione, e da alcuni è deffinita culto d'Iddio, ma di quella passione de gl'animi nostri ch'altrimenti è detta misericordia. Perchè questa non ha luogo in coloro che si stimano felici, come insegna ARISTOTELE nel secondo de la Retorica.
  • 20. «Pur la tua gran beltate»: dice dove son le cagioni de la gelosia: la bellezza de la sua Donna e 'l suo poco merito. E conchiude ch'ella non sia solamente propria [24a]«colpa», ma propria [24b]«pena».
  • 27. «E me stesso n'accuso»: accusa se medesimo de la gelosia come di proprio difetto, seguendo in ciò la dottrina di PLATONE o di Socrate nel Gorgia, e di nuovo assomiglia il geloso ad Argo, o più tosto dice che vorrebbe haver tanti occhi da guardar le cose interiori quanti Argo n'haveva per l'esteriori.
  • 33. «Luci serene e chiare»: affettuosissima conversione a gli occhi, a le parole, al riso.
  • 36-37a. «Che fa nel più secreto | Albergo l'alma»: chiama il cuore «albergo de l'anima».
  • 40. «Voi sospiri cortesi»: si rivolge a' sospiri, i quali chiama [41]«Messaggieri» de l'anima e desidera di sapere ove siano inviati, e copre ad una ad una le ragioni de la gelosia.
  • 53. «e 'l mio vero et ardente»: narra le qualità del suo amore, dimostrando com'egli merita [59-60] premio e pietà.
  • [66-78]. Mostra come la sua gelosia il mova a sospettare di quelle cose ancora per le quali gl'altri non sogliono esser gelosi, et accortamente tocca la favola di Danae, del cui amore acceso, Giove si convertì in pioggia d'oro.
  • 79. «Canzon, pria mancherà fiume per verno»: questa è lingua, come dicono alcuni, straniera artificiale, perchè il Poeta dà al nome «verno» quella significatione che la voce hiems ha fra' Latini alcuna volta, come nel primo de l'Eneide: «Accipiunt inimicum hiemem rimisque fatiscunt». La qual significatione gli fu data alcuna volta da' Toscani.

CXLVIII

Nel ritorno de la S[ignora] L[aura] a la città, le prega felice viaggio, dimostrando la sua eccellenza per la quale è degna d'esser favorita dal Cielo e da la Natura.

Hor che riede Madonna al bel soggiorno,
Chi la defende da l'estiva arsura?
O qual frondoso calle o selva oscura
4Le rose adombra, ond'è quel viso adorno?
Ben ella è degna, a cui di nubi intorno
Humide e fresche tessa un vel Natura,
E stilli il Ciel pioggia più dolce e pura,
8E desti l'aure e tempri il caldo giorno.
Degna, ch'essendo il sol ne l'orizonte
Cinto di raggi, da' sentieri usati
11Torca il gran carro, sol per farle honore.
Ma 'l suo chi regge per campagne e prati?
Oh pur foss'io, ma con sua pace, Amore,
14L'Automedon un giorno, e poi Fetonte.

  • 1. «Hor che riede Madonna al bel soggiorno»: «bello» chiama il palazzo de la città dove soleva habitare.
  • 2. «Chi la defende da l'estiva arsura?»: è detto interrogatione, per dimostrar la sua delicata natura et il caldo de la stagione.
  • 3a. «O qual calle frondoso»: quasi accennando che per lei dovevano esser fatte le strade ombrose e le selve, dove potesse ripararsi dal sole.
  • 5a. «Ben ella è degna»: par che voglia conchiudere dal più al meno in questo modo: s'è degna per la sua bellezza e nobiltà che la natura et il cielo et il sole, havendo risguardo a la sua bellezza, le facciano honore, quanto sarebbe più meritevole che l'artificio de gli homini facesse le strade ricoperte da gli alberi et i boschi dove potesse ricoverarsi ne la più calda hora del giorno.
  • 13a. «O pur foss'io»: affettuosamente desidera di guardar il suo carro, quantunque ne dovesse avenire, che 'l suo fine fosse simigliante a quel di Fetonte, cioè ch'egli morisse per l'incendio de la sua bellezza.
  • 14a. «L'Automedon un giorno»: Automedone fu carattiere d'Achille, ma si prende per ogni carattiere fortunato per l'essercitio suo e per la gloria de la persona ch'egli guida, come il prese il PETRARCA dicendo di coloro che conducevano M[adonna] L[aura] e le compagne: «Felice Automedon, felice Tifi | Che conduceste sì leggiadra gente».

CXLIX

Risponde al Si[gnor] Annibal Pocaterra.

L'aura soave, al cui spirar respira
E gioisce il tuo cor nel foco ardente,
La dolcezza, onde pasce Amor la mente,
4Indi sparge nel canto, e placa ogn'ira.
Nè mai figlia del Sol, che nasce e gira
Co 'l Padre, e more al suo cader sovente,
Sì placida ver noi de l'oriente
8Tra mille odori mormorando spira.
Ma se l'aura vital, l'aura serena
Che le procelle e le tempeste acqueta,
11E i vaghi accenti tuoi rende più chiari,
A me si volge, addolcirà la pena,
E faremo armonia dolente e lieta
14Di spirti dolci, e di sospiri amari.

  • 1a. «L'aura soave»: cioè la Donna amata da lui, la qual con la dolcezza del canto temprava l'ardente amore di ciascuno.
  • 5a. «Nè mai figlia del Sol»: chiama l'aura «figlia del Sole», perch'il sole attrahendo su l'essalationi de le quali si generano i venti, si può dir che sia la cagione efficiente che nasce e gira. Perchè molte volte alcuni venti si levano la mattina e cessano la sera doppo il tramontar del sole.
  • 7-8a. «Sì placida ver noi da l'oriente | Tra mille odori»: perchè ne l'oriente nascono gli odori, o havendo risguardo al sito particolare per lo quale passava il vento.
  • 9a. «Ma se l'aura»: loda la sua Donna sotto metafora, overo per [10]«tempeste e procelle» intende le passioni de l'animo che sono, come dice PETRARCA, «Venti contrari a la vita serena».

CL

Persuade la S[ignora] [Laura] che non sia gelosa e fredda ne l'amare.

S'amate, vita mia, perchè nel core
Tema e desire è ne l'istesso loco?
Se l'uno affetto è gelo, e l'altro è foco,
4Il ghiaccio si dilegui al vivo ardore,
Nè 'n petto giovenil paventi Amore,
Nè ceda nel suo regno a poco a poco
Gelida amante; e non prendiate a gioco
8Come i vostri diletti il mio dolore.
Io tutto avampo, e voi credete a pena
Che si riscaldi a gli amorosi rai
11Quel possente voler, che nulla affrena.
Gran fede, e moderato ardire homai
Voi d'inganno fuor tragga e me di pena,
14Pur ch'io gioisca quanto già sperai.

  • 1-2. «S'amate, vita mia, perchè nel core | Tema e desire è ne l'istesso loco»: può parer sciocca la domanda, perch'è proprio de gli amanti il temere. Tutta volta il Poeta non parla d'ogni timore, ma di quello de la gelosia, nè d'ogni amore, ma de l'amor de l'animo al qual è contrario il timor de la gelosia, o almeno ripugnante.
  • 3. «Se l'uno affetto è gelo, e l'altro è foco»: i contrari son quelli che vicendevolmente si distruggono.
  • 5. «Ne 'n petto giovenil paventi Amore»: perchè il timore conviene più tosto a vecchi e la speranza a' giovani, come dice ARISTOTELE nel secondo de la Retorica.
  • 6a. «Nè ceda nel suo regno»: chiama «regno» d'Amor gli animi de gli amanti.
  • 7a. «Gelida amante»: la riprende come fredda e come miscredente ne l'amore.
  • 12a. «Gran fede»: perch'ella è virtù ne la quale non può essere eccesso.
  • 12b. «e moderato ardire»: perch'in tutte le passioni de l'animo si ricerca alcun moderamento.
  • 13a. «Voi d'inganno fuor tragga»: et questo pare officio de la fede.
  • 13b. «e me di pena»: de la fede e de l'ardire parimente.
  • 14. «Pur ch'io gioisca, quanto già sperai»: acciochè la speranza non sia fallace, il piacere dee esser uguale a quella.

CLI

Loda il suo amore et accusa la crudeltà de la sua Donna.

Amor non è che si descriva o conte
Maggior di quello onde m'ardete il core;
E ben de l'alma il volontario ardore
4Vi dimostrai ne gli occhi e ne la fronte,
E tutte l'opre a riverirvi pronte,
E le parole intente a farvi honore;
Nè darvi pegni di verace amore
8Potea più certi, e n'hebbi oltraggi et onte,
Quando, sprezzata grande e chiara fiamma,
Tanto gradiste, per fallace segno,
11Di novo amante oscuro e picciol foco.
Crudel, d'huom che si strugge a dramma a dramma,
Perchè mille sospiri havere a sdegno,
14E sospirar per chi se 'l prende a gioco?

  • 1. «Amor non è, che si descriva, o conte»: cioè non si trova Amor, del qual si scriva o ragioni, maggior del mio.
  • 3a. «E ben de l'alma»: aggiunge a la prima conditione la seconda, cioè a l'esser grande l'esser volontario, per dimostrar ch'egli durerà lungamente, perciochè se le cose violente e fatte per forza non sono durevoli, quelle all'incontro che si fanno volontariamente deono conservarsi lungo tempo.
  • 4. «Vi dimostrai ne gli occhi e ne la fronte»: parla de le dimostrationi e de' segni de l'amore.
  • 9a. «Quando, sprezzata»: hor dimostra la crudeltà de la sua Donna, e la mala elettione di lei ne gli opposti: disprezzar [9b]«grande e chiara fiamma», per [10b]«oscuro e picciol foco».
  • 12a. «Crudel»: l'interrogatore aggiunge forza a le parole, perchè la dimanda è di cosa di cui non si può di leggeri render la cagione.

CLII

Dimostra quanta differenza sia fra gli affetti de la sua Donna et i suoi medesimi.

Donna bella e gentil, del vostro petto
Son passioni eguali odio et amore,
Ma non già del mio core,
Dove l'un vive e spento è l'altro affetto.
5Anzi più tosto non vi nacque mai
L'odio crudele, e nascer non potria;
Ma v'amai, se m'amaste, et hor non meno
V'amo, che voi m'odiate e sete ria,
Come a la mia fortuna et a voi piacque.
10Perchè non ama la sua Donna a pieno
Chi l'ama sol quando la stima amante.
Non, no, non se ne vante:
V'amo io nemica, e quinci honore aspetto.

  • 1-2. «Donna bella, e gentil, del vostro petto | Son passioni eguali odio et amore»: l'«odio et l'amore» son passioni «eguali», non assolutamente, ma «del vostro petto»: non assolutamente, perchè l'amore è di maggior forza. Laonde alcuno ha creduto che l'amore e l'odio non siano contrari, se contrari sono quelli c'hanno egual possanza. E questa opinione difese il Poeta ne le sue conditioni: [3-4] «Ma non già del mio core | Dove l'un vive, e spento è l'altro affetto» perch'il più potente ha ucciso il meno.
  • [5a]. «Anzi più tosto»: è correttione de le cose dette.
  • 7a. «Ma v'amai, se m'amaste»: dimostra quanta sia la costanza del suo amore, poi ch'ama non essendo riamato.
  • 13. «V'amo nemica, e quinci honore aspetto»: accenna ch'è 'l suo amore non di concupiscenza, ma di carità, secondo quell'ammaestramento: «Diligite inimicos vestros, etc.».

CLIII

Loda le bellezze de la sua Donna maravigliosamente.

Ha gigli e rose et ha rubini et oro
E due serene stelle e mille raggi
Il bel vostro purpureo e bianco viso,
Onde sua primavera è 'l suo tesoro,
E gemme i vaghi fiori, e lieti maggi
Lucide fiamme son di Paradiso;
Ma 'l più bel pregio è la virtù de l'alma
Ch'è di se stessa a voi corona e palma.
La Natura v'armò, bella Guerrera,
E strali sono i guardi, e nodi i crini,
E le due chiare luci ambe facelle;
E 'n vostro campo è ne la prima schiera
L'honor, la gloria, e stanno a lor vicini
Gli alti costumi e le virtuti anch'elle;
Et un diaspro intorno il cor v'ha cinto,
E voi sete la duce, Amore il vinto.

  • 1a. «Ha gigli e rose»: che nascono ne la superficie de la terra.
  • 2a. «E due stelle serene»: che risplendono nel cielo.
  • 2b. «e mille raggi»: che si spargono per tutte le parti del mondo, tanta è la eccellenza et la maraviglia de la vostra bellezza che raccoglie tutte queste eccellenze e queste maraviglie.
  • 4. «Onde sua primavera è 'l suo tesoro»: se la primavera è «tesoro», i fiori son [5] «gemme». La primavera è tesoro perchè l'una e l'altra cosa fu detta da' poeti, ma il Poeta conchiude nuovamente.
  • 7a. «Ma il più bel»: prepone la bellezza de l'animo a tutte le altre bellezze.
  • 9a. «La natura v'armò»: a differenza de l'altre, che sono armate da l'arte.
  • 12a. «E 'n vostro campo»: perchè l'haveva chiamata [9] «guerrera», continuando ne la traslatione, doppo haver fatta mentione de l'arme, numera i guerrieri. Laonde la chiama non sol «guerrera», ma [16] «duce», perchè a la guerrera si convengon l'arme, a la duce i guerrieri.
  • 16b. «Amore è vinto»: è breve imitatione d'una lunga poesia di PETRARCA, ne la qual si descrive non solo Amor trionfato, ma vinto da L[aura] e da le sue virtù.

CLIV

Descrive la bellezza de la sua Donna e dimostra come la dolcezza de le parole fossero la cagione del suo amore nel principio.

Su l'ampia fronte il crespo oro lucente
Sparso ondeggiava, e de' begli occhi il raggio
Al terreno adducea fiorito maggio,
4E luglio a i cori oltra misura ardente.
Nel bianco seno Amor vezzosamente
Scherzava, e non osò di fargli oltraggio;
E l'aura del parlar cortese e saggio
8Fra le rose spirar s'udia sovente.
Io, che forma celeste in terra scorsi,
Rinchiusi i lumi e dissi: - Ahi, come è stolto
11Sguardo, che 'n lei sia d'affissarsi ardito. -
Ma del rischio minor tardi m'accorsi:
Chè mi fu per l'orecchie il cor ferito,
14E i detti andaro ove non giunse il volto.

  • 1a. «Su l'ampia fronte»: d.
  • 3. «Al terren adducea fiorito maggio»: è simile a quello: «Et fiorir co' begli occhi le campagne».
  • 4a. «E luglio»: dimostra ne' diversi subietti le maravigliose virtù de la sua Donna.
  • 5a. «Nel bianco seno»: seguita descrivendo la bellezza.
  • 9a. «Io, che forma celeste»: simile a quello «L'opra è sì altera, e sì leggiadra e nova, | Che mortal vista in lei non s'assecura».
  • 12a. «Ma de l'altro periglio»: dimostra il poco avedimento de' giovani, che non pongono la guardia a tutti i sensi egualmente per escluderne Amore, la qual inavertenza non sarebbe diversa da quella d'un capitano che, serrando una porta a un nemico, ne lasciasse aperta un'altra.

CLV

Nel ritorno del carnevale, assomiglia le sue immaginationi a le maschere.

Riede la stagion lieta, e 'n varie forme
Sotto vaghi aspetti i vaghi amanti
Celan se stessi, e sotto il riso i pianti,
4Seguendo di chi fugge, incerti, l'orme.
Io, come vuole Amor che mi trasforme,
Mi vesto ad hor ad hor novi sembianti,
E mille larve a me d'intorno erranti
8Veggio, con dubbio cor che mai non dorme.
Con queste parlo, e piango, e canto, e scrivo,
Hor di speranza pieno, et hor d'horrore.
11Et hor prendo la spada, hor la faretra.
Ma tu dentro e di fuor, presente e vivo,
Mi sei crudel; ma pur ti placa Amore,
14Chè forse gratia de' miei falli impetra.

  • 1a. «Riede la stagion lieta»: non per natura, ma per usanza, perch'in lei si fanno gli spettacoli e si celebrano i giuochi.
  • 1b. «e 'n varie forme»: descrive leggiadramente l'uso de le maschere.
  • 5a. «Io, come»: tanto è forte l'imaginatione.
  • 9a. «Con queste parlo»: o perch'il Poeta si tramuti interiormente in queste forme, o perchè vaneggiava per amore, o per l'una e l'altra cagione.

CLVI

Introduce la Gelosia a ragionar di se medesima.

Io son la Gelosia, c'hor mi rivelo
D'Amor ministra in dar tormento a' cori.
Ma non discendo già dal terzo Cielo,
Dov'Amor regna, anzi duo son gli Amori,
Nè là su mai s'indura il nostro gelo,
Tra le divine fiamme e i puri ardori;
Non però da l'Inferno a voi ne vegno,
Ch'ivi amor no, ma sol vive odio e sdegno.
Forma invisibil sono; e mio ricetto
È non chiuso antro od horrida caverna,
Ma loco ombroso e verde e real tetto,
E spesso stanza de' cuor vostri interna;
E formate ho le membra, e questo aspetto,
D'aria ben densa, e la sembianza esterna
Di color vari ho così adorna e mista,
Che di Giunon l'ancella appaio in vista.
Questo che mi ricopre, onde traluce
Parte però del petto bianco e terso,
D'aria è bel velo; e posto in chiara luce
Prende sembiante ad hor ad hor diverso.
Hor qual piropo al sol fiammeggia e luce,
Hor nero il vedi, hor giallo, hor verde, hor perso,
Nè puoi certo affermar ch'egli sia tale,
E di color sì vari anco son l'ale.
Gli homeri alati, alati ho ancora i piedi,
Sì che Mercurio, e 'nsieme Amor simiglio;
E ciascuna mia penna occhiuta vedi
D'aureo color, di nero e di vermiglio.
Pronta e veloce son più che non credi,
Popol che miri. Il sa Venere e 'l figlio,
Leve fanciul che fora un tardo veglio,
Ma se posa, o se dorme, io 'l movo e sveglio.
Questa, c'ho ne la destra, è di pungenti
Spine, onde sferzo de gli amanti il seno.
Ben ho la sferza ancor d'empi serpenti
Fatta, e 'nfetta di gelido veneno;
Ma su le disleali alme e nocenti
L'adopro, quai fur già Teseo e Bireno.
L'Invidia la mi diè, compagna fera
Mia, non d'Amor: la diede a lei Megera.
Non son l'Invidia io no, benché simile
Le sia, com'ha creduto il volgo errante.
Fredde ambe siam, ma con diverso stile:
Pigra ella move, io con veloci piante,
E mi scaldo nel volo, ella in huom vile,
Io spesso albergo in cor d'illustre amante,
Ella fel tutta, e mista io di dolore,
Ella figlia de l'odio, io de l'amore.
Me produsse la tema, Amore il seme
Vi sparse, e mi nudrì cura infelice.
Fu latte il pianto, che da gli occhi hor preme,
Giusto disdegno, hor van sospetto elice.
Così il padre e la madre assembro insieme,
E 'n parte m'assomiglio a la nutrice;
E 'l cibo ancor, che nutricommi in fasce,
E quel che mi diletta, e che mi pasce.
Di pianto ancor mi cibo e di pensiero,
E per dubbio m'avanzo e per disdegno,
E mi noia egualmente il falso e 'l vero,
E quel ch'apprendo, in sen fisso ritegno.
Nè sì, nè no nel cor mi sona intiero,
E varie larve a me fingo e disegno.
Disegnate le guasto e le riformo,
E 'n tal lavoro io non riposo o dormo.
Sempre erro, e ovunque vado i dubbi sono
Sempre al mio fianco, e le speranze a lato.
Ad ogni cenno adombro, ad ogni suono,
A un batter di palpebre, a un trar di fiato.
Tal è mia qualità, quale io ragiono,
Principi, e voi cui di vedermi è dato,
Et hora Amor fra mille lampi e fochi
Vuol ch'io v'appaia ne' notturni giochi.
Perchè, s'avien ch'al sonno i lumi stanchi
La notte inchini e la quiete alletti,
Io vi stia sempre stimolando a' fianchi
E col timor vi desti e co' sospetti;
Perchè gente al teatro homai non manchi,
Nè sian gli altri suoi giochi in lui negletti.
Ma vien che mi discaccia; ond'io gli cedo
Et invisibil qui tra voi mi siedo.

  • 1. «Io son la Gelosia, c'hor mi rivelo»: cioè prendo corpo col qual posso esser veduta, e forse ha risguardo a le parole che s'apparecchia di dire, ne le quali scoprì la sua natura.
  • [2a]. «D'Amor compagna», perchè segue l'amore, quasi invisibilmente. Altrimenti si legge «ministra in dar tormenti», perchè fra le passioni amorose niuna è più fiera e più spiacevole de la gelosia.
  • 3. «Ma non discendo già dal terzo Cielo»: cioè non son compagna de l'Amor celeste, ma del volgare, perchè due son gli Amori, come due son le Veneri.
  • 5a. «Nè là su»: in cielo.
  • 5b. «mai s'indura il nostro gelo»: metaforicamente inteso per il timore, perochè in Cielo non è altra temenza, nè altra passione.
  • 7. «Non però da l'Inferno»: doppo haver detto che non discende dal Cielo, soggiunge che non viene «da l'Inferno», perchè s'ella segue l'Amore, e l'Amore non è mai ne l'Inferno, ella similmente non vi può essere. Havrebbe ciò potuto provare per altra ragione, perchè ne l'Inferno è disperatione, ma dove è disperatione non è gelosia. È dunque la gelosia un affetto quasi di mezo, com'è l'amore, non buono e non cattivo, nè bello nè brutto, ma tra l'uno e l'altro.
  • 9a. «Forma invisibil sono»: perchè le passioni si diffiniscono ancora per la forma, et ella propriamente è timore.
  • 9b. «e mio ricetto»: dimostra dove habiti, cioè nel cuore de gli huomini dove habita l'Amore. Dice ancora d'havere albergo ne le selvette e ne' giardini, perch'in somiglianti luoghi da diporto, spesso l'uno amante suole haver gelosia de l'altro.
  • 13a. «E formate ho le membra»: nel prender corpo, ha preso corpo aereo, come Iride di più colori, per dimostrar le mutationi de l'aspetto che seguitano a le passioni de l'animo, le quali perciò son dette «passibiles qualitates». E per simile cagione il Sig[nor] LORENZO DE' MEDICI disse di lei parlando in alcune sue stanze: «Et un ammanto | D'uno incerto color cangiante havea». Bench'il medesimo autore dia a la speranza la vesta di nebbia in que versi: «Et una Donna di statura immensa | La cima de' capelli al ciel par monti | Formata, e vestita di nebbia densa | Habita in sommo de più alti monti».
  • 17a. «Questo che mi ricopre»: descrive più minutamente quale sia il velo de la gelosia.
  • 17b. «onde traluce»: per dimostrar ch'i pensieri traspaiono al geloso, quasi per vela.
  • 21a. «Hor qual piropo»: per significatione del piacere o de l'ira, per dimostrar l'altre passioni de l'animo che son congiunte con la gelosia, e quasi effetti di lei.
  • 23a. «Nè puoi certo affermar»: perchè ne la gelosia non è certezza alcuna, ma tutte le cose son dubbie.
  • 24. «E di color sì vari anco son l'ale»: finge la gelosia alata, come si finge Amore, perch'altrimenti non potrebbe seguitarlo in ciascuna parte, e ciò dimostra ch'i pensieri e i sospetti del geloso sian velocissimi.
  • 25a. «Gli homeri ho alati»: descrive come sian l'ali de la gelosia, cioè simili a quelle di Mercurio e d'Amore, ma occhiute, come quelle d'Argo, per dimostrar ch'il geloso ha cento occhi ne' suoi sospetti.
  • 29. «Pronta e veloce son, più che non credi»: perchè la velocità e la vigilanza del geloso spesse volte è tenuta occulta non altrimenti che sian gli amori de la persona di cui s'ha gelosia.
  • 31. «Leve fanciul, che fora un tardo veglio»: è detto ad imitatione d'OVIDIO ne libri de l'Arte d'Amore, dove c'insegna ch'i sospetti e l'emulationi de' rivali son cagioni che l'amor ringiovenisca. I versi son questi: «Dum cadat in laqueos, captus quoque nuper, amator | solum se thalamos speret habere tuos; | Postmodo rivalem partitaque foedera lecti | sentiam: has artes tolle, senescet amor. | Tunc bene fortis equus reserato carcere currit, | cum, quos pratereat quosve sequatur, habet | Quoslibet extinctos iniuria suscitat ignes: | en ego, confiteor, non nisi laesus amor».
  • 33a. «Questa, c'ho ne la destra»: la gelosia ha il flagello di spine per dimostrar quanto siano acute e pungenti le passioni d'Amore, de le quali dice CATULLO: «Spinosas Ericina serens in pectore curas».
  • 35. «Ben ho la sferza ancor d'empi serpenti»: significa la «sferza de' serpenti» le morti, de le quali alcuna fiata è cagione la gelosia.
  • 36a. «Fatta, e 'nfetta»: scherza sovra questi nomi, l'ultimo de' quali è di molte significationi, quasi la gelosia fosse cagione di frastornar le cose fatte, come le nozze et i matrimoni in questa guisa «Facta infecta facit», ch'in altro significato è tenuta per cosa impossibile. Laonde, «Hoc uno privatur Deus facta infecta facere». Nè ripugna a le cose dette la favola di Teseo o di Bireno, che non uccisero Arianna et Olimpia, perch'il lasciarle in un'isola deserta, quasi in preda a le fere, è simile a la morte, benché dapoi ne succedesse ancora la morte di Bireno.
  • 40a. «Mia, non d'Amor»: ripugna a quello che nel Fedro dice Lisia, appresso PLATONE, de l'invidia de l'amante. Ma si dee intender che l'invidia non è immediatamente compagna d'Amore, ma col mezo de la gelosia. Segue dunque l'invidia la gelosia, la qual segue l'amore.
  • 41a. «Non son l'Invidia no»: mette la differenza tra l'invido et il geloso, tra le quali è principalissima, chè noi portiamo invidia a' nemici, ma siam gelosi de l'amante. L'altre cose si dicono poeticamente.
  • 49a. «Me produsse la tema»: dice quali siano i genitori de la gelosia, cioè [49b] «l'Amore» e [49a] la timidità, perch'ella altro non è che timore per la cosa amata. La nutrice è la [50] «cura», cioè il pensiero, perchè pensando s'accrescono tutte le passioni.
  • 55a. «e 'l cibo ancor»: è detto per assicurar le donne dal soverchio spavento, mostrando che de l'altro, quantunque se ne possa pascere, non ha diletto, perchè il geloso è ancora amante, come si legge d'Herode: «Vuoi veder in un cor di letto e tedio | Dolce et amaro; hor mira il fiero Herode | Ch'Amore e Gelosia gli han posto assedio».
  • 57a. «Di pianto ancor mi cibo»: cibo parimente d'Amore, come dice il PETRARCA: «Ch'io mi pasco di lagrime, e tu 'l sai». O vuole accennare che de la gelosia non cresciuta è cibo il pianto, ma de la cresciuta il sangue.
  • 58a. «E per dubbio m'avanzo»: dimostra l'altre proprietà de la gelosia, la qual può esser vero sospetto e di falso; e de l'uno e de l'altro s'afflige, nè lascia l'impressione di leggeri, ma tiene il geloso in continua incertitudine et in diverse sollecitudini. Ma potrebbe alcuno dubitare perchè discordi il poeta LORENZO DE' MEDICI, il quale con pochi altri ragionò de la gelosia, dicendo «Nel primo tempo, che Chaos antico | Partorì il figlio suo diletto Amore, | Nacque questa maligna Dea, ch'io dico | Nel medesimo parto venne fore. | Giove, padre benigno al mondo amico, | La relegò tra l'ombre inferiore, | Con Pluton, con le Furie, e stiè con loro, | Mentre regnò Saturno, e l'età d'oro». Al che rispondo non esser convenevole che la gelosia dica male di se stessa, quantunque quella del sig[nor] LORENZO sia bellissima poesia. Hebbe adunque il Poeta riguardo al decoro de la persona introdotta. Oltre a ciò, s'intendiamo de la gelosia de gli stati, non è molto discorde da l'altra opinione, perchè mentre Giove consentì che 'l padre regnasse, gelosia, nata dal timore di perdere il regno, fu rilegata ne l'Inferno.
  • 65a. «Sempre erro»: non perchè sempre i sospetti sian falsi, ma perchè la gelosia tiene altrui in continuo movimento. O vuol dimostrar ch'ella non sia mai senza qualche errore, etiandio ne le cose certe.
  • 69a. «Tal è mia qualità»: si volge a' Principi et a gli altri ch'erano spettatori.
  • 73a. «Perchè, s'avien»: l'officio de la gelosia è di tener gli huomini desti. Però gli è data questa cura ancora ne gli spettacoli.
  • 79a. «Ma vien chi mi discaccia»: non so s'intende per la fede, o d'altra persona introdotta a ragionare.

CLVII

Mostra di riconoscer la sua Donna in maschera, benchè fosse ignobilmente vestita.

Chi è costei, ch'in sì mentito aspetto
Le sue vere bellezze altrui contende,
E 'n guisa d'huom ch'a nobil preda intende,
4Occulta va sott'un vestir negletto?
Se 'l ver meco ne parla un novo affetto
Ch'in virtute d'Amor ragiona e intende,
Quest'è colei ch'invola i cori e prende
8Mill'alme, aprendo ogni più chiuso petto.
E ben veggio hor, come soave e chiara
Mova la vista insidiosa e 'l suono
11Che produce fra noi sonno ed oblio.
Aspro costume in bella Donna e rio,
Che dentro al regno sol d'Amor s'impara:
14Voler di furto il cor, s'io l'offro in dono.

  • 1a. «Chi è costei»: è detto non solo con interrogatione, ma con maraviglia.
  • 1b-2. «ch'in sì mentito aspetto | Le sue vere bellezze altrui contende»: cioè cela, perchè le cose celate son quasi negate.
  • 3a. «E 'n guisa d'huom»: perch'è costume de gli huomini ammascherati il vestir d'habiti grossi.
  • 5a. «Se 'l ver meco ne parla»: mostra di riconoscerla.
  • 6. «Che 'n virtute d'Amor ragiona e intende»: significa il parlare interno, il quale è l'istesso che l'intendere.
  • 9a. «E ben veggio»: questi sono i segni a' quali è riconosciuta.
  • 12a. «Aspro costume»: il primo è furto fatto a Monsig[nor] DE LA CASA, ma acutissimamente soggiunge: [14] «Voler per furto», e parlando del furto amoroso, commette il furto poetico, ch'è più lecito.

CLVIII

Dice di non haver conosciuta la sua Donna in maschera a gli occhi abbagliati dal soverchio lume.

Eran velati i crespi e biondi crini
E 'l bel vermiglio e 'l candido colore,
E la bocca che spira un dolce odore,
4Fra perle orientali e fra rubini;
E breve spatio dentro a' suoi confini
Rinchiudea maestà, gratia et honore,
E solo in voi si discopriva Amore
8E da voi saettava, occhi divini.
E tanto m'abbagliò la vista ardita,
Che pien di maraviglia e pien d'oblio,
11Non conobbi lo stral, nè la ferita.
- Lasso, deh, chi m'inganna (allhor diss'io),
Lumi sereni de la oscura vita:
14S'erro, vostra la colpa, e 'l danno è mio. -

  • 1-3. «Eran velati i crespi, e biondi crini | E 'l bel vermiglio, e 'l candido colore, | E la bocca»: o è Sylepsis, figura così chiamata, o «velati» dice metaforicamente per coperti, trasportando il nome da una specie di ricoprire a l'altra.
  • 5a. «E breve spatio»: quello ch'era coperto da la maschera.
  • 9. «E tanto m'abbagliò la vista ardita»: «ardita» la chiama, perchè troppo vitiosamente cercava di riconoscerla.
  • 12a. «Lasso, deh m'inganna»: affettuosa dimanda e piena di maraviglia, parendogli che la luce che discuopre tutte le cose, non possa esser cagione d'errore. Avvegnache ciò sia proprio de le tenebre ne le quali le cose non sono riconosciute.

CLIX

Nel medesimo soggetto.

Quel dì, che la mia Donna a me s'offerse
Sotto mentite larve, ad arte incolta,
Non la conobbi in quella guisa involta
4Quando gli occhi leggiadri in me converse.
Ch'a lo splendor fui vinto, e no 'l sofferse
L'alma ch'in lei s'è trasformata e volta;
E l'alma luce in se medesma accolta
8Ne' suoi raggi s'ascose e ricoperse.
O pur Amor, che gli rivolge in giro,
Prese nove sembianze e novi inganni,
11Volle a me far sì come a gli altri ei suole.
Era finto l'andare e i passi e i panni,
E vera la vergogna, ond'io sospiro
14Me stesso e lei, che mi fè cieco al sole

  • 1a. «Quel dì»: rende la cagione per la quale non riconoscesse la sua Donna, ad imitatione di DANTE, il qual disse del sole: «Che per soverchio sua figura ciela». Et de l'anima beata, disse parimente ch'era ascosa ne la luce, «Com'animal di sua seta fasciato». Avvegnache la soverchia luce, non essendo la potenza proportionata a l'obietto, in qualche modo è cagione de le tenebre.
  • 9a. «O pur Amor»: dice che può esser uno de gli altri inganni d'Amore, il qual la seppe così artificiosamente celare.

CLX

Descrive come apparisse la sua Donna in una festa piena di maschere con molti torchi davanti.

Era la notte, e sotto il manto adorno
Si nascondeano i pargoletti Amori,
Nè giamai ne l'insidie i nostri cori
4Hebber più dolce offesa e dolce scorno;
E mille vaghi furti insino al giorno
Si ricoprian fra tenebrosi horrori,
E con tremanti e lucidi splendori
8Mille imagini false errando intorno;
Nè 'l seren puro de la bianca luna
Nube celava od altro oscuro velo,
11Quando alta Donna in lieto choro apparve,
Et illustrò con mille raggi il cielo,
Ma quelle non sparir con l'aura bruna:
14Chi vidde al sol più fortunate larve?

  • 1a. «Era la notte»: ad imitatione di quelle parole di VIRGILIO «Nox erat».
  • 1b-2a. «e sotto il manto adorno | Si nascondeano»: perch'era alquanto oscura e però pareva favorevole a l'Amore.
  • 5a. «E mille vaghi furti»: intende solo de' furti amorosi.
  • 7a. «E con tremanti»: de' torchi e de le lanterne.
  • 8a. «Mille imagini false»: cioè maschere.
  • 9a. «Ne 'l seren puro»: de la luna scema.
  • 11a. «Quando alta Donna»: per rispetto de le persona, o de la dignità.
  • 13a. «Ma quelle»: cioè l'imagini false e le maschere.
  • 14. «Chi vide al sol»: chiama «sol» la sua Donna e [14] «larve» le maschere.

CLXI

Descrive la sua Donna la quale portava la maschera attaccata ad un velo di cui era vestita.

Nudo era il viso, a cui s'aguaglia in vano
Opra di Fidia o già per fama intesa
Quella, a cui vita fu la fiamma accesa,
4E nuda ancor la bella e bianca mano.
Et ella dir parea: - Dal Ciel sovrano
Per meraviglia sono a voi discesa
E l'imagine porto al vel sospesa,
8Perc'ho in vece di larva, aspetto humano.
E per temprare i raggi e 'l vago ardore
Chiudea gli occhi et apriva, et era in tanto
11Cortese il sonno, e più cortese Amore.
Cortese il suo bel velo e 'l caro guanto;
Nè sol cortese, ma pietoso il core
14Ne l'altrui riso: hor che sarà nel pianto?

  • 1-2a. «Nudo era il viso, a cui s'aguaglia in vano | Opra di Fidia»: statua di Fidia, fra le quali è celebratissima quella di Minerva fatta in Atene.
  • 2b-3a. «o già per fama intesa | Quella»: traspositione; «quella» è intesa per fama, et intende il Poeta de la statua di Prometeo.
  • 5a. «Et ella dir parea»: pareva che dicesse «sono una Dea, la qual porto questa humanità in vece di maschera», bastando il volto de gli huomini a coprir la verità senza altra larva. Descrive un vaghissimo atto de la Gentildonna, la qual mostrava d'haver sonno, e spesso serrava gli occhi e poi li riapriva.
  • 12. «Cortese il suo bel velo, e 'l caro guanto»: perchè l'uno lasciava scoperti gli occhi, l'altro la mano.
  • 13. «Nè sol cortese, ma pietoso il core»: era pietà il non voler ingannevolmente prender d'amore l'anime vaghe de la sua bellezza.

CLXII

Dichiara come la bellezza sia cresciuta con la similitudine del fiore che spiega le foglie, e del sole ch'è nel mezo giorno.

Già solevi parer vermiglia rosa
Ch'a' dolci raggi, a lo spirar de l'ora
Rinchiude il grembo, e nel suo verde ancora,
4Verginella s'asconde, e vergognosa.
O mi sembravi pur, chè mortal cosa
Non s'assomiglia a te, celeste Aurora,
Che le campagne imperla e i monti indora,
8Lucida in ciel sereno, e rugiadosa.
Ma nulla a te l'età men fresca hor toglie,
Nè beltà giovenile in manto adorno
11Vince la tua negletta, o la pareggia.
Così più vago l'odorate foglie
Il fior dispiega, e 'l sole a mezo il giorno
14Via più che nel mattino arde e fiammeggia.

  • 1a. «Già solevi parer»: ne la sua virginità fu simile a rosa non aperta.
  • 5a. «O mi sembravi pur»: parendo al Poeta che la similitudine non bastasse, l'assomiglia a l'[6] Aurora.
  • 9a. «Ma nulla a te»: loda particolare de la bellezza di questa Donna.
  • 12a. «Così più vago»: prova con due similitudini come ciò possa avenire.

CLXIII

Desidera di veder la sua Donna, ancorchè turbata.

D'aria un tempo nudrimmi: e cibo e vita
L'aura mi fu, che d'un bel volto spira;
Hor che lei mi contende orgoglio ed ira,
4Di qual esca sarà l'alma nudrita?
I famelici spirti in vano aita
Chiamano, e 'ndarno il cor langue e sospira.
Ma se pur l'empia a darle morte aspira,
8Muoia non per digiun, ma per ferita.
Armi gli occhi di sdegno e strali aventi
A mille a mille; a' feri colpi, ignuda,
11Io porgo l'alma, non ch'inerme il seno.
Faccia il mio stratio i suoi desir contenti:
Ben fia pietà ch'io la riveggia almeno
14Non dico pia, ma disdegnosa e cruda.

  • 1a. «D'aria un tempo nudrimmi»: è detto per eccitar maraviglia, come quello «Un vive ecco d'odor là su il gran fiume | Io qui di foco e lume | Queto i vaghi e famelici miei spirti». E s'assomiglia in ciò al camaleonte, il quale si nudrisce d'aria (come si dice) e molto convenevolmente è preso per significare il cortegiano, come scrive PLUTARCO. Ma per «aura» il Poeta allegoricamente intende le vane speranze de le quali si nudriscono i cortegiani e gli amanti similmente.
  • 3a. «Hor che lei mi contende»: dubita di qual cibo possa nudrirsi, mancandogli la speranza.
  • 8. «Moia non per digiun, ma per ferita»: chiama «digiuno» la privatione de la vista, e «ferite» i turbati sguardi de la sua Donna.
  • 9. «Armi di sdegno»: esprime affettuosamente il gran desiderio c'ha di vederlo in qualunque modo.

CLXIV

Ne l'infermità e ne la convalescenza de la sua Donna.

Roche son già le cetre e muti i cigni
Al languir vostro, e secco il lauro e 'l mirto,
E con languidi rai pallide stelle,
E l'alba in manti oscuri od in sanguigni;
E più si duole ogni gentile spirto,
E son discordi i venti e le procelle,
E par ch'aspetti di sì breve guerra,
Il cielo un novo sole, un fior la terra.
Ride la terra e ride il ciel sereno,
E rota il sol via più lucenti raggi,
E l'imagine bella appar ne l'onde;
E rallentando i fiumi al corso il freno,
Cessan l'ire de' venti e i fieri oltraggi,
Per ch'alloro non perda o ramo o fronde;
E con la vostra pace, ha pace in tanto
Il mare e l'aria, e tregua il duolo e 'l pianto.

  • 1a. «Roche son già le cetre»: con la vostra infermità le cose de l'arte e de la natura insieme sono peggiorate, quasi il mondo si doglia del vostro male. È detto affettuosamente perchè tutte le cose giudichiamo co 'l nostro affetto.
  • 9a. «Ride la terra»: ne la salute ricuperata descrive i contrari effetti, imitando que' poeti c'hanno descritte simili maraviglie, per la presenza e per l'absenza de la sua Donna, perchè la morte è una sorte d'absenza, sì come la vita di presenza. Ma particolarmente imita TEOCRITO ne l'ottavo Idillio. I versi imitati son questi: «Παντᾶ ἔαρ, παντᾶ δἔνομοὶ παντᾶ δἓ γάλαχτος | Οὔθατα πλήθουσιν, χαὶ τὰ νέα τρεφεται, | Ἕνθ᾿ ἁ καλὰ παῖς σπινίοσεται αι δ᾿ Θυαφέρπη | Χ᾿ ὠποιμαν᾿ ξηρὸς τιωόθι, χαί βοταναι».

CLXV

Descrive come andando per vedere uno incendio notturno s'accendesse d'amoroso fuoco.

Ardeano i tetti, e 'l fumo e le faville
Rote faceano, e tenebrosi giri:
E 'ntanto io spargea fuor caldi sospiri
4Al ribombar de le sonore squille.
Quando sembianze placide e tranquille
L'alto incendio destar de' miei desiri;
Et hor dovunque gli occhi o 'l piede io giri
8Miro i bei raggi sparsi a mille a mille.
Così presagio d'amoroso ardore
Fu quel notturno foco, e la mia fiamma,
11Già mancando l'altrui, s'accese e crebbe;
Nè d'avampar, nè di pregar m'increbbe:
Sì piace il modo onde un sol petto infiamma
14Con tante faci e con nova arte Amore.

  • 1-2a. «Ardeano i tetti, e 'l fumo, e le faville | Rote faceano»: esprime l'effetto che fanno insieme il fumo e la fiamma ne l'inalzarsi, ad imitatione di VIRGILIO: «Flammarum attollit globos».
  • 4a. «Al ribombar»: de la campana che suona perchè la gente corra al fuoco.
  • 5a. «Quando sembianze»: quelle de la Donna amata, la quale essendo in tanto pericolo, non mostrò di spaventarsi.
  • 7-8. «Et hor dovunque gli occhi e 'l piede io giri | Miro i bei raggi sparsi a mille a mille»: le similitudini de la bellezza, le quali chiama «raggi» ad imitatione del PETRARCA, il qual disse: «In quante parti il fior de l'altre belle | Stando in se stessa la sua luce ha sparta».
  • 9а. «Così presagio»: dice che 'l fuoco notturno non fu causa del suo amore, perch'egli era prima innamorato, ma presagio.
  • 10b-11. «e la mia fiamma | Già mancando l'altrui, s'accese e crebbe»: cioè il mio amore, il qual a pena era cominciato, s'accese in guisa che non m'increbbe nè d'ardere, nè di pregare, tanto era il piacere ch'io sentiva ne l'amare.

CLVI

Nel medesimo soggetto.

Tra l'empie fiamme a gli occhi miei lucente
La mia sì bella appare, e sì pietosa,
Come al partir d'oscura notte ombrosa,
4Vidi purpurea luce in oriente.
O come al tempo già di Troia ardente
Helena tacque sospirando ascosa,
Che le faci infiammò, rapita sposa,
8Piena la terra e 'l mar di fera gente.
Sante luci del ciel, non faccia oltraggio
Ingiurioso foco al biondo crine,
11Od a le rose in lei ch'invidia il maggio,
Nè strugga le sue bianche e fresche brine;
E s'in me pur s'accende il dolce raggio,
14Non s'estingua il mio foco anzi il mio fine.

  • 1a. «Tra l'empie fiamme»: chiama «empie» le fiamme de l'incendio e [2] «pietosa» fiamma la sua Donna per metonimia, ponendo la cagione per l'effetto.
  • 3a. «Come al partir»: assomiglia la sua Donna a l'aurora.
  • 5a. «O come al tempo»: la paragona ad Helena, di cui si leggono nel secondo de l'Eneide questi versi: «Et tacitam secretam in sede latentem | Tindaridam aspicio dant clara incendia lucem». Ma il paragone non si stende oltra questa parte, perchè non è necessario che risponda a tutte le parti.
  • 7. «Che le faci infiammò, rapita sposa»: ha risguardo a quelle parole del sesto: «Flammam media ipsa tenebat | Ingentem, etc.».
  • 9a. «Sante luci del ciel»: affettuosa conversione al cielo, per la salute de la sua Donna.

CLXVII

Loda il petto de la sua Donna.

Non son sì vaghi i fiori onde Natura,
Nel dolce april de' begli anni sereno,
Sparge un bel volto, come in casto seno
4È bel quel che di luglio ella matura.
Meraviglioso grembo, horto e coltura
D'Amor e paradiso mio terreno,
L'ardito mio pensier, chi tiene a freno,
8Se quello onde si pasce a te sol fura?
Quei, ch'i passi veloci d'Atalanta
Fermaro, o che guardò l'horribil Drago,
11Son vili al mio pensier ch'ivi si pasce.
Nè coglie Amor da peregrina pianta
Di beltà pregio sì gradito e vago:
14Sol nel tuo grembo di te degno ei nasce.

  • [2]. «april» de gli anni chiama la gioventù, [4] «luglio» l'età matura, o più tosto matura viro, ne la quale si cogliono i frutti d'Amore.
  • 5b. «horto e coltura»: havendo assomigliato le mammelle a' pomi, chiama il seno, per metafora, giardino.
  • 6. «e paradiso mio terreno»: convenevolmente, perch'il peccato de l'huomo intemperante o incontinente è simile a quello del primo padre, per lo qual fu cacciato di Paradiso, avvegnache l'intemperanza, o l'incontinenza, sia eguale ne gli oggetti de l'un senso e de l'altro.
  • 9. «Quel, ch'i passi veloci d'Atalanta»: Atalanta, correndo con Hippomenes, si fermò di colpo per raccoglier i pomi, o le palle d'oro, come dice il PETRARCA:«E seco Hippomenes che fra cotanta | Turba d'amanti e miseri cursiori, | Sol di vittoria si rallegra e vanta».
  • 10a. «o che guardò l'horribil Drago»: i pomi de l'Hesperidi, a le quali faceva la guardia il dragone.
  • 13a. «Di beltà pregio»: ha risguardo al pomo d'oro che fu dato da Paride per premio de la bellezza, quando egli fu eletto per giudice de le tre Dee.

CLXVIII

Accenna la cagione per la quale egli lontano da la sua Donna non sol conserva, ma accresce l'amore.

Amai vicino, hor ardo, e le faville
Porto nel seno, onde s'infiamma il foco;
E non l'estingueria tempo nè loco,
4Bench'io cercassi mille parti e mille.
Chè nel vago pensier, luci tranquille,
Più l'accendete, e voi di ciò cal poco;
E le mie piaghe ancor prendete a gioco
8Con quella bianca man, che sola aprille.
Nè lontananza oblio m'induce al core,
Ne i più colti paesi, o più selvaggi,
11Ma tenace memoria e fero ardore.
Perchè v'adombro in lauri, in mirti e 'n faggi:
L'altre bellezze, ove m'insidia Amore,
14Sono imagini vostre, e vostri raggi.

  • 1-2a. «Amai vicino, hor ardo, e le faville | Porto nel seno»: cioè i semi de l'amore, o per così dire, il fomite de la concupiscenza.
  • 5. «Chè nel vago pensier, luci tranquille»: la cagione di conservar e d'accrescer il desiderio è il pensiero col quale se l'imagina piacevole: là dove con gli occhi del corpo soleva già vederla turbata.
  • 9a. «Nè lontananza»: non è dunque sempre la lontananza certo rimedio a l'amorosa infermità. Ma solo quando l'amante non si dà in preda a l'imaginatione.
  • 12a. «Perchè v'adombro»: ad imitatione del PETRARCA «...e quanto in più selvaggio | Loco m'affido, e 'n più remota parte; | Tanto più bella il mio pensier l'adombra».
  • 14. «Sono imagini vostre, o' vostri raggi»: imita quegli altri «Ma l'imagini sue son si cosparte | [...] | Ch'io trovo simile indi accesa luce».

CLXIX

Dimostra i diversi fini ch'egli ha havuti nel cantare e nel piangere.

Cantai già lieto, e ricercai nel canto
Gloria più cara a me che l'oro a Mida;
Hor piango mesto, e 'n dolorose strida
4Chiedo pietà via più d'honore e vanto.
Donna, che se mai piangi il dolce pianto
Accende Amor, bench'ei vi scherzi e rida,
E tra rugiade e fior lieto s'assida
8A l'ombra d'un bel velo e d'un bel manto,
De' begli occhi una stilla a le mie rime
Sarebbe caro pregio, alta ventura,
11Ond'elle ancor n'andriano altere e prime.
Chè pianta non distilla ambra sì pura
Nè freddo monte in su l'alpestre cime,
14Sì bel cristallo e pretioso indura.

  • 1a. «Cantai già lieto»: ad imitatione del PETRARCA, il qual disse: «…Cantai, hor piango», et in ciò gli è simile; dissimile in quel che segue: «….e non men di dolcezza | Dal pianger prendo, che dal canto io presi». La cagione de la diversità sono i diversi obietti, propostisi dal Poeta. Cioè nel canto la gloria e nel pianto la pietà, la qual si manifesta col pianto. Però chiede quasi per premio del suo pianto de la sua Donna, antiponendolo al cristallo et a l'elettro.

CLXX

Loda le bellezze de la sua Donna con meravigliose similitudini del lauro e de le sue proprietà.

Sorgea, per meraviglia, un vivo lauro
Tutto securo dal furor del cielo,
Con l'auree fronde e con pungenti rami,
Benché molle paresse il nobil tronco;
5Ma sì ferma non fu rigida pietra,
E v'affinava Amor gli aurati strali.
Dove aguzzava, ei vi spuntò gli strali
Senza passar la scorza al dolce lauro
E 'l diaspro stimò più molle pietra;
10E disse: - È meglio saettar nel cielo
Ch'in questo così vago e chiaro tronco,
Ch'ombra mi fa co' suoi frondosi rami. -
Paiono augelli infra gli ombrosi rami
Vaghi Amoretti, e con acuti strali
15Fanno i lor dolci nidi in mezo al tronco,
O pur com'api in quel vivace lauro;
E tanti son quanti le stelle in cielo;
E ciascun passerebbe un cor di pietra.
Tante faville ancor di viva pietra
20Non uscir mai, quante da' vaghi rami,
e tutte somigliar lumi del cielo.
E se 'l percote Amor con gli aurei strali,
Vedreste fiammeggiar d'ardente lauro
Via più che selce ripercossa il tronco.
25Ne l'arabico mar s'asconde un tronco
Verde ne l'acque e fuor si volge in pietra;
e serba i suoi colori il verde lauro
Che più s'inaspra, ove le fronde e i rami
Men duri assai de' miei pungenti strali,
30Alzandosi da l'acque, ei mostra al cielo.
Tal sovra queste rive, e 'n questo cielo
Questo maraviglioso e novo tronco,
Che non cura d'Amor l'arco e gli strali,
In mezo al mar del pianto è fredda pietra;
35E 'ndura al lacrimar le foglie e i rami
Ove non toccan l'onde il verde lauro.
Quanti la pianta ha rami, Amore ha strali
E raggi il sole; e del mio lauro il tronco
Risplende più, ch'al ciel lucente pietra.

  • 1. «Sorgea, per meraviglia, un vivo lauro»: cioè per dar meraviglia, un «vivo lauro» per significar la sua Donna, ad imitatione del PETRARCA: «Quel vivo lauro, in cui non mossen fronda».
  • 2a. «Tutto securo»: perch'il lauro non è percosso dal fulmine.
  • 3a. «Con lauree fronde»: che significano «le chiome», ad imitatione similmente del PETRARCA: «Ch'i rami di diamante, e d'or le chiome», o scherza col doppio significato, come il PETRARCA: «Battendo l'ali inverso l'aurea fronde».
  • 6a. «E v'affinava»: finge poeticamente ch'Amore agguzzasse le saette nel tronco del lauro, e poi le spuntasse.
  • 8b. «al dolce lauro»: imita similmente il PETRARCA, il quale il chiamò «dolce», per distinguerlo da tutti gli altri che sono amari.
  • 10. «E disse: È meglio saettar nel cielo»: è detto per mostrar che la castità di Laura era maggiore che quella de gli Dei favolosi.
  • 13-14a. «Paiono augelli infra gli ombrosi rami | Vaghi Amoretti»: è imitatione di TEOCRITO, nel decimoquinto Idilio intitolato Siracusane, nel quale egli finge che gli Amori volassero sopra le foglie de l'aneto, come usignoli tra le frondi d'un alt'albero. I versi imitati son questi: «Δέ δ μανθ᾿ οἱ δέ τε κῶροι ὑπερ ποτωντα εἴροτες | Οἷ αηδονιῆες ἀεξομένων ὠτ δενδων».
  • 16a. «A guisa d'api»: TEOCRITO paragonò gli Amori a gli usignoli, il TASSO a l'api per rispetto de l'ago, come paragonò l'istesso Poeta in un altro suo picciol poema nel qual finge ch'Amore, furando il mele, sia punto da l'ape.
  • 16b. «in quel vivace lauro»: perchè l'api fanno le celle ne' tronchi de gli alberi, come oltre ARISTOTELE racconta il GIOVIO ne le cose di Moscovia.
  • 17a. «E tanti son»: nel numero dimostra quanti sian gli amorosi desideri.
  • 19a. «Tante faville»: accenna la proprietà del lauro già narrata di sopra.
  • 25a. «Ne l'arabico mar»: di questo lauro, il qual si petrifica nel golfo de gli Heroi, scrive TEOFRASTO ne l'Historia de le piante e 'l MATTIOLO tra' moderni.
  • 31a. «Tal»: fa comparatione del lauro petrificato con la sua Donna.
  • 37a. «Quanti la pianta»: raccoglie quasi in epilogo i concetti detti prima, non solamente le parole.

CLXXI

Parla del suo amore sotto metafora di fuoco e de la sua Donna sotto quella de l'aura.

Poi che non spira al mio soave foco,
Amor, come solea, placida l'aura,
Chi temprerà questa amorosa fiamma?
Qual troverò solinga e chiara fonte,
5Cinta di lauri, o quale ombroso rivo,
Mentre io mi sfaccio a sì lucenti raggi?
Ahi, soavi ben furo e dolci i raggi
Ch'acceser già ne l'alma il dolce foco,
Struggendo il gelo interno in caldo rivo,
10E movendo i sospiri a guisa d'aura,
Mentre d'ogni pietà la viva fonte
Diè qualche refrigerio a tanta fiamma.
D'Etna somiglia pur l'accesa fiamma
O di Fetonte travïato i raggi,
15Quando s'ascose ne l'occulto fonte
Il Nilo, per fuggir l'ardente foco;
Nè da l'Istro o dal Reno, o vento od aura
Soffiar potea, non che da secco rivo.
Che giova, oimè, versar nel seno un rivo
20Se cresce al suo stillar la crudel fiamma,
E de' lamenti miei s'accende a l'aura?
Se non manca homai l'esca a questi raggi,
Io fontana sarò di vivo foco,
Nè mi varrà ch'io mi converta in fonte.
25Perchè la dolce mia tranquilla fonte
Più non mi scampi, o fiume algente o rivo,
Fuggirò il foco in mezo al novo foco
E le mie fiamme struggerà la fiamma
Che nacque in me da gli amorosi raggi,
30Mentre io gioiva, il seno aprendo a l'aura.
O lauri, o palme, ove giacendo a l'aura
Per dolcezza languiva, o bella fonte
In cui già viddi tremolare i raggi,
O solitaria chiostra, o vago rivo,
35S'io trovo ancor quella mia cara fiamma,
Tra i fiori e l'herbe, ov'è sparito il foco?
O s'estingua il mio foco, o spiri l'aura,
O s'adombrino i raggi, o cresca il rivo,
E se scalda la fiamma, instilli il fonte.

  • 1. «Poi che non spira al mio soave foco»: al mio ardente desiderio.
  • 2. «Amor, come solea, placida l'aura»: cioè il favor de la sua Donna, o per disdegno o per altra cagione.
  • 3a. «Chi temprerà»: qual altra donna, overo in qual parte solitaria potrò ritirami per intepidire il mio amore.
  • 7. «Ahi, soavi ben furo e dolci i raggi»: chiama «raggi» gli sguardi de la sua Donna, ch'accesero il suo amore, e lei medesma fonte di pietà.
  • 13a. «D'Etna somiglia»: assomiglia il suo amore a l'incendio d'Etna et a quel di Fetonte, il qual chiama [14] «traviato», perchè nel carreggiare uscì del zodiaco, detto altrimenti il cerchio de gli animali, per lo quale il sole si move continuamente.
  • 15. «Quando s'ascose ne l'occulto fonte»: leggi di ciò OVIDIO, nel secondo de le Trasmutationi.
  • 19a. «Che giova, oimè»: dimostra come il suo amore più s'accenda con la similitudine de la fiamma che s'accresce per vento, e del ferro infocato che più s'infiamma per l'acqua spruzzata.
  • 22a. «Se non manca homai l'esca»: cioè il nutrimento de' miei pensieri, havendo assomigliato il suo incendio ad Etna, convenevolmente soggiunge: [23]:
  • 23. «Io fontana sarò di vivo foco»: ad imitatione di PINDARO, il qual disse: «Ταῖ ερενγνονται μέν απλα | Του τυρὸς ἁγνόταται | Ἐκ μιχῶν παγαι»
  • 27-28. «Fuggirò il foco in mezo al novo foco | E le mie fiamme struggerà la fiamma»: ad imitatione d'AUGUSTO, in que' versi [d.].
  • 31a. «O lauri»: affettuosa conversione.
  • 35b. «quella mia cara fiamma»: il mio amore, o la mia amorosa poesia.
  • 36b. «ov'è sparito il foco»: cioè la mia Donna.
  • 37a. «O s'estingua il mio foco»: desidera o che 'l suo amore habbia fine, o che la sua Donna gli sia pietosa.

CLXXII

Parlando con Amore dice che l'amor honesto non dee esser celato, ma solamente il lascivo.

Huom di non pure fiamme acceso il core,
Che lor ministra esca terrena immonda,
Chiuda il suo foco in parte ima e profonda,
4E non risplenda il torbido splendore.
Ma chi infiammato di celeste ardore
Purga il pensier in viva face e 'n onda,
Non è ragion che le faville asconda
8Senza parlar, nè tu 'l consenti, Amore.
Chè s'altri, tua mercè, s'affina e terge,
Vuoi ch'il mondo il conosca, et indi impare
11Quanto in virtù di que' begli occhi hor puoi.
E s'alcun pur il cela, insieme i tuoi
Più degni fatti in cieco oblio sommerge,
14E de l'alte tue glorie invido appare.

  • 1a. «Huom di non pure fiamme»: fiamme «non pure» chiama, per traslatione, l'amor non legitimo, non sincero, non honesto.
  • 2. «Che lor ministra esca terrena immonda»: «esca» e nutrimento de l'Amore sono i pensieri lascivi.
  • 3a. «Chiuda il suo foco»: il suo desiderio nel cuore. Simile a quello: «Quando giunge per gli occhi al cor profondo».
  • 4. «E non risplenda il torbido splendore»: cioè non si mostri a segno alcuno la perturbatione de l'animo: imperochè il fuoco d'amore perturbato da l'essalationi de la carne è simile a la fiamma mescolata co 'l fumo.
  • 5. «Ma ch'infiammato di celeste ardore»: d'Amor celeste: perchè due sono gli Amori, come abbiamo detto.
  • [6]. «D'ogni macchia mortal [si purga e monda]»: perchè al fuoco et a l'acqua si conviene il purgare. Laonde convenevolmente assomiglia l'animo che ne l'amor si purifica, a l'oro, che s'affina nel fuoco.
  • 9. «Che s'altri, tua mercè»: l'amor virtuoso si dee manifestar per buono essempio.
  • 14. «E de l'alte tue glorie invido appare»: chiama «glorie» d'Amore gli hinni, gli encomi e le laudi de' poeti, e forse per Amore intende la sua Donna, come intese il PETRARCA: «Più volte Amor m'havea già detto: Scrivi, | Scrivi quel che vedesti in lettre d'oro». Laonde a lei converte affettuosamente il parlare.

CLXXIII

Invita ciascuno a contemplare la bellezza e l'armonia de la sua Donna.

Aprite gli occhi, o gente egra mortale,
In questa saggia e bella alma celeste,
Che di sì pura humanità si veste,
4Ch'a gli angelici spirti è in vista eguale.
Vedete come a Dio s'inalza, e l'ale
Spiega verso le stelle ardite e preste;
Com'il sentier v'insegna, e fuor di queste
8Valli di pianto al Ciel s'inalza e sale.
Udite il canto suo, ch'altro pur suona
Che voce di Sirena, e 'l mortal sonno
11Sgombra de l'alme pigre, e i pensier bassi.
Udite come d'alto a voi ragiona:
- Seguite me, ch'errar meco non ponno,
14Peregrini del mondo, i vostri passi. -

  • 1. «Aprite gli occhi, o gente egra mortale»: figura detta zeugma da' Latini, simile a quella «pars in frustra secant»ne le quali il nome, che dicono collettivo, del numero del meno s'accorda con quel del più. Fu questa figura usata parimente da DANTE, quando egli disse: «Supin giacer parea alcuna gente».
  • 2. «In questa saggia e bella alma celeste»: intende adunque de gli occhi de la mente, de' quali sono oggetto le bellezze de l'anima.
  • 3a. «Che di sì pura humanità»: quasi oltre il peccato originale non n'habbia alcun altro.
  • 4. «Ch'a gli angelici spirti è in vista eguale»: «in vista», cioè ne l'apparenza: ma sono cose dette da l'un poeta per soverchia vaghezza, da l'altro per soverchio studio d'imitatione e deono esser o ben corrette o ben interpretate.
  • 5a. «Vedete come a Dio s'inalza»: cioè con gli occhi intellettuali.
  • 5b. «e l'ale»: l'ale, come habbian detto, son le virtù.
  • 8a. «Valli di pianto»: chiama il mondo.
  • 9a. «Udite il canto suo»: molto diverso da quello de le Sirene, perchè quello addormentava, questo desta gli ingegni dal pigro sonno, cioè da l'ocio.
  • 13a. «Seguite me»: perchè quella de la musica è una de le tre vie per le quali l'anima ritorna al cielo, per opinione d'alcuni filosofi, come appresso diremo più distintamente.

CLXXIV

Scrive ad un Cavaliero suo amico, lodando un suo libro d'Amore.

Ch'il pelago d'Amor a solcar viene,
In cui sperar non lice aure seconde,
Te prenda in duce, e salvo il trarrai, donde
4Huom rado scampa a le bramate arene.
Tu le Sirti, le Scille e le Sirene,
E qual mostro più fero entro s'asconde,
Varchi a tua voglia, e i venti incerti e l'onde,
8Qual nume lor, con certe leggi affrene.
Poi, quando accolte in porto havrà le care
Sue merci, ove le vele altri raccoglie
11E 'l tranquillo d'Amor gode securo,
Te, non pur novo Tifi o Palinuro,
Ma suo Polluce appelli, e 'n riva al mare
14Appenda al nume tuo l'humide spoglie.

  • 1. «Ch'il pelago d'Amore a solcar viene»: che tanto significa, quanto chi elegge d'amare.
  • 2. «In cui sperar non lice aure seconde»: non perchè la Fortuna non sia prospera alcuna volta ne l'amare, ma perchè non si può sperare una continua prosperità in cose tanto incostanti quanto sono la Fortuna e l'Amore.
  • 3a. «Te prenda in duce»: cioè per maestro.
  • 3b. «e salvo il trarrai, donde»: continua ne la traslatione e dimostra come sia necessario il buon nocchiero per uscir da' pericoli di Amore.
  • 5. «Tu le Sirti»: per «Sirti» intende gli impedimenti d'Amore; per [5] «Scille» i pericoli; per [5] «Sirene» gli inganni, le quali cose tutte poteva superare agevolmente con la scienza d'amare.
  • 7b. «e i venti incerti e l'onde»: non si contentando d'haverlo fatto nocchiero, il vuol deificare. Perchè questo virtuoso e gentil cavaliero fu ne la gioventù del Poeta amico suo, ne le belle e ne le buone occasioni. Ma hora non si trova più nè amico, nè guida simigliante, perochè ciascuno più si diletta di tenere oppressi gli homini studiosi, che d'operare virtuosamente, tanta è l'invidia e la malignità che regna in questo secolo corrotto. Ma questa materia di parlarne più largamente, non a la clepsidra, o ad altro horologio, se pur mai si troverà Principe tanto amico del vero, che non le spiaccia d'udirlo. Sian benedette l'anime dell'Ill[ustrissi]mo Sig[nor] Brunoro Zampeschi e dell'Ecc[ellentissi]mo Sig[nor] Paolo.

CLXXV

Scrive ad una Gentildonna mostrando che 'l difetto de l'amare non era ne la bellezza di lei, ma ne l'amor proprio.

Facelle son d'immortal luce ardenti
Gli occhi che volgi in sì soavi giri,
E fiamma è l'aura, che tu movi e spiri
4A formar chiari angelici concenti.
E qual hor più ti lagni o ti lamenti,
Foco 'l tuo pianto, e foco i tuoi sospiri,
E quanti tu, col dolce sguardo hor miri,
8E quanti rendi al dolce suono intenti.
Sol io, fra i vivi raggi, e fra le note
Onde avampa ciascun, nulla mi scaldo,
11Nè trova onde nutrirsi in me l'ardore.
Nè già son io gelido marmo e saldo,
Ma, consumato in altra fiamma il core,
14Hor che cenere è tutto, arder non pote.

  • 1a. «Facelle»: cioè atti, non altrimenti che sian le facelle ad accender il fuoco.
  • 3a. «E fiamma è l'aura»: per «aura» intende la voce e lo spirito.
  • 6b. «e foco»: in somma la cagione e tutte l'altre cose erano tali e sì fatte, che potevano infiammare gli animi.
  • 9a. «Sol io»: rende cagione perch'egli non s'accenda parimente d'amoroso desiderio.

CLXXVI

Loda Amore con insolite e maravigliose laudi, assignandoli il cielo ne gli occhi de la sua Donna et il tempio nel suo cuore.

Amore alma è del mondo, Amore è mente,
E 'n ciel per corso obliquo il sole ei gira,
E d'altri erranti a la celeste lira
4Fa le danze là su veloci o lente.
L'aria, l'acqua, la terra e 'l foco ardente
Regge, misto al gran corpo, e nutre e spira;
E quinci l'huom desia, teme e s'adira,
8E speranza e diletto e doglia ei sente.
Ma ben che tutto crei, tutto governi,
E per tutto risplenda, e 'l tutto allumi,
11Più spiega in noi di sua possanza Amore.
E come sian de' cerchi in ciel superni,
Posta ha la reggia sua ne' dolci lumi
14De' bei vostr'occhi, e 'l tempio in questo core.

  • 1a. «Amore alma è del mondo»: nuovamente è detto dal Poeta ch'Amore sia anima del mondo, de la quale sono diverse opinioni. ANAXAGORA volle che la mente fosse Iddio, ma Iddio, per opinione d'ARISTOTELE, move, come amato e desiderato: la qual opinione tocca il Poeta nel secondo verso.
  • 3. «E d'altri erranti a la celeste lira»: imita DANTE, anzi PLATONE, il quale assai prima disse: «Deus mundum tanquam cytharam concinnavit». Et prima di Platone, ORFEO nell'Hinno ad Apolline cantò: «Tu spheram totam cithara resonante contemperas».
  • 4. «Fa le danze là su veloci o lente»: segue l'opinione di PLATONE nel Timeo, ne la qual oltre molte altre parole in questo proposito, si leggono queste: «ut autem esset quaedam velocitatis illorum, tarditatisque mensura certissima omniumque, octo motuum prodiret in lucem chorea, etc.».
  • 5. «L'aria, l'acqua, la terra e 'l foco ardente»: imita VIRGILIO nel sesto de l'Eneida, dove si legge: «Principium coelum, ac terras, camposque liquentes: | Lucentemque globum lunae titaniaque, astra, | Spiritus intus alit totumque infusa per artus | Mens agitat molem, et magno se corpore miscet. | [...] Hinc metuunt, capiuntque, dolent, etc.».

CLXXVII

Prega l'eloquenza che gli plachi lo sdegno de la sua Donna.

O felice eloquenza avinta in carmi
Od in ampio sermon sciolta e vagante,
Che raffreni talhora il volgo errante
4Quando il furor ministra e fiamme et armi;
Tu, che d'ira il leon, tu che disarmi
L'angue di tosco e queti il mar sonante,
Tu che dai senso a le più rozze piante,
8E tiri, come a Tebe, i tronchi e i marmi;
Tu che nel canto ancor d'empie Sirene
Dolce risuoni altrui, perchè non pieghi
11Un cor rigido più d'aspra colonna?
Tempra come saette in mele i preghi,
E prendi l'arme de l'antica Atene
14Contra costei, ch'è scinta in treccia e 'n gonna.

  • 1a. «O felice Eloquenza»: perchè l'eloquenza è altrettanto conveniente al Poeta, quanto a l'oratore. E per testimonianza d'AMMONIO si dà un'arte comune de la poesia e de la retorica.
  • 3a. «Che raffreni talhora»: ha riguardo a que' versi di VIRGILIO: «Ac veluti in magno populo, cum saepe cohorta est | Seditio, saevitque animis ignobile vulgus. | Tum faces et saxa volant: furor arma ministrat. Tum pietate gravem, et meritis si forte virum quem | Cospexere, silent, arrectis auribus astant. | Ille regit dictis animos, et pectora mulcet».
  • 5a. «Tu, che d'ira il leon»: tocca le favole d'Arione e d'Anfione, il quale, come estima M[arco] TULLIO ne' libri de l'Inventione, fece con l'eloquenza maravigliose operationi.
  • 13a. «E prendi l'arme»: l'arme d'Atene furono l'eloquenza e la sapienza.

CLXXVIII

Prega Iddio che gli mostri la dritta strada da ritornare alla celeste patria.

Padre del cielo, hor ch'atra nube il calle
Destro m'asconde, e vie fallaci io stampo
Per questo paludoso instabil campo
4De la terrena e lagrimosa valle,
Reggi i miei torti passi ond'io non falle,
E di tua santa gratia il dolce lampo
In me risplenda; e di securo scampo
8Mostra il sentiero a cui voltai le spalle.
Deh, pria ch'il verno queste chiome asperga
Di bianca neve, o di sì breve giorno
11Copran tenebre eterne il debil lume,
Dammi, ch'io faccia al tuo camin ritorno,
Quasi vestito di celesti piume,
14Signore, e tu mi pasci, e tu m'alberga.

  • 1a. «Padre del cielo»: ad imitatione del PETRACA, quasi padre celeste, o che sei nel Cielo. Ma «Padre», per autorità di s[an] TOMASO, propriamente si dice de le creature ragionevoli, et de l'altre creature «Fattore».
  • 6a. «E di tua santa gratia»: vuol significare la gratia illuminante.
  • 9a. «Deh, pria ch'il verno»: con due metafore, l'una trasportata da la stagione, l'altra dal giorno, significa la vita.

CLXXIX

Lodando il Sig[nor] Fabio Gonzaga, mostra di spaventarsi de l'altezza de le sue lodi e di quelle che convengono a la casa Gonzaga.

Fabio, io lunge credea col basso ingegno
Sovra me stesso in voi lodando alzarmi,
Et agguagliar co' più lodati carmi
4Quel valor che di fama eterna è degno.
Ma più d'appresso, hor più sublime segno
E la gloria veggio io d'imprese e d'armi,
A cui alzarsi devrian metalli e marmi,
8Non c'humil laude. E tal s'havrebbe a sdegno.
Così maggior si scopre antica torre
Od alto monte, a chi vicino il guarda,
11E poggiar non vi puote huom lento e carco.
Però si ferma al periglioso varco
Del vostro honor la penna, e no 'l trascorre,
14Già leggiera e veloce, hor grave e tarda.

  • 3. «Et agguagliar co' più lodati carmi»: leggasi il Panegirico d'ISOCRATE, nel quale quel eccellentissimo oratore dimostra come a lo scrittore si convenga, nel lodare, agguagliare con l'oratione la grandezza de le cose lodate.
  • 5a. «Ma più d'appresso»: tutte le cose si dimostrano maggiori per la vicinanza.
  • 10a. «Od alto monte»: allude al monte Olimpo, impresa del Duca Federico [Gonzaga], avolo di questo nobilissimo cavaliero.

CLXXX

Loda il medesimo Signore confortandolo a due grandi vittorie: l'una di se stesso, l'altra de le stelle.

Signor, ch'immortal laude havesti in guerra,
Là 've i rapidi fiumi agghiaccia il verno,
In pace ancor s'acquista honore eterno
4E mano inerme apre Helicona e serra.
Tu, ne la tua famosa e nobil terra,
Deh, non haver due gran vittorie a scherno:
L'una di te, che 'l tuo nemico interno
8Puoi raffrenar quando ei vaneggia et erra;
L'altra di mia fortuna, e d'empie e felle
Luci, se 'l cielo e 'l fato ha ingiusta forza.
11Chi vide mai più gloriosa palma?
Molti vinser la terra, e tu le stelle:
Tu signoreggia il ciel, che tutto sforza,
14Rendendo vera libertate a l'alma.

  • 2a. «Là 've»: in Fiandra, dove questo nobilissimo cavaliero ha militato molti anni in servigio del Re, con molta sua laude.
  • 3a. «In pace ancor»: simile a quel del PETRARCA: «Che s'acquista ben pregio altro, che d'arme».
  • 7b. «il tuo nemico interno»: Amore, o altra somigliante passione.
  • 12a. «Molti vinser la terra»: due vittorie si convengono al savio cavaliero: l'una di se stesso, per testimonianza d'OVIDIO; l'altra de le stelle e del destino, per autorità di TOLOMEO, il qual disse: «Sapiens dominabitur astris».