LIII
Si pente d'haver troppo magnificamente parlato de la sua sofferenza, mentre è stato lontano da la sua Donna e prega Amore che se nel tormento è merito, non cessi di tormentarlo.
Era aspro e duro; e sofferir, sì lunge
Da que' begli occhi e dal sereno ciglio,
I' mi diè vanto, un grave e duro essiglio,
4Scevro d'Amor che l'alme insieme aggiunge.
Hor ch'ei mi sfida, e qual più a dentro punge
Saetta vibra, e quasi fero artiglio
Per farmi il fianco infermo e 'l sen vermiglio
8La mano adopra, che risana et unge.
Pentomi de' miei detti, e folle il vanto,
e 'l mio fermo sperar torna fallace,
11Nè superbo mi fa la penna o 'l canto.
Ardimi, Signor mio, con viva face
E trafigimi il cor senza mio pianto:
14Perchè merto è il martire, ov'ei si tace.
- 1-2. «Era aspro e duro; e sofferir sì lunge | Da que' begli occhi e dal sereno ciglio»: è gentile imitatione di quel luogo di TIBULLO: «Asper eram et bene dissidium me ferre loquebar; | At mihi nunc longe gloria fortis abest».
- 12. «Ardimi, Signor mio, con viva face»: continua ne l'imitatione de l'istesso poeta, che soggiunge: «Ure ferum, et torque, libeat nec dicere quicquam | Magnificum postae. Horrida verba doma».
- 14. «Perch'è merto il martire, ov'ei si tace»: cioè che merita molto l'amante tacendo le sue pene e la crudeltà de la sua donna.