CIV

Introduce lo Sdegno a contender con Amore avanti la Ragione.

Quel generoso mio guerriero interno,
Ch'armato in guardia del mio core alberga
Pur come duce di guerrieri eletti,
A lei, ch'in cima siede ove il governo
5Ha di nostra natura, e tien la verga
Ch'al ben rivolge gli uni e gli altri affetti,
Accusa quel ch'a' suoi dolci diletti
L'anima invoglia, vago e lusinghiero:
- Donna del giusto impero,
10C'hai tu dal Ciel, che ti creò sembiante
A la virtù che regge
I vaghi errori suoi con certa legge,
Non fui contrario ancora, o ribellante,
Nè mai trascorrer parmi,
15Sì che non possa al tuo voler frenarmi.
Ma ben presi per te l'armi sovente
Contra il desio, quando da te si scioglie,
Et a' richiami tuoi l'orecchie ha sorde.
E qual di varie teste empio serpente,
20Se medesmo divide in molte voglie,
Rapide tutte, e cupide et ingorde.
E sovra l'alma stride e fischia e morde,
Si che dolente ella sospira e geme,
E di perirne teme.
25Queste sono da me percosse e dome,
E molte ne recido,
Ne fiacco molte e lui non anco uccido;
Ma le rinova ei poscia, e non so come
Via più tosto ch'augello
30Le piume o i tronchi rami arbor novello.
Ben il sai tu, che sovra il fosco senso
Nostro riluci sì da l'alta sede,
Come il sol che rotando esce di Gange.
E sai come il desio piacere intenso
35In quelle sparge, ond'ei l'anima fiede
Profonde piaghe, e le riapre e l'ange.
E sai come si volga, e come cange
Di voglia in voglia, al trasformar d'un viso,
Quando ivi lieto un riso,
40O quando la pietà vi si dimostra,
O pur quando tal'hora
Qual viola il timor ei vi colora,
O la bella vergogna ivi s'inostra;
E sai come si suole
45Raddolcir anco al suon de le parole.
E sai se quella, che sì altera e vaga
Si mostra in varie guise e 'n varie forme,
Quasi novo e gentil mostro si mira:
Per opra di Natura e d'arte maga
50Se medesma e le voglie ancor trasforme
De l'alma nostra che per lei sospira.
Lasso, qual brina al sole, o dove spira
Tepido vento, si discioglie il ghiaccio.
Tal ancor io mi sfaccio
55Spesso a' begli occhi, et a la dolce voce.
E mentre si dilegua
Il mio vigor, pace io concedo o tregua
Al mio nemico; e quanto è men feroce,
Tanto più forte il sento,
60E volontario a' danni miei consento.
Consento, che la speme onde ristoro
Per mia natura prendo e mi rinfranco,
E nel dubbio m'avanzo e nel periglio,
Torca da l'alto obietto, a' bei crin d'oro,
65O la raggiri al molle avorio e bianco,
Et a quel volto candido e vermiglio.
O le rivolga al variar del ciglio,
Quasi fosse di lui la spene ancella,
E fatta a me ribella;
70Ma non avien che 'l traditor s'acqueti:
Anzi del cor le porte
Apre, e dentro ricetta estranie scorte,
E fora messi invia scaltri e secreti;
E s'io del ver m'aveggio,
75Me prender tenta, e te cacciar di seggio. -
Così dice egli al seggio alto converso
Di lei, che palma pur dimostra e lauro;
E 'l dolce lusinghier così risponde:
- Alcun non fu de' miei consorti averso
80Per sacra fame a te di lucido auro,
Ch'ivi men s'empie, ov'ella più n'abonde;
Nè per brama d'honor, ch'i tuoi confonde
Ordini giusti. E s'io rara bellezza
Seguij sol per vaghezza,
85Tu sai, ch'a gli occhi desiosi apparse
Donna così gentile
Nel mio più lieto aprile,
Che 'l giovenetto cor subito n'arse.
Per questa al piacer mossi
90Rapidamente, e dal tuo fren mi scossi.
Forse (io no 'l niego) incauto allhor piagai
L'alma; e se quelle piaghe a lei fur gravi,
Ella se 'l sa, tanto il languir le piace.
E per sì bella Donna anzi trar guai
95Toglie, che medicine ha sì soavi,
Che gioir d'altra, e ne' sospir no 'l tace.
Ma questo altero mio nemico audace,
Che per leve cagion, quando più scherza,
Se stesso infiamma e sferza,
100In quella fronte più del ciel serena,
A pena vide un segno
D'irato orgoglio e d'orgoglioso sdegno,
E d'averso desire un'ombra a pena,
Che schernito si tenne,
105E del dispregio sprezzator divenne.
Quant'ei superbì poscia, e 'n quante guise
Fu crudel sovra me, già vinto e lasso
Nel corso, e per repulse isbigottito,
Il dica ei, che mi vinse e non m'ancise:
110Se 'n glori pur, ch'io gloriar il lasso.
Questo io dirò; ch'ei folle e non ardito
Incontra a quel voler, che teco unito
Tale ogn'hor segue chiare interne luci,
Qual io gli occhi per duci
115Non men che sovra 'l mio l'arme distrinse;
Perchè 'l vedea sì vago
De la beltà d'una celeste imago,
Come fossi io, nè lui da me distinse,
Nè par che ben s'aveda
120Che siam qua' figli de l'antica Leda.
Non siam però gemelli: ei di celeste,
Io nacqui poscia di terrena madre;
Ma fu il padre l'istesso, o così stimo.
E ben par, ch'egualmente ambo ci deste
125Un raggio di beltà, che di leggiadre
Forme adorna e colora il terren limo.
Egli s'erge sovente, et a quel primo
Eterno mar d'ogni bellezza arriva,
Ond'ogni altro deriva.
130Io caggio, e 'n questa humanità m'immergo:
Pur a voci canore
Tal volta, et a soave almo splendore
D'occhi sereni mi raffino e tergo.
Per dargli senza assalto
135Le chiavi di quel core, in cui t'essalto.
E con quel fido tuo, che d'alto lume
Scorto si move, anch'io raccolgo e mando
Sguardi e sospiri, miei dolci messaggi.
Per questi, egli talhor con vaghe piume,
140N'esce, e tanto s'inalza al ciel volando,
Che lascia adietro i suoi pensier più saggi.
Altre forme più belle, ad altri raggi
Di più bel sol vagheggia; et io felice
Sarei, com'egli dice,
145Se tutto unito a lui seco m'alzassi.
Ma la grave e mortale
Mia natura mi stanca in guisa l'ale,
Ch'oltra i begli occhi rado avien ch'i passi.
Con lor tratta gli inganni
150Il tuo fedel seguace, e no 'l condanni.
Ma s'a te non dispiace, alta Regina,
Che là donde in un tempo ambe partiste
Egli rapido torni, e varchi il cielo,
Condotto no, ma da virtù divina
155Rapto di forme non intese o viste;
A me, che nacqui in terra e 'n questo velo,
Vago d'altra bellezza (e non te 'l celo),
Perdona, ove talhor troppo mi stringa
Con lui, che mi lusinga.
160Forse ancora averrà, ch'a poco a poco
Di non bramarlo impari,
E col voler mi giunga e mi rischiari
A' rai del suo celeste e puro foco,
Come nel ciel riluce
165Castore unito all'immortal Polluce. -

  • [1-168]. In questa canzona, ne la quale imita il Poeta l'accusa fatta dal PETRARCA ad Amore avanti il tribunal de la ragione e la difesa d'Amore, egli introduce ne l'istesso modo l'ira o lo sdegno, il quale accusa Amore avanti a medesima Regina. E non è ciò fatto dal Poeta senza molta convenevolezza, imperochè ne l'animo nostro è l'essempio e l'imagine de la Republica, sì come afferma PLATONE, primo di tutti gli altri, ne' suoi dialoghi de la Giustitia. E le parti de l'animo sono disposte come quelle de la città. Avvegna che la ragione di cui sono operationi il discorrere, il consigliare, l'eleggere, rappresenta il re co 'l senato. L'ira, o la potenza irascibile, è simile a' soldati che stanno a la guardia, ma la concupiscibile più s'assomiglia a la turba de gli artefici e de' ministri. E sì come queste tre potenze sono distinte, così parimente si distingue la sede di ciascuna e 'l luogo in cui manifesta le sue operationi. Perchè la ragione sta nel capo, l'appetito irascibile nel cuore, il concupiscibile nel fegato, separato da quello che si chiama septotransverso, e legato come bestia al presepe, o, se vogliamo dire, come asino a la mangiatoia. E benchè ARISTOTELE porti contraria opinione, perochè assegnando al cuore il principato fra le parti del corpo pone la reggia de l'anima ne l'istesso luogo, i medici nondimeno, ch'attribuiscono il principato al cervello, seguiron il giudicio d'HIPPOCRATE e di PLATONE, i quali furono in ciò assai concordi, come dimostra GALENO nel libro De Placitis Hippocratis et Platonis. Hor vegniamo a l'interpretatione de le parole.
  • 1. «Quel generoso mio guerriero interno»: chiama l'ira o lo sdegno «guerrero» perch'egli combatte per la ragione contra la cupidigia, come afferma il medesimo PLATONE.
  • 2. «Ch'armato a guardia del mio core alberga»: perch'a l'appetito irascibile è assegnato il cuore.
  • 3. «Pur come duce di guerrieri eletti»: perchè molte sono le passioni in ciascun ordine.
  • 4a-5b. «A lei, ch'in cima siede [...] | [...] e tien la verga»: a la Ragione o a la Prudenza, a la quale, come a regina, attribuiscer lo scettro.
  • 6. «Ch'al ben rivolge gli uni, e gli altri affetti»: cioè gli affetti de la concupiscibile, i quali hanno per obietto il bene assolutamente, come hanno dapoi detto san TOMASO ne la seconda parte de la Somma, et EGIDIO [COLONNA] sovra il secondo de la Retorica, et altri Teologhi. E gli affetti ancora de l'irascibile, c'hanno per obietto il bene malagevole a conseguire, o come i Latini dicono, «bonum arduum».
  • 9-10a. «Donna del giusto impero, | C'hai tu dal Ciel»: queste son le parole che dice l'ira a la ragione. E chiama «giusto impero» quello de la ragione sovra gli affetti, perchè la giustitia naturale de le parti consiste nel buon ordine e ne la dispensatione, cioè quando la ragione comanda e gli altri obbediscono.
  • 11-12. «la virtù che regge | I vaghi errori suoi con certa legge»: a l'intelligenze, però che l'intelletto è parte de l'anima nostra, e simile a gli intelletti separati.
  • 16. «Ma ben presi per te l'arme sovente»: già s'è detto che l'ira combatte per la ragione.
  • 17a. «Contra il desio»: contra Amore.
  • 17b. «quando da te si scioglie»: o perchè la cupidità sia legata, come dice PLATONE, o più tosto perch'ogni soggettione è una sorte d'obligo e di legame.
  • 18. «Et a' richiami tuoi»: a le riprensioni, perchè la parte ragionevole, come dice ARISTOTELE nel primo de l'Ethica, è quasi maestra de l'irragionevole, la qual nondimeno partecipa de la ragione.
  • 19. «E qual di varie teste empio serpente» PLATONE figura ne l'animo l'imagine de l'Hidra, ch'altro significa che la cupidità, la quale ha infiniti capi, perch'infiniti sono i desiderij, i quali germogliano l'uno da l'altro. E già abbiamo detto che le cupidità sono simili a gli artefici, laonde si possono assomigliare al popolo, ch'è quasi uno animal bruto grande oltra misura e robusto. Come dice ne gli istessi Dialoghi il medesimo autore.
  • 25. «Queste sono da me percosse e dome»: assomiglia lo sdegno ad Hercole, e la cupidità a l'Hidra, che rinovava le teste, com'è scritto ne le favole.
  • 31a. «Ben il sai tu»: il saper è conoscer le cose per le cagioni, come dice ARISTOTELE, e questo è proprio de la ragione, perchè la cognitione del senso, quantunque possa esser certa, non è scienza.
  • 31b. «che sovra il fosco senso»: chiama «fosco» il senso, cioè l'anima sensitiva, perch'ella per se medesima è priva del lume de la ragione.
  • 32. «Nostro riluci sì, da l'alta sede»: «alta» chiama la sede in cui riluce la ragione, perch'ella è ne la sublime parte del corpo, e l'altre potenze hanno la sede assai più bassa. O la chiama «alta» accennando l'opinione d'alcuni Platonici che l'intelletto sia parte in noi, e parte fuori di noi.
  • 33. «Come il sol che rotando esce di Gange»: la parte ch'è ragionevole per se stessa, è assomigliata al sole, il quale non riceve il lume di alcuno altro, ma la parte ch'è ragionevole per partecipatione, si può paragonare alla luna illustrata dal sole.
  • 34. «E sai come il desio piacere intenso»: la potenza superiore contiene la inferiore, e l'una anima è contenuta ne l'altra, come il Trigono nel Tetragono. Laonde la cognitione del senso eminentialmente, per così dire, è compresa nel conoscimento de l'intelletto.
  • 37. «E sai come si volga, e come cange»: dimostra come i desideri si mutino al variar de gli obietti, et insieme ha risguardo a gli ammaestramenti di PLATONE, il quale c'insegna come si posson conoscer le varie cupidità di quel suo grande animale, e le cagioni per le quali hora diventa più feroce, hora più mansueto.
  • 46. «E sai se quella, che sì altera e vaga»: non «altera e disdegnosa» si dimostrava l'amata Donna, come la desidera il PETRARCA, dicendo «Et in Donna amorosa ancor m'aggrada | Ch'in vista vada altera e disdegnosa | Non superba o ritrosa», ma «altera e vaga», perch'in questo modo potea invaghirlo più agevolmente.
  • 47a. «Si mostra in varie guise»: per rispetto de gli abiti.
  • 47b. «'n varie forme»: per le mutationi del volto e de' costumi.
  • 48. «Quasi novo e gentil mostro si mira»: «mostro» senza altro aggiunto si poteva prendere in mala parte, ma con gli aggiunti laudevoli, si prende in buona, come in questo luogo et in quel di PETRARCA: «O de le donne altero e raro mostro».
  • 49. «Per opra di Natura e d'arte maga»: «di natura» perchè le mutationi del volto sogliono esser naturali; «d'arte maga», perchè l'officio de la magia naturale altro non è ch'applicare «activa passivis». Et ella sapea per quai cose il Poeta pativa maggior passione, nè disconvenevolmente per questo rispetto le attribuisce l'arte maga. Perchè la natura è maga, come dice MARSILIO FICINO sovra Platone, et Amore è mago similmente.
  • 52a. «Lasso, qual brina al sole»: dimostra le cagioni per le quali lo sdegno s'era intepidito: l'una era la bellezza del volto, l'altra la dolcezza de le parole.
  • 58b-59. «quanto è men feroce, | Tanto più forte il sento»: le forze d'Amore consistono principalmente nel piacere.
  • 61-62a. «Consento, che la speme onde ristoro | Per mia natura»: l'ira, la quale è desiderio di vendetta, si conserva con la speranza di potersi vendicare. Avegna che niun desideri le cose impossibili.
  • 63. «E nel dubbio m'avanzo, e nel periglio»: perchè molti ne le cose pericolose sono forti per la speranza, come dice ARISTOTELE nel quinto de le Morali.
  • 64. «Torca da l'alto obietto, ad un crin d'oro»: la speranza ha per obietto il bene, in quanto egli è difficile. Però dice «alto obietto», quasi arduo. Ma rivolgendosi a le cose piacevoli, par che s'inchini e s'abbassi da la sua natura.
  • 68-69. «Quasi fosse di lui la speme ancella, | E fatta a me ribella»: cioè quasi la speranza fosse una de le passioni de l'appetito concupiscibile. Perchè se noi speriamo di goder la bellezza d'alcuna Donna, perchè la speranza si possa riponere nel numero di queste passioni. La cosa nondimeno sta altrimenti, perchè la speranza è ne l'appetito irascibile e ne l'ordine de gli altri affetti di tale appetito, come piace a san TOMASO et a EGIDIO [COLONNA], e come la ragione medesima ci dimostra. Avegna che la speranza sia de le cose malagevoli, ma l'appetito concupiscibile non risguarda il bene, in quanto egli è malagevole.
  • 70. «Ma non avien che 'l traditor s'acqueti»: chiama Amor «traditore», come fece il PETRARCA dicendo «E poi m'apparve | Quel traditore in sì mentite larve».
  • 71-72. «Anzi del cor le porte | Apre, e dentro ricetta estranie scorte» imitatione del PETRARCA: «che fere scorte | vai ricettando».
  • 74. «E s'io del ver m'aveggio»: perchè l'ira è custode, e suo officio è il far la guardia.
  • 78. «E 'l dolce lusinghier così risponde»: chiama l'amor «dolce lusinghiero» perch'egli conduce per la strada del piacere, come la ragione per quella de la virtù.
  • 79-80. «Alcun non fu de' miei consorti averso | Per sacra fame a te di lucido auro»: Amore, come habbiamo detto, è ne l'appetito concupiscibile: però chiama «suoi consorti» tutti gli affetti che sono ne l'istesso appetito, i quali sono molti, et infiniti, come stima alcuno. Ma egli, tacendo le cupidità del mangiare e del bere, fa mentione di due principali: de l'avaritia, la quale è soverchia cupidigia d'havere, e de lo smoderato desiderio d'honore, che chiamiamo ambitione, dicendo che ne l'animo del Poeta niuno di questi affetti discordò da la ragione, ma tutti paiono da lei moderati. De l'avaritia parla in quel verso «Per sacra fame a te di lucido auro». E soggiunge [81]«Ch'ivi men s'empie, ov'ella più n'abonde», per darci a divedere che le cupidità de l'avaro sono insatiabili. DANTE, ragionando nel medesimo soggetto, disse ad imitatione di Vergilio, «[...] o sacra fame», cioè essecrabile. Et in un altro luogo: «de la tua fame, senza fine cupa».
  • 82b-83a. «ch'i tuoi confonde | Ordini giusti»: è proprio de l'ambitione confonder gli ordini, così ne l'animo come ne la Republica.
  • 83b. «E s'io rara bellezza»: scusa se medesimo d'esser stato invaghito de la bellezza e d'haver seguito il piacer ne la sua gioventù
  • 76a. «Così dice egli»: qui finisce il parlar de lo sdegno avanti la ragione, la qual dimostrava palma e lauro. Però che questi sono i premi che distribuisce la virtù, quasi volendo accennare che l'huomo guidato da la ragione, non cerca fra le cose esteriori alcuna più de l'honore, il quale è grandissimo oltre tutti i beni.
  • 91-92a. «Forse (io no 'l niego) incauto allor piagai | L'alma»: è concessione, figura assai spesso usata dagli oratori.
  • 92b. «e se quelle piaghe a lei fur gravi»: a «lei», cioè a l'anima.
  • 93. «Ella se 'l sa, tanto il languir le piace»: quasi voglia dire «le piace tanto, che non ricusa di confessarlo». Et in questo luogo il Poeta ha risguardo a l'opinione di SOCRATE nel Filebo, che ne gli infermi i piaceri siano maggiori, e più vehementi che ne' sani e temperati.
  • 94-95a. «E per si bella Donna anzi trar guai | Toglie»: imita il PETRARCA, il qual disse: «Togliendo anzi per lei sempre trar guai», cioè eleggendo.
  • 95b. «che medicine ha sì soavi»: le bugie sono quasi medicamenti, come dice PLATONE. Chiama dunque le medicine menzogne de la sua Donna, quando ella diceva d'amarlo, o medicine chiama i piaceri, come gli chiama ARISTOTELE ancora nel settimo de le Morali. Tutto che PLATONE neghi nel Filebo che tutti i piaceri siano mitigatori del dolore.
  • 97. «Ma questo altero mio nemico audace»: con due aggiunti descrive lo sdegno, il quale è nemico de l'Amore, col chiamarlo «audace» e «altiero».
  • 98-99. «Che per leve cagion, quando più scherza | Se stesso infiamma e sferza»: esprime la natura del leone e quale è simbolo de l'ambitione, come piacque a DANTE. Ma PLATONE ne l'anima nostra il pone quasi figura de l'anima irascibile, imperochè è proprietà del leone battersi con la coda.
  • 105. «E del dispregio sprezzator divenne»: havendo chiamato lo sdegno «altiero», hor descrive una principalissima qualità de l'altiero, ch'è lo sprezzar coloro da' quali si reputa sprezzato.
  • 106. «Quant'ei superbì poscia»: l'haveva descritto «altiero» avanti la vittoria, doppo la vittoria lo descrive superbo e crudele.
  • 109a. «Il dica ei»: mirabile artificio o di non manifestar i vitij de l'aversario, perch'egli medesimo li confessi, o di palesarli, dicendo di non palesarli.
  • 111a. «Questo io dirò» è temerità offendere i più possenti e più degni.
  • 111b. «ch'ei folle e non ardito, | Incontra a quel voler, che teco unito»: due sono ne la prima Distintione gli appetiti, l'uno che segue la cognitione de l'intelletto, chiamato con proprio nome volontà; l'altro, il quale è seguace del conoscimento del senso. E questo propriamente si dice appetito, e si distingue nel concupiscibile e ne l'irascibile. Ne l'uno è Amore, ne l'altro è lo sdegno. Ma lo sdegno, prendendo l'armi contra l'Amore e contra tutto l'appetito de la concupiscenza, trapassò (come dice Amore) i segni, non s'avedendo ch'egli combatteva contra la volontà.
  • 118b. «nè lui da me distinse»: quasi cieco ne la sua furia non conobbe l'uno da l'altro appetito, i quali son quasi fratelli, e simili a' figlioli di Leda, che furono Castore e Polluce.
  • 121a. «Non siam però gemelli»: i due appetiti del senso e dell'intelletto sono i due Amori, nati di due Veneri. Cioè da la celeste e da la volgare. L'uno immortale, l'altro mortale. Et in questa parte simili a Castore et a Polluce, ma differenti, perchè quelli hebber comune la madre terrena, questi il padre, celeste. Si può anche intender per la madre de l'uno, l'anima ragionevole, o la mente; e per la madre de l'altro la sensitiva, la qual nasce e muore co 'l suo corpo. E questa spositione è più conforme a la mente del Poeta, et a le parole d'Amore che mostrò di riconoscere per suo padre, cioè per cagion facitrice il bello, o 'l [125] «raggio» de la bellezza.
  • 127-128. «Egli s'erge sovente, et a quel primo | Eterno mar d'ogni bellezza arriva»: ha risguardo a le parole di PLATONE nel Convito: «Verum in profundum pulchritudinis se pelagus mergat, ubi ipso intuitu multas praeclaras atque magnificas rationes intelligentiasque in philosophia abunde pariat».
  • 130a. «Io caggio»: confessio criminis.
  • 130b. «e 'n questa humanità m'immergo»: cioè non potendo immergermi nel mar profondo de la divina bellezza, m'immego in questo de l'humanità. E così per la sua debolezza scorgo il peccato che si confessa.
  • 131. «Pur a voci canore»: si purga con gli obietti di duo sensi, che sono spirituali.
  • 134-135. «Per dargli senza assalto | Le chiavi di quel core, in cui t'essalto»: non dico le «chiavi» de l'intelletto, che sta nel capo, ma del cuore, dove alberga il mio nemico, il quale non t'honora come regina. Acutissima confessione d'Amore, quasi divenuto peripatetico, che sdegnando di star nel fegato, desidera d'albergar nel cuore insieme con l'imaginatione de la sua Donna.
  • 136-137a. «E con quel fido tuo, che d'alto lume | Scorto si move»: con la volontà che segue il conoscimento de la ragione. O intende alcuno altro lume superiore.
  • 137b. «anch'io raccolgo e mando»: dichiara quai sian quelli che l'aversario ha chiamato [72] «estranie scorte». E diminuisce l'acerbità del nome loro imposto.
  • 139. «Per questi, egli talhor con vaghe piume»: con l'ale amorose.
  • 140-141. «N'esce, e tanto s'inalza al ciel volando, | Che lascia adietro i suoi pensier più saggi»: quasi l'operationi de la ragione non si possano agguagliare a quelle del furore amoroso.
  • 142a. «Altre forme più belle»: le forme separate da la materia.
  • 142b-143a. «ad altri raggi | Di più bel sol vagheggia»: a' raggi del sole intellettuale.
  • 143b. «et io felice»: se l'appetito del senso si conformasse con la volontà illuminata da lume superiore, l'huomo sarebbe felice. Imperochè in quanto è volontà, ha il bene per obietto. In questo illustrata da lume superiore, non si inganna ne l'elettione.
  • 146-148. «Ma la grave e mortale | Mia natura mi stanca in guisa l'ale, | Ch'oltra i begli occhi rado avien, ch'i passi»: translatio criminis. Prima ne la natura humana, per la quale l'appetito del senso si piega a gli obietti piacevoli.
  • 149. «Con lor tratta gl'inganni»: dapoi trasporta la colpa ne la volontà, se pur v'è alcuna colpa: ma pur che l'uno e l'altro appetito sia colpevole, l'uno per haver passati i segni ne l'amar sensualmente l'altro, perchè negando la pace, haveva impedito che l'amor sensuale si convertisse in amicitia, come era l'inclinatione de la volontà.
  • 151. «Ma s'a te non dispiace, o Peregrina»: chiama l'anima ragionevole «peregrina», come chiamò DANTE: «Frate, disse, ciascuna è cittadina | D'una vera Città, ma tu vuoi dire | Che vivesse in Italia peregrina». E 'l PETRARCA, parimente intendendo de l'anima, disse: «Dentro le quai peregrinando albergo». Altrimenti si legge «alta Regina».
  • 154. «Condotto no, ma da virtù divina»: cioè non guidato dal tuo lume naturale e da la tua cognitione, ma rapito da virtù divina e sopranaturale di forme non intese o viste: figura detta da' Greci hysteron proteron, che perturbando l'ordine, mette prima quel ch'è dopo, cioè de le forme separate et de l'inteligenze, le quali non sono viste perchè non sensibili, e non intese abastanza, perchè non se ne intende il quid est, ma il quia est, come insegna san TOMASO.
  • 156a. «A me, che nacqui in terra»: dimanda perdono a la ragione s'egli è troppo desideroso del piacere, perchè intende il piacere per colui che mi lusinga. E quasi ricordandosi d'esser stato chiamato «lusinghiero», trasporta in altrui la colpa.
  • 160a. «Forse ancora averrà»: ch'io non stimi il piacere, o che lo stimi assai meno.
  • 162a. «E col voler mi giunga»: l'appetito del senso, congiungendosi con quello de l'intelletto, parteciperà de la sua immortalità, come Castore di quella di Polluce. Ma di questa unione leggi l'ACCIAIUOLO sovra l'Etica di Aristotele.