1

Havean gli atti leggiadri e 'l vago aspetto
Già rotto il gelo ond'armò sdegno il core,
E le vestigia de l'antico ardore
4Conoscea già dentro al cangiato petto;
E nutrir il mio mal prendea diletto
Con l'esca dolce d'un soave errore,
Sì mi sforzava il lusinghiero Amore
8Che s’havea ne' begli occhi albergo eletto;
Quand'ecco novo canto il cor percosse,
E spirò nel suo foco, e 'n lui più ardenti
11Rendé le fiamme da' bei lumi accese.
Né crescer sì, né sfavillar commosse
Vidi mai faci a lo spirar de' venti,
14Come il mio incendio allhor forza riprese.

2

Su l'ampia fronte il crespo oro lucente
Sparso ondeggiava, e de' begli occhi il raggio
Al terreno adducea fiorito maggio
4E luglio ai cori oltra misura ardente;
Nel bianco seno Amor vezzosamente
Scherzava, e non ardia di fargli oltraggio,
E l'aura del parlar cortese e saggio
8Fra le rose spirar s'udia sovente.
Io, che forma celeste in terra scorsi,
Rinchiusi i lumi e dissi: – Ahi, come è stolto
11Sguardo che 'n lei sia d’affisarsi ardito! –
Ma de l'altro periglio non m' accorsi,
Che mi fu per l'orecchie il cor ferito,
14E i detti andaro ove non giunse il volto.

3

Ninfa, onde lieto è di Diana il choro
Fiori coglier vid'io su questa riva;
Ma non tanti la man cogliea di loro,
4Quanti fra l’herbe il bianco piè n'apriva.
Ondeggiavano sparsi i bei crin d'oro
Ond'Amor mille e mille lacci ordiva,
E l'aura del parlar dolce ristoro
8Era dal foco che da gli occhi usciva.
Fermò la Brenta per mirarla il vago
Piede, e le feo del suo cristallo istesso
11Specchio a' bei lumi et a le treccie bionde.
Poi disse: – Al tuo partir sì bella imago
partirà ben, Ninfa gentil, da l'onde,
14Ma 'l cor fia sempre di tua forma impresso –.

4

Sonetto di ritorno.

Fuggite egre mie cure, aspri martiri,
Sotto 'l cui pondo giacque oppresso il core,
Ché per albergo hor lo destina Amore
4A le sue gioie, a' suoi dolci desiri.
Sapete ben che quand'avien ch'io miri
Que' soli accesi di celeste ardore,
Non sostenete voi l'alto splendore
8Né 'l fiammeggiar di duo cortesi giri,
Ma via fuggite, qual notturno e fosco
Stormo d'augelli inanzi al dì che torna
11A rischiarar questa terrena chiostra.
E già, s'a certi segni il ver conosco,
Vicino è 'l sol che le mie notti aggiorna,
14E veggio Amor che me l'addita e mostra.

5

Veggio, quando tal vista Amor m'impetra,
Sovra l'uso mortal Madonna alzarsi
Tal ch'entro chiude le gran fiamme ond'arsi
4Riverenza: e stupor l'anima impetra.
Tace la lingua allhora, e 'l piè s'arretra,
E i miei sospir son chetamente sparsi:
Pur nel pallido volto può mirarsi
8Scritto il mio affetto, quasi in bianca pietra.
Ben ella il legge, e 'n dir cortese e pio
M’affida, e forse perché ardisca e parle,
11Di sua divinità parte si spoglia.
Ma sì quest'atto adempie ogni mia voglia
Ch'io più non cheggio, e non ho che narrarle:
14Ché quanto unqua soffersi allhora oblio.

6

Fa voto ad Amore di offrirgli una cordella, la quale egli havea involata alla sua donna, se gli concederà mai che possa vagheggiarla da presso, e danzar con esso lei.

Amor, se fia giamai che dolce i' tocchi
Il terso avorio de la bianca mano,
E 'l lampeggiar del riso humile e piano
4Veggia d'appresso, e 'l folgorar degli occhi;
E notar possa come quindi scocchi
Lo stral tuo dolce, e mai non parta in vano,
E come al cor dal bel sembiante humano
8D’amorose faville un nembo fiocchi;
Tuo fia questo legame ond’hora il braccio
Non pur, ma via più stretto il core avolgo:
11Caro furto, onde 'l crin Madonna cinse.
Gradisci il voto, ché più forte laccio
Da man più dotta ordito alma non strinse:
14Né perch' a te lo doni, indi mi sciolgo.

7

Il ballo della torcia usitatissimo in molte parti d’Italia, suole esser l’ultimo in ordine fra tutti gli altri balli che si facciano nella festa, et è riposto nell’arbitrio di ciascuna persona nelle cui mani pervenga la torcia, ammorzandola, terminar quella danza e la festa insieme; et in tale occasione fu fatto questo sonetto, peroché una gentildonna con troppa importuna fretta estinguendola, impose fino a quel piacevole trattenimento.

Ove tra care danze in bel soggiorno
Si trahean le notturne e placid’hore,
Face, che nel suo foco accese Amore,
4Lieto n'apriva a meza notte il giorno;
E da candide man vibrata intorno
Spargea faville di sì puro ardore,
Che rendea vago d'arder seco il core,
8E scherzar, qual farfalla, al raggio adorno;
Quand'ecco a te, man cruda, offerta fue,
E da te presa e spenta: e ciechi e mesti
11Restar mill'occhi a lo spirar d'un lume.
Ahi come allhor cangiasti arte e costume:
Tu ministra d'Amor, tu, che le sue
14Fiamme suoli avvivar, tu l'estinguesti.

8

Hebbe in gratia l’Autore di tenere lo specchio inanzi alla sua donna, mentr’ella s’adornava il capo: onde ne compose questo e ’l seguente sonetto.

Ai servigi d'Amor ministro eletto,
Lucido specchio anzi 'l mio sol reggea,
E specchio intanto a le mie luci i' fea
4D’altro più chiaro e più gradito oggetto.
Ella al candido viso et al bel petto,
Vaga di sua beltà, gli occhi volgea,
E le dolci arme onde di morte è rea
8Affinar contra me prendea diletto.
Poi, come terse fiammeggiar le vide,
Ver me ratta girolle, e dal bel ciglio
11M’aventò al cor più di un pungente strale.
Lasso, ch'io non previdi il mio periglio.
Hor, se Madonna a' suoi ministri è tale,
14Quai fian le piaghe onde i rubelli ancide?

9

Chiaro cristallo a la mia donna offersi
Sì ch'entro vide la sua bella imago
Qual a punto il pensier formarla è vago
4E qual procuro di ritrarla in versi.
Ella da' pregi suoi tanti e diversi
Non torcea 'l guardo di tal vista pago,
Gli occhi mirando, e 'l dolce avorio e vago
8Del seno, e i capei d'or lucidi e tersi.
E parea fra sé dir: – Ben veggio aperta
L’alta mia gloria, e di che duri strali
11Questa bellezza mia l'alme saette –.
Così pur, ciò ch’un gioco anzi credette,
Mirando l'armi sue, si fé poi certa
14Quai piaghe habbia il mio core aspre e mortali.

10

Scrisse questo sonetto nella partenza d’una persona amata, la quale di Ferrara se n’era ita in Venetia, esortando poeticamente il Po a voler ricuperare ciò che dal mare gli era stato involato.

Re de gli altri, superbo, altero fiume,
Che qualhor esci del tuo regno, e vaghi,
Atterri ciò ch'opporsi a te presume,
4E l'ime valli e l'alte piagge allaghi;
Vedi che i Dei marini il lor costume
Serbando, i Dei sempre di preda vaghi,
Rapito han lei ch' era tua gloria e lume,
8Quasi il tributo usato hor non gli appaghi.
Deh tuoi seguaci homai contra 'l Tiranno
Adria solleva, e pria ch'ad altro aspiri,
11Racquista il Sol che 'n queste sponde nacque.
Osa pur, che mill'occhi a te daranno
Mille fiumi in soccorso, e de' sospiri
14Il foco al mar torrà la forza e l'acque.

11

Mentre la sua donna dimorava in Venetia scrisse questo sonetto, narrando poeticamente gli effetti ch’ella operava nel mare.

I freddi e muti pesci avezzi homai
Ad arder sono et a parlar d'amore,
E tu Nettuno, e tu Anfitrite hor sai
4Come rara bellezza allacci un core,
Da che 'n voi lieto spiega i dolci rai
Il sol che fu di queste sponde honore;
Il chiaro sol cui più devete assai
8Ch’a l'altro uscito del sen vostro fuore.
Ché quegli ingrato, a cui non ben soviene
Com'è da voi cortesemente accolto,
11V’invola il meglio, e lascia il salso e 'l greve.
Ma questi con le luci alme e serene
V’affina e purga, e rende il dolce e 'l lieve,
14E molto più vi dà che non v'è tolto.

12

Gli furo donate dalla sua donna alcune herbe raccolte in insalata, le quali sendo state cultivate dalle proprie mani di lei, gli diedero occasione di comporre il presente sonetto.

Herbe felici, che già in sorte haveste,
Di vento in vece e di temprato sole,
Il raggio di duo luci accorte honeste
4E l'aura di dolcissime parole;
Che già dal bianco piè presse cresceste,
E qualhor più la terra arsa si duole,
Pronta a scemar il vostro ardor vedeste
8La bella man che i cori accender suole;
Ben sete dono aventuroso e grato,
Ond'addolcisco il molto amaro, e satio
11Il digiuno amoroso a pieno i' rendo.
Già novo Glauco in ampio mar mi spatio
D’immensa gioia, e 'l mio mortale stato
14Posto in oblio, divina forma i' prendo.

13

Poi che Madonna sdegna,
Fuor d'ogni suo costume,
Volger in me de' suoi begli occhi il sole,
Qualch'arte, Amor, m'insegna,
5Ond'io del vago lume
Alcun bel raggio ascosamente invole,
E gli occhi egri console.
Né giusto fia che teco ella se 'n doglia:
Ché, se furommi il core,
10Fia 'l mio furto minore
Quando in dolce vendetta un guardo i' toglia.

14

Amor l'alma m'allaccia
Di dolci aspre catene:
Né mi doglio io perciò, ma ben l'accuso
Che mi leghi et affrene
5La lingua, acciò ch'io taccia
Anzi a Madonna timido e confuso,
E 'n mia ragion deluso.
Sciogli, pietoso Amore,
La lingua, e se non vuoi
10Che mi stringa un sol men de' lacci tuoi,
Tanti n'aggiungi in quella vece al core.

15

Aura c’hor quinci intorno scherzi e vole
Fra 'l verde crin de' mirti e degli allori,
E destando ne' prati i vaghi fiori
4Con dolce furto un caro odor n'invole;
Deh, se pietoso spirto in te mai suole
Svegliarsi, lascia i tuoi lascivi errori
E colà drizza l'ali ove Licori
8Stampa in riva del Po gigli e viole,
E nel tuo molle sen questi sospiri
Reca, e queste querele alte amorose,
11Là 've già prima i miei pensier n'andaro.
Potrai poi quivi a le vermiglie rose
Involar di sue labra odor più caro,
14E riportarlo in cibo a' miei desiri.

16

Risponde ad una gentil donna la qual proverbiandolo gli havea detto che non poteva vero amor esser quello ch’era palese a molti.

Chi di non pure fiamme acceso ha 'l core,
E lor ministra esca terrena immonda,
Chiuda l'incendio in parte ima e profonda
4Sì che favilla non n'appaia fuore.
Ma chi infiammato d'un celeste ardore
D’ogni macchia mortal si purga e monda,
Ragion non è che 'l nobil foco asconda
8Chiuso nel sen: né tu 'l consenti, Amore.
Ché s'altri (tua mercé) s' affina e terge,
Vuoi che 'l mondo il conosca, e ch'indi impare
11Quanto in virtù di duo begli occhi puoi.
E s'alcun pur il cela, insieme i tuoi
Più degni fatti in cieco oblio sommerge,
14E de l'alte tue glorie invido appare.

17

Vedrò dagli anni in mia vendetta ancora
Far di queste bellezze alte rapine;
Vedrò starsi negletto il bianco crine
4C’hora l'arte e l'etate increspa e 'ndora;
E 'n su le rose ond'ella il viso infiora
Sparger il verno poi nevi e pruine:
Così 'l fasto e l' orgoglio havrà pur fine
8Di costei, ch'odia più chi più l’honora.
Sol rimarranno allhor di sua bellezza
Penitenza e dolor, mirando sparsi
11Suoi pregi, e farne il Tempo a sé trofei.
E forse fia ch'ov’hor mi sdegna e sprezza,
Poi brami accolta dentro a' versi miei
14Quasi in rogo Fenice rinovarsi.

18

Quando havran queste luci e queste chiome
Perduto l'oro e le faville ardenti,
E di tua beltà l'arme hor sì pungenti
4Saran dal tempo rintuzzate e dome,
Fresche vedrai le piaghe mie, né come
In te le fiamme, in me gli ardori spenti,
E rinovando gli amorosi accenti
8Rischiarerò la voce al tuo bel nome;
E quasi in specchio che 'l difetto emende
Degli anni, ti fian mostre entro a' miei carmi
11Le tue bellezze in nulla parte offese.
Fia noto allhor ch'a lo spuntar de l'armi
Piaga non sana, e ch'esca un foco apprende
14Che vive quando spento è chi l'accese.

19

Quando vedrò nel verno il crine sparso
Haver di neve e di pruine algenti,
E 'l seren de' miei dì lieti e ridenti
4Col fior degli anni miei fuggito e sparso,
Non sarò punto al tuo bel nome scarso
De le mie lodi e degli usati accenti,
Né da gel de l'età fiano in me spenti
8Quegli incendi amorosi ond’hor son arso.
Anz'io, c’hor sembro augel palustre e roco,
Cigno parrò lungo il tuo nobil fiume
11Che già l’hore di morte habbia vicine.
E quasi fiamma che vigore e lume
Ne l'estremo riprenda anzi 'l suo fine,
14Risplenderà più chiaro il mio bel foco.

20

Chi chiuder brama a' pensier vil il core
Apra in voi gli occhi, e i doni in mille sparsi
Uniti in voi contempli, e 'n lui crearsi
4Sentirà nove voglie e novo amore.
Ma se scender nel seno estremo ardore
Sente da' lumi di pietà sì scarsi,
Non s'arretri o difenda, ove in ritrarsi
8Non è salute, o in far difesa honore.
Anzi, sì come già Vergini sacre
Nobil fiamma nutrir, tal egli sempre
11Esca rinovi al suo vivace foco:
Ché dolcezze soffrendo amare et acre
E quasi Alcide ardendo a poco a poco
14Cangerà, fatto Dio, natura e tempre.

21

Scrive ad un suo amico, il quale havendolo condotto ad una festa, cercava di far sì ch’egli, invaghitosi d’alcuna nuova bellezza, si dimenticasse della sua donna absente.

Non fia mai che 'l bel viso in me non reste
Sculto, o che d'altra imago il cor s'informe,
Né che là dove ogn'altro affetto dorme
4Novo spirto d'amor in lui si deste.
Né men sarà ch'io volga gli occhi a queste
Di terrena beltà caduche forme
Per isviar i miei pensier da l'orme
8D’una bellezza angelica e celeste.
A che pur dunque d'invaghir la mente
Cerchi del falso e torbido splendore
11Che 'n mille aspetti qui sparso riluce?
Deh sappi homai com'ha facelle spente
Per ciascun’altra, e strali ottusi Amore,
14E che sol nel mio sole è vera luce.

22

Scrisse questo sonetto avvicinandosi l’hora ch’a lui conveniva allontanarsi dalla sua donna.

M'apre talhor Madonna il suo celeste
Riso fra perle e bei rubini ardenti,
E l'orecchie inchinando a' miei lamenti
4Di dolce affetto il ciglio adorna e veste.
Ma non avien però ch'ella mai deste
Nel crudo sen pietà de' miei tormenti:
Anzi mia cetra, e i miei non rozi accenti,
8E me disprezza, e le mie voglie honeste.
Né pietà è quella che negli occhi accoglie,
Ma crudeltà, che 'n tal forma si mostri
11Perché l'alma ingannata arda e consumi.
Specchi del cor fallaci, infidi lumi,
Ben riconosco in voi gli inganni vostri:
14Ma che pro, se schivarli Amor mi toglie?

23

Tu vedi, Amor, come col dì se 'n vole
Mia vita, e 'l fine a me prescritto arrive,
Né trovo scampo onde la morte io schive,
4Ché non s'arresta a' preghi nostri il sole.
Ma se pietosa del mio fin pur vuole
Serbar Madonna in me sue glorie vive,
I begli occhi ond'al ciel l'ira prescrive
8Volga ver lui pregando, e le parole:
Ché del suon vago e de la vista, il corso
Fermarà Febo, et allungando il giorno
11Spatio al mio dì vitale anco fia giunto.
Ma chi m'affida (ohimé) ch'egli compunto
A l'alto paragon d'invidia e scorno
14No 'l fugga, e lenti a' suoi destrieri il morso?

24

Narra come essendo lontano dalla sua donna, e per ciò addoloratissimo, fu da lei in sogno consolato.

Giacea la mia virtù vinta e smarrita
Dal duolo in sua ragion sempre più forte,
Quando il sonno pietoso di mia sorte
4Seco addusse Madonna a darle aita:
Che sollevò gli spirti, e 'n me sopita
La doglia, a nove speme aprio le porte.
Così allhor ne l'imagine di Morte
8Trovò l'egro mio cor salute e vita.
Volgeva ella in me gli occhi e le parole
Di pietà vera ardenti: – A che pur tanto,
11O mio fedel, t'affligi e ti consumi?
Ben tempo ancor verrà ch'al chiaro sole
Di quest'amate luci asciughi il pianto,
14E 'l fosco di tua vita in lui rallumi –.

25

I' vidi un tempo di pietoso affetto
La mia nemica ne' sembianti ornarsi,
E l'alte fiamme in cui sì felice arsi
4Nutrir con le speranze e col diletto.
Hora (né so perché) la fronte e 'l petto
Usa di sdegno e di fierezza armarsi,
E coi guardi ver me turbati e scarsi
8Guerra m'indice, ond'io sol morte aspetto.
Ahi non si fidi alcun, perché sereno
Volto l'inviti e 'l sentier piano mostri,
11Nel pelago d'Amor spiegar le vele.
Così l'infido mar placido il seno
Scopre, e i nocchieri alletta: e poi crudele
14Gli affonda e perde fra gli scogli e i mostri.

26

Qualhor pietosa i miei lamenti accoglie
Madonna, e gradir mostra il foco ond'ardo,
Sprona il desio, che più che tigre o pardo
4Veloce allhor da la ragion si scioglie.
Ma se poi per frenar l'ardite voglie
Di sdegno s'arma, e vibra irato sguardo,
Già far non puote il corso lor più tardo,
8Ma più nel seguir lei par che m'invoglie.
Ché s'addolcisce ivi lo sdegno, e prende
Sembianza di pietate, e nel sereno
11De' begli occhi tranquille appaion l'ire.
Hor che fia mai ch'arresti il mio desire,
S’egualmente lo spinge e pronto il rende
14Con sembiante virtù lo sprone e 'l freno?

27

Sonetto di partenza.

Sentiv'io già correr di morte il gelo
A lunghi passi per le vene al core,
E folta pioggia di perpetuo humore
4M’involgea gli occhi in tenebroso velo;
Quando arder vidi in sì pietoso zelo
Madonna, e sì cangiar volto e colore,
Che non pur adolcir l'aspro dolore,
8Ma potea fra gli abissi aprirmi il cielo.
– Vattene (disse) e, se 'l partir t'è grave,
Non sia tardo il ritorno: e serba intanto
11Parte almen viva del tuo foco interno –.
O felice il languir cui sì soave
Medicina s'aspetti: hor ben discerno
14Ch'esser si può beato ancor nel pianto.

28

Stavasi Amor, quasi in suo regno, assiso
Nel seren di due luci ardenti et alme,
Mille vittrici insegne e mille palme
4Trionfali spiegando entro 'l bel viso;
Quando rivolto a me, che 'ntento e fiso
Mirava le sue ricche altere salme,
Disse: – Canterai tu come tant'alme
8Habbia, e te stesso ancor vinto e conquiso.
Né tua cetra sonar l'arme di Marte
Più s'oda homai, ma l'alte e chiare glorie
11E i divin pregi nostri, e di costei –.
Così convien c’hor ne l'altrui vittorie
Canti mia servitute e i lacci miei,
14E tessa de' miei danni historia in carte.

29

O nemica d'Amor, che sì ti rendi
Schiva di quel ch'altrui dà pace e vita,
E dolce schiera a' suoi diporti unita
4Dispergi e parti, e lui turbi et offendi:
Se de l'altrui bellezza invidia prendi,
Che de' tuoi danni a rimembrar t'invita,
Lassa, ché non t'ascondi, et in romita
8Parte e selvaggia i giorni estremi spendi?
Ché non conviensi già tra le felici
Squadre d'Amore e tra 'l diletto e 'l gioco
11Donna antica in imagine di Morte.
Deh fuggi homai dal sole in chiuso loco,
Come notturno augel, né tristi auspici
14Il tuo apparir a' lieti amanti apporte.

30

Arsi gran tempo, e del mio foco indegno
Esca fu sol beltà terrena e frale,
E qual palustre augel pur sempre l'ale
4Volsi di fango asperse ad humil segno.
Hor che può gelo di sì giusto sdegno
Spegner nel cor l'incendio aspro e mortale,
Scosso d'ogni vil soma al ciel ne sale
8Con pronto volo il mio non pigro ingegno.
Lasso, e conosco hor ben che quanto i' dissi
Fu voce d’huom cui ne' tormenti astringa
11Giudice ingiusto a traviar dal vero.
Perfida, ancor ne la mia lingua spero,
Che donde pria ti trasse, ella ti spinga
14D’un cieco oblio ne' più profondi abissi.

31

Non più cresp'oro et ambra tersa e pura
Sembrano i crin che 'ndegno laccio ordiro,
E nel volto e nel seno altro non miro
4Che vana di bellezza ombra e pittura.
Fredda è la fiamma homai, la luce oscura
De gli occhi, e senza gratia il moto e 'l giro.
Deh come i miei pensier di te invaghiro,
8Lasso, e chi 'l senso e la ragion ne fura?
Ahi ch'io cieco d'amor altru' ingannai,
In rime ornando di sì ricchi fregi
11La forma tua, che poi leggiadra apparve.
Ecco i' rimovo le mentite larve:
Hor ne la propria tua sembianza homai
14Ti veggia il mondo, e ti derida e spregi.

32

Mentre soggetto al tuo spietato regno
Vissi, ove ricondurmi ancor contendi,
Via più de le procelle e degli incendi
4Temea pur l'ombra d'un tuo leve sdegno.
Hor che ritratto ho il cor dal giogo indegno,
L’arme ardenti de l'ira in van riprendi,
E 'n van tanti ver me folgori spendi,
8Né di mille tuoi colpi un fere il segno.
Vibra pur fiamme e strai, faccia l'estremo
D’ogni tua possa orgoglio e crudeltade,
11Nulla curo io se tuoni o se saetti.
Così mai d'amor raggio o di pietade
Non veggia in te, né speme il cor m' alletti,
14Ché men fera che placida ti temo.

33

Ahi qual angue infernale entro 'l mio seno
Serpendo, tanto in lui veleno accolse?
E chi formò le voci, e chi disciolse
4A la mia lingua temeraria il freno,
Sì che turbò Madonna, e 'l bel sereno
De la sua luce in atra nebbia involse?
Quel ferro che Tifeo contra 'l ciel volse
8Forse de la mia penna empio fu meno.
Hor qual arena sì deserta o folto
Bosco sarà tra l'Alpi, ov'io m'invole
11Da l'altrui vista solitario e vago?
Lasso, e com'oso hor di mirar il sole,
Se le bellezze sue sprezzai nel volto
14De la mia donna, quasi in propria imago?

34

Venendo l’Autore di Bologna in Padova, fu raccolto nell’Accademia degli Eterei, che si ragunava in casa del Signor Scipione Gonzaga suo particolar signor e protettore, ond’egli scrisse loro questo sonetto continuando nella metafora del Tasso arbore del suo cognome, de’ cui frutti gustando l’api producono il mele amarissimo.

Poi che 'n vostro terren vil Tasso alberga
Dal Ren traslato, ond'empia man lo svelse,
Là 've par ch'egualmente homai l'eccelse
4Piante e le basse horrida pioggia asperga,
S’egli già fu negletta et humil verga,
Hor mercé di colui che qui lo scelse
Fra' suoi be' lauri, e propria cura felse,
8Tosto averrà ch'al ciel pregiato s'erga.
E caldi raggi, e fresch'aure e rugiade
Pure n'attende a maturar possenti
11E raddolcir l'amate frutta acerbe,
Onde il lor succo a l'api schife aggrade
E mel ne stilli che si pregi e serbe
14Poscia in Parnaso a le future genti.

35

Mentre l’Autore viveva sotto la protettione dell’Eccellentissimo Signor Duca d’Urbino, compose questo sonetto in lode di quei’ paesi e di quella corte, ridutto in ogni tempo degli huomini letterati, et ove il Bembo in particolare soleva spesso ripararsi.

In questi colli, in queste istesse rive
Ove già vinto il duce mauro giacque,
Quel gran cigno cantò che 'n Adria nacque
4E c’hor tra noi mortali eterno vive.
Quante volte qui seco, o sacre Dive,
Veniste a diportarvi, e quanto piacque
Altrui suo dolce suon, che fuor de l'acque
8Spesso ignude trahea le Ninfe schive!
Fu questo nido stesso, ov'io m'accoglio,
Contra l’ira del ciel a lui riparo:
11E qual più fido albergo hoggi è tra noi?
Ma come audace io qui la lingua scioglio?
Quest'aria, ch'addolcio canto sì chiaro,
14Dritto non è che roca voce annoi.

36

Chi 'l pelago d’Amor a solcar viene,
In cui sperar non lice aure seconde,
Te prenda in duce, e salvo il trarrai donde
4Huom rado scampa a le bramate arene.
Tu le Sirti, e le Scille, e le Sirene,
E qual mostro più fiero entro s'asconde,
Varchi a tua voglia, e i venti incerti e l'onde,
8Qual nume lor, con certe leggi affrene.
Poi quando addutte in porto havrà le care
Sue merci, ove le vele altri raccoglie
11E 'l tranquillo d’Amor gode securo,
Te non pur novo Tifi o Palinuro,
Ma suo Polluce appelli, e 'n riva al mare
14Appenda al nume tuo votive spoglie.

37

Come fra 'l gelo d’honestà s'accenda
In nobil donna un puro e dolce ardore,
E come il marmo ond'ella impetra il core,
4Tenero e molle esperto Amante renda,
E con qual armi sé copra e difenda
Ne' dubbi assalti ov’huom sì spesso more,
Ne le tue carte a noi rivela Amore,
8E da te solo vuol ch’hoggi s'apprenda.
Tu con l'istessa man che sì sovente
Il ferro tratta, e fra la turba hostile
11Apre a' seguaci suoi largo sentiero,
Ne spieghi in chiaro et honorato stile
L’arte pur dianzi inculta, e parimente
14Sei di Marte e d'Amor duce e guerriero.

38

Scrisse all’Illustrissimo Signor Scipione Gonzaga, lodandolo con una nuova maniera dell’eccellenza della poesia e della virtù dell’operare.

Ben per tuo danno in te sì larga parte
Del suo divino spirto Apollo infonde,
E i doni suoi, perché tu sol n'abonde,
4Sì scarsamente a noi versa e comparte:
Ché se fosse in altrui l'ingegno e l'arte
Che 'n te quasi sepolto hoggi s'asconde,
Sol dagli alti tuoi pregi, e non altronde,
8Torria nobil materia a mille carte.
Tu, mentre gli occhi in ogni parte giri,
Né ritrovi al tuo canto egual soggetto,
11Pien di sdegno gentil taci e sospiri.
Perché dir di te stesso a te non lece?
Perché ciò deve a SCIPIO esser disdetto,
14Se già (né senz’honor) Cesare il fece?

39

Scritto all’Eccellentissima Madama Leonora da Este, alla quale da’ medici per alcuna sua infermità era stato vietato il cantare.

Ahi ben è reo destin che 'nvidia e toglie
Al mondo il suon de' vostri chiari accenti,
Onde adivien che le terrene genti
4De' maggior pregi impoverisca e spoglie:
Ch'ogni nebbia mortal che 'l senso accoglie
Sgombrar potea da le più fosche menti
L’armonia dolce, e bei pensieri ardenti
8Spirar d’honore, e pure e nobil voglie.
Ma non si merta qui forse cotanto,
E basta ben che i seren'occhi e 'l riso
11N’infiammin d'un piacer celeste e santo.
Nulla fora più bello il paradiso,
Se 'l mondo udisse in voi d'angelo il canto,
14Sì come vede in voi d'angelo il viso.

40

Padre del cielo, hor ch'atra nube il calle
Destro m'asconde, e vie fallaci stampo
Con vago piè per questo instabil campo
4De la mondana e paludosa valle,
Regga tua santa man, sì ch'ei non falle,
Mio corso errante, e di tua gratia il lampo
Dolce sovra me splenda, e del mio scampo
8Quel sentier mostri a cui vols'io le spalle.
Deh pria che 'l verno queste chiome asperga
Di bianca neve, e 'l mio nascente giorno
11Chiuda in tenebre eterne il fosco lume,
Dammi ch'io faccia a tua magion ritorno,
Come sublime augel che spieghi et erga
14Da vil fango palustre al ciel le piume.

41

Sendo lontano dalla sua donna, udì la novella delle sue nozze, nella quale occasione compose la presente canzona.

Amor, tu vedi, e non hai duolo o sdegno,
Chinar Madonna il collo al giogo altrui:
Anzi ogni tua ragion da te si cede.
Lasso, se 'l bel tesoro ond'io già fui
5Sì vago, altri s'ha tolto, hor qual può degno
Premio il merto adeguar de la mia fede?
Qual più sperar ne lice ampia mercede
Da la tua ingiusta man, se 'n un sol punto
Hai le ricchezze tue diffuse e sparte?
10Anzi pur chiuse in parte
Ov'un sol gode ogni tuo ben congiunto.
Ben folle è chi non parte
Homai lungi da te, ché tu non puoi
Pascer se non di furto i servi tuoi.
15Ecco ch'io dal tuo regno il piè rivolgo,
Regno crudo infelice; ecco ch'io lasso
Qui le ceneri sparte e 'l foco spento.
Ma tu mi segui e mi raggiungi, ahi lasso,
E per fuggirti indarno il nodo i' sciolgo:
20Ch'ogni corso al tuo volo è pigro e lento.
Già via più calde in sen le fiamme sento,
E via più gravi al piè lacci e ritegni:
E come a servo fuggitivo ingrato,
Qui sotto 'l manco lato
25D’ardenti note il cor m' imprimi, e 'l segni
Del nome a forza amato;
E perch'arroge al duol, ch'è in me sì forte,
Formi al pensier ciò che più noia apporte.
Ch'io scorgo in riva al Po Letitia e Pace
30Scherzar con Himeneo, che 'n chiaro suono
Chiama la turba a' suoi diletti intesa.
Liete danze vegg'io, che per me sono
Funebri pompe, et un'istessa face
Ne l'altrui nozze e nel mio rogo accesa;
35E quasi Aurora in Oriente ascesa,
Donna apparir, che vergognosa in atto
I rai de' suoi begli occhi a sé raccoglia,
E ch'altri un bacio toglia,
Pegno gentil, dal suo bel viso intatto,
40E i primi fior ne coglia:
Quei che già cinti d'amorose spine
Crebber vermigli infra le molli brine.
Tu ch'a que' fiori, Amor, d' intorno voli
Qual ape industre, e 'n lor ti pasci e cibi,
45Schivo homai di tutt'altre esche mortali,
Deh come puoi soffrir ch'altri delibi
Humor sì dolce, e 'l tuo nettar t'involi?
Non hai tu da ferir gli usati strali?
Lasso, e ben fosti allhor pronto a' miei mali
50Che da vaghezza tratto incauto i' venni
Là 've spirar tra le purpuree rose
Sentii l'aure amorose,
E ben piaghe da te gravi sostenni,
Ch'aperte e sanguinose
55Ancor dimostro a chi le stagni e chiuda:
Ma trovo chi le inaspra ognihor più cruda.
Ohimé che ’l mio pensier ciò che più duole
A l'alma inferma hor di ritrar fa prova,
E più s'interna ognihor ne le sue pene.
60Ecco che la mia donna, in cui sol trova
Sostegno il core, hor come vite suole,
Che per se stessa caggia, altrui s'attiene;
Qual hedera negletta hor la mia spene
Giacer vedrassi, s'egli pur non lice
65Che la sostegna chi altrui s'abbraccia.
Ma tu, ne le cui braccia
Sorge vite sì bella, arbor felice,
Poggia pur, né ti spiaccia
Ch'augel canoro intorno a' vostri rami
70Goda sol l'ombra, e più non speri o brami.
Né la mia donna, perc’hor cinga il petto
Di novo laccio, il laccio antico sprezzi
Che di vedermi al cor già non le increbbe;
Od ella che l'avinse, ella lo spezzi,
75Ché sciorlo homai, così è 'ntricato e stretto,
Né la man stessa che l'ordio potrebbe.
E se pur anco occultamente crebbe
Il suo bel nome ne' miei versi accolto,
Quasi in fertil terreno arbor gentile,
80Hor segua in ciò suo stile,
Né prenda a sdegno esser cantato e colto
Da la mia penna humile:
Ché forse Apollo in me le gratie sue
Verserà, dove scarso Amor mi fue.
85Canzon, sì l'alma è ne' tormenti avezza,
Che, se ciò gli è concesso, ancor confida
Paga restar ne le miserie estreme;
Ma se di questa speme
Avien che 'l debil filo altri recida,
90Deh tronchi a un colpo insieme
(Ch'io 'l bramo e 'l cheggio) al viver mio lo stame
E l'amoroso mio duro legame.

42

Questa è la prima di tre sorelle, scritte a Madama Leonora da Este sua singularissima padrona e benefattrice, la quale con danno universale sendo stata lungo tempo inferma, dava in quel tempo che fu fatta questa canzone, speranza di riconvalersi; l’altre due sorelle non sendo ancora ridutte a buon termine non si vedranno per hora con queste compositioni.

Mentre ch'a venerar movon le genti
Il tuo bel nome in mille carte accolto,
Quasi in sacrato tempio idol celeste;
E mentre c’ha la Fama il mondo volto
5A contemplarti, e mille fiamme ardenti
D’immortal lode in tua memoria ha deste;
Deh non sdegnar ch'anch'io te canti, e 'n queste
Mie basse rime volontaria scendi,
Né sia l'albergo lor da te negletto:
10Ch'anco sott’humil tetto
S’adora Dio, cui d'assembrarti intendi,
Né sprezza il puro affetto
Di chi sacrar face mortal gli suole,
Benché splenda in sua gloria eterno il sole.
15Forse, come talhor candide e pure
Rende Apollo le nubi, e chiuso intorno
Con lampi non men vaghi indi traluce,
Così vedrassi il tuo bel nome adorno
Splender per entro le mie rime oscure
20E 'l lor fosco illustrar con la sua luce;
E forse anco per sé tanto riluce,
Ch'ov'altri in parte non l'asconda, e tempre
L’infinita virtù de' raggi sui,
Occhio non fia che 'n lui
25Fiso mirando non s'abbagli e stempre:
Onde, perch'ad altrui
Col suo lume medesmo ei non si celi,
Ben dei soffrir ch'io sì l'adombri e veli.
Né spiacerti anco dee che solo in parte
30Sia tua beltà ne' miei colori espressa
Da lo stil ch'a tant'opra audace move:
Però che s'alcun mai quale in te stessa
Sei, tal ancor ti ritrahesse in carte,
Chi mirar osaria forme sì nove
35Senza volger per tema i lumi altrove?
O chi mirando folgorar gli sguardi
De gli occhi ardenti, e lampeggiar il riso,
E 'l bel celeste viso
Quinci e quindi aventar fiammelle e dardi,
40Non rimarria conquiso,
Bench'egli prima in ogni rischio audace
Non temesse d'Amor l'arco e la face?
E certo il primo dì che 'l bel sereno
De la tua fronte agli occhi miei s'offerse
45E vidi armato spatiarvi Amore,
Se non che riverenza allhor converse,
E maraviglia, in fredda selce il seno,
Ivi peria con doppia morte il core;
Ma parte de gli strali e de l'ardore
50Sentii pur anco entro 'l gelato marmo:
E s'alcun mai per troppo ardire ignudo
Vien di quel forte scudo,
Ond'io dinanzi a te mi copro et armo,
Sentirà 'l colpo crudo
55Di tue saette, et arso al fatal lume
Giacerà con Fetonte entro 'l tuo fiume.
Ché, per quanto talhor discerne e vede
De' secreti di Dio terrena mente
Che da Febo rapita al ciel se 'n voli,
60Providenza di Giove hora consente
Che 'nterno duol con sì pietose prede
Le sue bellezze al tuo bel corpo involi:
Ché se l'ardor de' duo sereni soli
Non era scemo, e 'ntepidito il foco
65Che ne le guance sovra 'l gel si sparse,
Incenerite et arse
Morian le genti, e non v’havea più loco
Di riverenza armarse,
E, ciò che 'l Fato pur minaccia, allhora
70In faville converso il mondo fora.
Ond'ei che prega il ciel che nel tuo stato
Più vago a lui ti mostri, e c’homai spieghi
La tua beltà, che 'n parte ascosa hor tiene,
Come incauto non sa che ne' suoi preghi
75Non chiede altro che morte? E ben il fato
Di Semele infelice hor mi soviene,
Che 'l gran Giove veder de le terrene
Forme ignudo bramò, come de' suoi
Nembi e fulmini cinto in sen l'accoglie
80Che gli è sorella e moglie;
Ma sì gran luce non sostenne poi:
Anzi sue belle spoglie
Cenere fersi, e nel suo caso reo
Né Giove stesso a lei giovar poteo.
85Ma che? forse sperar ancor ne lice
Che se ben dono ond'arda e si consumi
Tenta impetrar con mille preghi il mondo,
Potrà poi anco al sol di duo be' lumi
Rinovellarsi in guisa di Fenice
90E rinascer più vago e più giocondo,
E quanto ha del terreno e de l'immondo
Tutto spogliando, più leggiadre forme
Vestirsi: e ciò par ch'a ragion si spere
Da quelle luci altere,
95Ch'esser dee l'opra a la cagion conforme;
Né già si puon temere
Da beltà sì divina effetti rei,
Ché vital è 'l morir, se vien da lei.
Canzon, deh sarà mai quel lieto giorno
100Che 'n que' begli occhi le lor fiamme prime
Raccese io veggia, e ch'arda il mondo in loro?
Ch'ivi, qual foco l'oro,
Anch'io purgarei l'alma, e le mie rime
Foran d'augel canoro,
105C’hor son vili e neglette, se non quanto
Costei le onora col bel nome santo.