CIII

Assomiglia la sua Donna a diverse maraviglie

Qual più rara e gentile
Opra è de la Natura, o meraviglia,
Quella più mi somiglia
La Donna mia ne' modi e ne' sembianti.
5Dove fra dolci canti
Corre Meandro, o pur Caistro inonda
La torta obliqua sponda,
Un bianco augel parer fa roco e vile,
Nel più canoro aprile,
10Ogn'altro che diletti a maraviglia;
Ma questa mia, che 'l bel candore eccede
De' cigni, hor che se 'n riede
La primavera candida e vermiglia,
L'aria addolcisce co' soavi accenti,
15E questa i venti col suo vago stile.
Un animal terreno,
Ch'è bianco sì che vince ogni bianchezza,
Et ogni altra bellezza,
Morir più tosto che bruttarsi elegge,
20Però, come si legge,
è preso, e per vestirne i Duci illustri
Le sue tane palustri,
D'atro limo son cinte, e morto almeno
Pregio ha di seno in seno,
25E per Donna leggiadra ancor s'apprezza.
Così la fera mia, perchè s'adorni,
La vergogna e gli scorni
Più che la morte è di fuggire avezza;
Nè macchia il crudo Arcier le care spoglie,
30Mentre raccoglie e sparge il suo veleno
In Grecia un fonte instilla
Se labra asciutte bagna il freddo humore,
Profondo oblio nel core.
L'altra bevuta fa contrari effetti,
35E 'n duo vari soggetti
Sì mirabil virtù dimostra il Cielo.
Così questa, onde gelo,
Fonte d'ogni piacer chiara e tranquilla,
Con una breve stilla
40Tor la memoria può d'ogni dolore,
E render poi d'ogni passata gioia,
Per temprar quella noia,
Onde perturba le sue paci Amore.
O vivo fonte, anzi pur fonti vivi
45Con mille rivi, ond'ei via più sfavilla.
Se non è vana in tutto
L'antica fama, che pur dura e suona,
Tra que' che fan corona
Nasce un bel fior che sembra un lucido oro,
50E vince ogni tesoro,
Perchè gloria ei produce e chiaro nome
A chi n'orna le chiome,
Nè mai di sponda o di terreno asciutto
Nacque sì nobil frutto.
55Et un fior di bellezza in queste rive
Si odora e di mostrar ei nulla è scarso
L'oro disciolto e sparso,
Ch'erra soavemente a l'aure estive.
Ma di sua gloria coronato a l'ombra
60Così m'adombra, che m'è dolce il lutto.
Ne l'arabico mare
è con un altro fior, come di rosa,
Pianta meravigliosa,
Che lui comprime, anzi che nasca il sole.
65Poi di spiegarlo suole,
Quando egli vibra in oriente i raggi
Per sì lunghi viaggi,
E di novo il raccoglie allhor, che pare
Cader ne l'onde amare.
70Tal questa Donna, in cui beltà germoglia
E leggiadria fiorisce, al sol nascente
Nel lucido oriente,
Par ch'i suoi biondi crini apra e disciglia.
Poi l'occaso astringe aurei capelli,
75Più di lui belli, e sol velata appare.
Una pietra de' Persi
Co' raggi d'oro al sol bianca risplende,
E quinci il nome prende,
E del bel lume del sovran pianeta
80Rassembra adorna e lieta.
Così la pietra mia nel dì riluce,
E la serena luce,
E 'l dolce fiammeggiar i' non soffersi,
Quando gli occhi v'apersi,
85Ma segue un'altra poi de la sorella
Il corso vago, e di sue belle forme
Par che tutta s'informe,
E di sue corna, e quindi ancor s'appella.
Tal lei veggio indurarsi ascosa in parte,
90Se torna o parte, e fa sentier diversi.
Canzon, ch'io non divegna
Fra tante meraviglie un muto sasso,
Solo è cagion Amor, che gratia impetra
Da la mia nobil pietra.
95E spero andarne così passo passo.
E pur quasi d'un marmo esce la voce
Che manco noce, ov'è chi men disedgna.

  • 1. «Qual più rara e gentile»: imita quella canzone di PETRARCA: «Qual più diversa e varia | Cosa fu mai in qualche stranio clima | Quella se ben si stima | Più mi rassembra, a tal son giunto, Amore», imperochè ne l'istesso modo il Poeta fa diverse similitudini de la sua Donna.
  • 5-6. «Dove tra dolci canti | Corre Meandro, o pur Castro inonda»: Meandro et Caistro son fiumi de la Licia, ne le cui ripe i cigni fanno dolcissimi canti, come dice DIONIGI, De situ orbis: «Cuius prope ripam tempore verno | Si sedeas, dulcis capiaris pectore cantu | Cygnorum, pascunt quos herbae flumina circum. | Nam florent Asiae campos plurima prata. | Sed magis ad fluvium Meandri gurgite miti, | Quem iusta volvens se murmurat unda Caistri».
  • 7. «La torta obliqua sponda»: quel che DIONIGI dice «volvens se» imperochè i ravolgimenti di Meandro sono simili a quelli del laberinto.
  • 11a. «Ma questa mia» paragona la sua Donna a' cigni ne la bianchezza e ne la dolcezza del canto.
  • 16. «Un animal terreno»: intende il Poeta de l'armellino, il qual chiama «animal terreno» a differenza del cigno che parimente è candido; e l'uno e l'altro similmente puro, significano l'innocenza. Ma il cigno è ucello conosciutissimo da gli Antichi et celebratissimo ne le prose e ne' versi de' Greci, e particolarmente da PLATONE nel dialogo De l'immortalità de l'anima, dov'egli introduce Socrate a raccontare il sogno fatto la notte avanti al giorno ch'egli morisse. De l'armellino non si la mentione similmente ne l'Historie o altro scritto de gli Antichi, ma dal GIOVIO è messo per simbolo de l'innocenza e de la parità. Il BEMBO similmente disse: «Caro Armellin, ch'innocente si giace».
  • 19. «Morir più tosto che bruttarsi elegge»: esprime queste parole latine: «potius mori, quam foedari».
  • 20. «Però, come si legge»: narra il modo co 'l quale sono presi gli armellini, de' quali i Principi, e particolarmente quel di Vinegia, suol fodrar le robbe di broccato d'oro, e le nobili Donne sogliono ancora portarle per ornamento.
  • 26a. «Così la fera mia»: assomiglia la sua Donna a l'armellino e la chiama «sua fera», havendo risguardo a l'honestà, per la quale alcuna volta pareva salvatichetta anzi che no.
  • 26b. «perchè s'adorni»: dice ch'ella è solita di fuggir la vergogna più che la morte, laonde per questa cagione forse soleva adornarsi di questo candido e pretioso vestimento.
  • 31. «In Grecia un fonte instilla»: in Beotia, come racconta FAZIO DEGLI UBERTI nel suo Dittamondo, sono due fonti di contraria virtù, l'uno de' quali toglie la memoria, l'altro la rende. Con questa comparatione dimostra il Poeta come la sua Donna il possa privar de la memoria e poi restituirgliela. E la chiama «fonte» per l'abondanza de le gratie.
  • 40a. «Tor la memoria può»: ha riguardo tacitamente a' due favolosi fiumi del Purgatorio nominati da DANTE, de' quali Lete toglie la memoria del male, Eunoè la restituisce del bene.
  • [46-60]. In questa stanza il Poeta assomiglia la sua Donna ad uno di que' fiori che sono «coronarij generis», chiamato Aurelia da TEOFRASTO ne l'Historia de le piante. Del quale alcun portava opinione ch'egli havesse virtù di dar buona fama, sì come afferma il medesimo autore ne l'istesso libro.
  • 46-47a. «Se non è vana in tutto | L'antica fama» «antica» chiama la fama, non solo perch'è suo aggiunto propio, ma perchè hora a pena se ne ragiona fra gli herbolarij e fra gli altri che fanno professione di conoscer le virtù de l'herbe e de' fiori.
  • [61-75]. Narra similmente TEOFRASTO ne l'Historia de le piante, et PROCLO nel trattato Del sacrificio et de la magia, che il loto piega le foglie avanti il nascer del sole, ma nascendo il sole egli le dispiega a poco a poco. E quanto il sole monta verso il mezo del cielo, tanto le spande. Ma quando comincia a dechinar verso l'Occaso, di grado in grado rinchiude le foglie. Con questa similitudine veramente maravigliosa, ci pone il Poeta avanti gli occhi la sua Donna, ch'appariva la mattina co' suoi capegli disciolti, e la sera gli haveva velati e raccolti in treccia.
  • [76-90]. Come racconta SOLINO, in Persia è una pietra detta Helitis lapis, la qual riluce come il sole. Di questa parimente fa mentione DIONIGI dicendo «Gemmaque quae radios emittit candida Solis». E PROCLO ne l'istesso libro afferma ch'ella imita co' raggi doro i raggi solari. A questa assomiglia il Poeta la sua Donna, la qual per la durezza è simigliante a tutte le pietre, per la bellezza a la pietra del sole particolarmente.
  • 85. «Ma segue un'altra poi de la sorella»: la paragona ad una altra pietra nomata Selenites, cioè lunare. La qual, come afferma PROCLO, è simigliante a la Luna ne la figura corniculare. E con certa sua mutatione segue il moto de la luna. DIONIGI ancora scrive di lei in questo modo: «Atque, selenites lunaris imagine lunae | Quod decus et minuit proprij splendoris, et auget».
  • 91. «Canzon, ch'io non divegna»: rivolge il parlare a la canzone, dicendo ch'egli diverrebbe [92] «Fra tante maraviglie un muto sasso», cioè stupido, non potendo renderne la cagione o parlarne convenevolmente. Ma che per gratia de la sua Donna nondimeno egli non ha perduto ancora la voce o 'l movimento.