CXXXII

Risponde con le medesime rime ad un sonetto del S[ignor] G[iovanlorenzo] Malpiglio nel quale dall'amico era stato chiamato Apolline.

Per ch'io l'aura pur segua, e nel mio pianto
Le preghi, mentre fugge altera e presta,
Non sono Apollo con terrena vesta,
4Che Peneo vide, e vide Anfriso e Xanto.
Nè d'entrar nel suo speco ancor mi vanto,
Se 'l futuro predice e manifesta;
Ma, se mai lagrimando Amor si desta,
8Quel ch'ei spira, Malpiglio, io scrivo e canto.
Egli dettava già soavi accenti
Quand'io sul Po tessea verdi ghirlande,
11E nove rime egli formò pur dianzi,
La 've tra gelide acque e sacre ghiande
Pascer forse potrian le pure menti
14Fole più dolci de gl'altrui romanzi.

  • 1a. «Per ch'io l'aura pur segua»: cioè sono a Febo simile ne l'amore, ma non già ne la virtù de la poesia, nè de la profetia, perchè in lui è divinità e ne gl'inspirati da lui furore. Ma nel Poeta l'una è l'arte, l'altra prudenza.
  • 7-8. «Ma, se mai lagrimando Amor si desta, | Quel ch'ei spira, Malpiglio, io scrivo e canto»: dice per giuoco d'esser inspirato d'Amore, benchè non sia da Febo forse perchè Amore è natural possessore de gli animi nostri.