[Dedica]
Io non dubbito di dedicare a V. S. illustrissima questa mia opera del poema eroico, benché ella sia più tosto riguardevole per artificio che per grandezza ; anzi ho deliberato d’appoggiarla a l’autorità di V. S. illustrissima com'a saldissima pietra. Laonde potrà di lei avvenire quel ch’aviene de le picciole statue, le quali, collocate in altissima parte, non sono occulte, paiono assai minori nondimeno a’ risguardanti ; ma la picciolezza de l’opera può esser compensata non solamente da la mia devozione e da la servitù la quale ho con lei e con tutta la sua illustrissima casa, ma da la sua grazia parimente. V. S. illustrissima ha l’animo eguale al giudicio, e l’uno e l’altro maggiore de la sua propia fortuna, ma non de la sua cortesia, con la quale ha sempre riguardate me e le cose mie assai benignamente ; però m’assicuro che ne le picciole opere ancora debba esser la mia servitù di qualche considerazione. E le bacio umilissimamente la mano.
Di V. S. illustrissima e reverendissima
servitore
LIBRO PRIMO
[1] I poemi eroici, e i discorsi intorno a l'arte e il modo del comporli a niuno ragionevolmente dovrebbono esser più cari che a coloro i quali leggono volentieri azioni somiglianti alle proprie operazioni e a quelle de' lor maggiori: percioché si veggono messa innanzi quasi una imagine di quella gloria per la quale essi sono stimati a gli altri superiori; e riconoscendo le virtù del padre e de gli avi, se non più belle, almeno più ornate con varii e diversi lumi della poesia, cercano di conformar l'animo loro a quello essempio; e l'intelletto loro medesimo è il pittore che va dipingendo nell'anima a quella similitudine le forme della fortezza, della temperanza, della prudenza, della giustizia, della fede, della pietà e della religione e d'ogni altra virtù la quale o sia acquistata per lunga essercitazione, o infusa per grazia divina. Avendo dunque io proposto di correggere e publicar quel ch'io, già molti anni sono, scrissi in quattro libri, ne' quali mostrai quasi l'idea del poema eroico, ho voluto fare l'elezione della persona di V. S. illustrissima a cui dovessi dedicarli, perciò che ella è nata di progenie a cui questo nome si può attribuire non meno che ad alcuno altro de' moderni secoli e de gli antichi; e molti sono stati nella sua nobilissima stirpe veramente eroi e veramente dotati di fortezza e d'ogni altra virtù eroica. Ma questo non è luogo proprio de le sue lodi, ma delle ragioni che si possono rendere e dell'arteficio del poema epico, il quale, tutto che fosse occulto, sarebbe conosciuto da V. S. illustrissima. Ma essendo dimostrato da gli argomenti e dall'auttorità e da gli essempi, non può trovar meglior giudice, né più giusto estimatore; né la benevolenza o l'amicizia possono impedire in lei il conoscimento: perché l'una virtù non impedisce l'operazioni d'un'altra, ma più tosto suole agevolarla. V. S. illustrissima suole adoperare quel ch'adopera con tutte le virtù insieme. Laonde in una sola azione mostra molte perfezioni, e merita molte lodi unitamente, come in un solo cielo risplendono molte stelle. Non dubito dunque che 'l suo giudizio debbia diminuir la sua cortesia, o la sua cortesia far minore il giudizio; ma la prego che si degni di legger questi brevi Discorsi, e d'accettarli quasi veri testimonii della mia antica servitù. E acciò che sia più facilmente da lei riconosciuta, non ho voluto fare in loro molte mutazioni né molto accrescimento, quantunque con gli anni sogliono crescere quelle cose che non hanno ancora ricevuto la loro perfezione. Oltre acciò, ho dubitato che altri non potesse credere ch'io volessi attribuirmi l'opinione d'alcuni; però delle molte cose ch'io ho dopoi lette e considerate in questa materia, ho aggiunte solamente quelle delle quali aveva raggionato publicamente in Bologna, o privatamente in Ferrara e in altre parti con molti amici miei. Per niuna cagione adunque deve esser rifiutato il testimonio di questa piccola opera, la quale io composi in pochi giorni e molti anni prima ch'io ripigliassi il poema tralasciato nel terzo o nel quarto canto. Ma, benché si prestasse fede all'anteriorità, non si dee negare alle raggioni; e io ho scelte alcune di quelle ch'in questa materia possono essere scritte con acconcio modo, percioché non apportano seco necessità senza persuasione, né fanno violenza a l'animo di chi legge, ma lasciano libero il giudizio de l'approvare.
[2] Dico adunque che in tutte le cose si dee riguardare all'ultimo, come dice Aristotele ne la Topica; ma l'ultimo è uno, laonde non si può ritrovare unitamente in molti particolari; ma considerando le bontà nell'eccellenze che sono divise fra molti, si forma l'idea della bontà e dell'eccellenza, come formò Zeusi quella della bellezza quando volle dipingere Elena in Crotone; e questa differenza è per aventura fra l'idee delle cose naturali che sono nella mente divina, e quella dell'artificiali, delle quali si figura e quasi dipinge l'intelletto umano: ché nell'una l'universale è innanzi le cose stesse, nell'altro dapoi le cose naturali. L'idea dunque delle cose artificiali è formata dopo la considerazione di molte opere fatte artificiosamente; nelle quali tuttavolta non è l'ottimo, ma quella è migliore che più le s'avicina. Dovendo dunque io mostrar l'idea dell'eccellentissimo poema eroico, non debbo preporre per essempio un poema solo, bench'egli fosse più bello de gli altri, ma, raccogliendo le bellezze e le perfezioni di ciascuno, insegnare come egli si possa fare bellissimo e perfettissimo insieme.
[3] Ma prima debbiamo per aventura ricercare quel che sia il poema eroico, o pur quel che sia il poema, ch'è il suo genere, e dopoi considerare l'idea, perché dall'idea si conosce, come dice Aristotele nel medesimo libro della Topica,se la definizione sia vera e propria; e benché in alcune cose non convenga a fatto, in questa, di cui parliamo, sicuramente possiamo considerare l'una e l'altra insieme. Oltre acciò, se per abondare d'argumenti debbiamo rimirare nell'essemplare, rimiriamo nell'idea, perché l'idea è 'l vero essemplare e 'l vero essempio, se così vogliamo dire più tosto; anzi possiamo usare la perfetta definizione in vece di regola e d'essempio, come insegna Alessandro Afrodiseo, esponendo Aristotele nel medesimo luogo. Ricerchiamo dunque prima quel che sia il poema o la poesia in generale; e poi troveremo la definizione di questa spezie, io dico del poema eroico o epico che sia chiamato.
[4] La poesia ha molte spezie: e l'una è l'epopeia, l'altre la tragedia, la comedia e quelle che si cantano con la cetera e con le pive o con le sampogne o con altri instrumenti pastorali; le quali tutte convengono nell'imitare. Laonde possiamo affermare senza dubbio che la poesia altro non sia ch'imitazione. Ma imitano anco la pittura e la scoltura e molte arti oltre queste. Però è necessario che s'aggiunga qualche differenza che la separi dall'altre arti imitatrici. Né già paiono diverse per la diversità delle cose imitate, perché il medesimo argomento della guerra di Troia, o de gli errori di Ulisse, potrà esser preso dal pittore e dal poeta; dunque la differenza dell'azioni rassomigliate non gli fa differenti, ma l'uno nell'imitar adopera i colori, l'altro le parole, o sciolte o più tosto legate con qualche certo numero. È dunque la poesia imitazione fatta in versi. Ma imitazione di che? Dell'azioni umane e divine, dissero gli stoici. Dunque coloro che non cantano l'azioni umane o divine non sono poeti. Non fu dunque poeta Omero quando egli descrisse la battaglia fra le rane e fra' topi; né poeta Virgilio descrivendoci i costumi e le leggi e le guerre dell'api. Dall'altra parte chi descriverà l'azioni divine sarà poeta. Poeta fu dunque Empedocle insegnandoci come l'Amore e la Discordia corrompano questo mondo sensibile e generino l'altro intelligibile; o poeta Platone quando introduce Timeo a narrare come Iddio padre, chiamando gli altri iddii minori, creasse il mondo; e se non fu poeta intieramente perché le manca il verso, almeno è dignissimo di questo nome in quello che appertiene alle cose imitate. Ma se questo è vero, essendo tutte l'azioni della natura amministrate con divina providenza, chi scrive l'azioni della natura par che sia poeta. Né credo già che gli eroici poeti avessero escluso Omero o Empedocle o Parmenide o vero Oppiano o altro sì fatto il quale prendesse il verso in presto da' veri poeti a guisa d'un carro, come dice Plutarco; forse avrebbono scacciato da questo numero poetico Lucrezio, perché egli scaccia quella loro antichissima πρόνοια , laonde la creazione del mondo, per suo aviso, non fu divina azione, ma fatta a caso; e l'azioni somiglianti non sono, per opinione di Aristotele, convenevole soggetto della poesia. Ma per aventura alcuno potrebbe desiderare di sapere la ragione per la quale l'azioni divine e umane solamente siano soggetto della poesia, e l'azioni de gli elementi e l'altre naturali non siano.
[5] Ma se tutte l'azioni possono essere imitate, essendo molte le spezie dell'azioni, molte saranno le spezie de' poemi; e perché in questo genere equivoco, come dice Simplicio ne' Predicamenti, la prima spezie è la contemplazione, la quale è azione dell'intelletto, la contemplazione ancora potrà essere imitata dal poeta; e, come pare ad alcuni, il poema di Dante ha per soggetto la contemplazione, perché quello suo andare all'inferno e al purgatorio, altro non significa che le speculazioni del suo intelletto. Altri vogliono che 'l soggetto sia un sogno, come è quello de' Trionfi del Petrarca, e l'Amorosa visione del Boccaccio; ma coloro che tengono questa opinione il fanno soggetto a maggiore opposizione che non è, secondo Platone, l'imitatore medesimo, perché nel primo grado della verità è l'idea, nel secondo la forma naturale e la cosa istessa, nel terzo la sua imitazione o l'imagine. Ma l'imitatore il quale rassomiglia non una azione vera, ma un sogno, e l'imagine dell' azione essendo più lontana dalla verità, sarebbe per conseguente più imperfetto; né si può concludere altro con la dottrina di Platone, quantunque Sinesio scrivesse che le favole hanno avuto principio da' sogni, e che non sia inconveniente che il sogno sia fine della favola, com'è principio; ma col parer d'Aristotele, dicendo egli che Empedocle è più tosto fisico che poeta, non si può concludere assolutamente ch'egli non sia poeta in modo alcuno; ma s'egli pur è poeta, l'azioni de gli elementi ancora che sono nell'infimo grado saran soggetto della poesia. Dunque poeta è similmente Lucrezio e 'l Pontano e gli altri ch'in versi hanno scritte le cose della natura; e se questa definizione è vera, non si dee diffinir la poesia imitazione dell'azioni umane e divine, perché se ne escluderebbono quelle de gli elementi e l'altre naturali e quelle de gli animali. Laonde sarebbono cacciati da questo numero non solo i poemi d'Empedocle e di Lucrezio e d'Oppiano, ma alcuno di quelli di Omero medesimo. Dall'altra parte a me non pare che sia imitata alcuna azione divina in quanto divina, perché,in quanto tale, per aventura non si può imitare con alcuno di quelli instrumenti che sono proprii della poesia; però che scrisse Aristotele nel primo della Politica che molti fingono le vite de gli iddii, come le figure e l'imagini, a somiglianza di quelle de gli uomini; e Isocrate che la poesia d'Omero e le prime tragedie sono degne di maraviglia, perché, avendo considerato la natura dell'ingegno umano, usarono impropriamente l'una e l'altra forma, altri trattando falsamente le guerre e le battaglie de' semidei, altri supponendo le favole a gli occhi. E Marco Tullio disse che Omero aveva trasportate le cose umane alle divine, «mallem divina ad nos», volendoci dare a divedere ch'egli aveva descritti gli iddii come uomini, e le passioni umane come divine, perché il parlare e 'l consigliarsi sono umane azioni, e l'adirarsi e 'l muoversi a compassione passioni de gli uomini. Atanasio ancora (per aggiongere uno scrittore sacro a tanti profani) nel libro Contra gentili lasciò scritto ch'Iddio adorato da' gentili è quasi un composto di ragionevole e d'irragionevole; però ne la sua imagine si congiunge l'una e l'altra forma, cioè l'umana e quella di bestia, come appresso gli Egizii Cinocefalo e Anubi; e l'azioni ancora furono attribuite a' loro iddii quasi ferine. Laonde se il pittore, quantunque dipinga Giove e Marte, Iside ed Osiri, non è pittore d'altra forma che dell'umana o di quella di fiera, perché la divinità non può da lui essere imitata, così il poeta di queste forme e di queste azioni non è imitatore, ma dell'umane principalmente o propriamente. Tanta è dunque la diversità fra l'imitatore delle cose divine e delle cose umane, quanta fra quelle che sono propriamente idee e queste che chiamiamo imagini e simolacri. Ma nell'idee ancora, come piace ad Aristotele nel primo della Metafisica, e ad Alessandro suo comentatore, è questa differenza di ragionevole e d'irragionevole, o cosa che con questa abbia proporzione; non è dunque maraviglia se i simolacri siano stati formati in questa guisa. Ma tornando ad Omero, dico che s'egli imita gli iddii sotto questa considerazione quasi contraria delle forme, dell'azioni e delle passioni de' mortali, si può affermare che egli sia imitatore dell'azioni umane e de gli iddii in quanto uomini. Parimente nella battaglia fra le rane e i topi sono trasferite ne gli animali le parole e gli affetti e i costumi che sono propri de gli uomini. Laonde io direi più tosto che la poesia altro non fosse che imitazione dell'azioni umane, le quali propriamente sono azioni imitabili; e l'altre non fossero imitate per sé, ma per accidente, o non come parte principale, ma come accessoria; e in questa guisa ancora si possono imitare non solo l'azione delle bestie, come la battaglia del liocorno co 'l leofante, o del cigno con l'aquila, ma le naturali, come le tempeste maritime, le pestilenze, i diluvii, gli incendii e i terremoti e l'altre sì fatte.
[6] Oltre acciò, dovendo, come abbiamo detto, ciascuna definizione risguardare all'ottimo, debbiamo nella definizione della poesia preporci un ottimo fine; ma l'ottimo fine è quello di giovare a gli uomini con l'essempio dell'azioni umane, perché l'essempio delle bestie non può giovare egualmente, e quel delle divine non è nostro proprio; dunque a questo deve esser dirizzata. La poesia è dunque imitazione dell'azioni umane, fatta per ammaestramento della vita. E perché ogni azione si fa con qualche consiglio e qualch'elezione, si tratterà del costume e della sentenzia per conseguente, la quale da' Greci è detta διάνοια; e benché, facendosi questa imitazione, si dia grandissimo diletto, non si può dire che duo sian i fini, l'uno del diletto, l'altro del giovamento, come pare che accennasse Orazio in quel verso:
Aut prodesse volunt aut delectare poetae;
perch' un'arte sola non può aver due fini, l'uno de' quali a l'altro non sia subordinato; ma, o si deve lasciare da parte il giovamento dell'ammonire e del consigliare, come dice Isocrate, e con l'essempio di Omero e de' tragici rivolger tutto lo sforzo dell'orazione al dilettare; o, volendo ritener il giovamento, si dee drizzar il piacere a questo fine; e per aventura il diletto è fine della poesia, e fine ordinato al giovamento. Però si legge nella seconda orazione del medesimo Isocrate che gli antichi poeti lasciarono ammaestramenti della vita per li quali gli uomini divennero migliori; e nel Panatenaico, che la poesia ci divertisce da molti delitti. Però null'altro essercizio più conviene a la giovenezza. Ma 'l giovamento è considerato principalmente da quella arte ch'è quasi architetto di tutte l'altre. Però al politico s'appartiene di considerare quale poesia debba esser proibita, e qual diletto, accioché il piacere, il quale dee esser in vece di quel mele di cui s'unge il vaso quando si dà la medicina a' fanciulli, non facesse effetto di pestifero veleno, o non tenesse occupati gli animi in vana lezione. Non dee dunque il poeta preporsi per fine il piacere, come per aventura credeva Eratostene, ripreso da Strabone, che difende Omero dall'imputazioni, ma 'l giovamento, perché la poesia, come estima il medesimo autore, seguendo l'opinione de gli antichi, è una prima filosofia, la qual sin dalla tenera età ci ammaestra ne' costumi e nelle ragioni della vita. Ma que' che seguirono poi portarono opinione che solo il poeta fosse sapiente. Almeno si dee credere che non ogni piacere sia il fine della poesia, ma quel solamente il quale è congiunto con l'onestà, perché sì come il diletto il quale nasce dal leggere le azioni brutte e disoneste è indignissimo del buon poeta, così il piacere d'imparar molte cose, congiunto con l'onestà, è suo proprio. Laonde per aventura questo fine non è così da sprezzare come parve al Fracastoro nel suo Dialogo della poesia; anzi paragonandolo all'utile, è più nobil fine quel del piacere, percioché egli è desiderato per se stesso, e l'altre cose per lui sono desiderate. Laonde in ciò è tanto simile alla felicità, la quale è il fine dell'uomo civile, che niuna cosa si può trovar più somigliante; oltre acciò è amico della virtù, perché egli fa magnifica la natura de gli uomini, come si legge in Ateneo; onde coloro che amano il piacere, e magnanimi e splendidi sogliono divenire. Ma l'utile non si ricerca per se stesso, ma per altro; per questa cagione è men nobil fine del piacere, e ha minor somiglianza con quello ch'è l'ultimo fine. Se 'l poeta dunque, in quanto poeta, ha questo fine, non errerà lontano da quel segno al quale egli deve dirizzare tutti i suoi pensieri, come arciero le saette; ma in quanto è uomo civile e parte della città, o almeno in quanto la sua arte è sottordinata a quella ch'è regina delle altre, si propone il giovamento, il quale è onesto più tosto che utile. De' due fini, dunque, i quali si prepone il poeta, l'uno è proprio dell'arte sua, l'altro dell'arte superiore; ma riguardando in quel che è suo proprio, dee guardarsi di non traboccare nel contrario, perché gli onesti piaceri sono contrari a' disonesti. Laonde non meritano lode alcuna coloro ch'hanno descritti gli abbracciamenti amorosi in quella guisa che l'Ariosto descrisse quel di Ruggiero con Alcina, o di Ricciardetto con Fiordispina; e peraventura il Trissino ancora avrebbe potuto tacere molte cose quando ci pone quasi innanzi agli occhi l'amoroso diletto che prese l'imperator Giustiniano della moglie; ma egli volle imitare Omero, il quale finge che Giunone e Giove in cima del monte Ida fossero coperti da una nuvola: invenzione leggiadramente trasportata dal Tasso ne l' Amadigi, quand'egli descrive l'abbracciamento di Mirinda e di Alidoro, quasi volendoci accennare che l'altre cose deono essere ricoperte sotto le tenebre del silenzio, oltre tutte l'altre. Ma Vergilio ne gli amori d'Enea con Didone fu modestissimo, e accenna con brevi parole quel che seguisse doppo la pioggia mandata da Giunone:
Speluncam Dido dux et troianus eandemdeveniunt etc.
[7] È dunque, come abbiamo detto, la poesia imitazione dell'azioni umane affine di giovar dilettando, e il poeta uno imitator sì fatto il quale con l'arte sua potrebbe dilettare altrimente, come hanno dilettato molti senza giovamento; ma non facendolo, è buon poeta, e per aventura è in ciò simile all'oratore, il quale si considera, come parve ad Aristotele, non solamente dalla scienza, ma dalla volontà, a differenza del dialettico che si stima non per l'animo, ma per la facoltà. E quinci aviene che alcuna volta nelle diffinizioni non si diffinisce la cosa ignuda, ma la cosa ben disposta e perfetta, come dice il medesimo Aristotele nella Topica; nel qual genere di definizione è quella dell'oratore: percioché l'oratore è colui che può conoscere tutto ciò che è degno di fede in qualunque cosa, e non ne tralascia alcuna, è buono oratore senza fallo. Dalle quali parole peraventura fu mosso prima Strabone a dire che la virtù del poeta sia congiunta con quella dell'uomo, e che non possa esser buon poeta chi non è uomo da bene; e poi Quintiliano a definir l'oratore uomo da bene e ammaestrato nel parlar, non pensando le parole d'Aristotele, nelle quali non lo chiama uomo da bene, ma buon oratore. Ma non so se questa definizione di Quintiliano meriti de esser ripresa dal Cavalcante, perciò che l'oratore ben disposto e perfetto non poteva per aventura esser altrimente definito, quantunque la bontà non sia parte del suo artificio, ma perfezione della natura e dell'abito; ma s'ella è pur sottoposta a qualche reprensione, a niuna altra è più soggetta che a quella datale da Alessandro Afrodiseo, il quale dice che nelle definizioni sì fatte non si diffinisce il tutto, ma la parte. E forse non volle Quintiliano che la definizione dell'oratore convenisse a tutti gli oratori, ma al perfetto solamente. Così ancora nella definizione del poeta, chi dirà che 'l poeta sia uomo da bene e buono imitatore dell'azioni e de' costumi de gli uomini a fine de giovar co 'l diletto, non darà per aventura definizione la quale convenga a tutti i poeti; definirà nondimeno l'ottimo ed eccellentissimo poeta. Dunque se il poeta è imitatore dell'azioni e de' costumi umani, la poesia sarà imitazione dell'istesse cose; e s'egli è buono imitatore, la poesia sarà una imitazione sì fatta. Ma alcuni hanno voluto che il poeta non riguardi tanto alla bontà, quanto alle bellezze delle cose; fra' quali è il Navagerio, appresso il Fracastoro, là dove prova che il fine del poeta sia di riguardare nell'idea del bello, quasi volendo contradire all'opinione che mostrò Aristotele d'aver ne' libri morali, ne' quali dice che l'idea non giova cosa alcuna nell'operazione. Ma qualunque fosse il giudizio d'Aristotele in quel luogo, e dichiarato dal greco espositore, a me non può dispiacere in alcun modo che il poeta rimiri nell'idea della bellezza; ma se più sono l'idee nelle quali suol drizzar gli occhi l'oratore, com'è piaciuto ad Ermogene, non so perché il poeta debba considerare solamente quella della bellezza, e non l'altre sei similmente. Ma per aventura parve al Navagerio che nella forma della bellezza fossero comprese tutte l'altre, o che il bello fosse in tutte: percioché nella chiarezza, nella grandezza, nella velocità, nell'affetto, nella gravità e nella verità è il bello; e se non m'inganno, il Navagero desiderava che la chiarezza non fosse chiara solamente, ma chiara e bella similmente, e così tutte l'altre forme. Ma perché questa parte appertiene particolarmente all'elocuzione, sarà da me considerata quando io discorrerò dell'artificio del parlare.
[8] Ora non mi pare che debba essere disprezzata l'opinione di Massimo Tirio, il quale volle che la filosofia e la poesia fossero una cosa doppia di nome, ma di semplice sostanza, come è la luce per rispetto del sole; e però definisce la poesia una filosofia antica di tempo, di suono numerosa, d'argomenti favolosa; ma la filosofia è, com'a lui pare, una poesia giovene d'età, e più sciolta di numeri, e nelle ragioni più aperta. Ma io estimo che 'l modo di considerare le cose faccia l'una da l'altra differente, percioché la poesia le considera in quanto belle, e la filosofia in quanto buone, come accenna il medesimo autore in un altro luogo, dicendo ch'Omero ebbe da far due cose, l'una appertenente alla filosofia, l'altra alla poesia; e in quella ebbe risguardo alla virtù, in questa all'effigie della favola. È dunque la poesia investigatrice e quasi vagheggiatrice della bellezza, e in duo modi cerca di mostrarla e di porcela davanti a gli occhi: l'uno è la narrazione, l'altro la rappresentazione; e l'uno e l'altro è contenuto sotto la imitazione, come sotto suo genere, ma alcuna volta si denomina da una particolar maniera d'imitare. Coloro adunque i quali hanno definito la poesia narrazione d'azione umana memorevole e possibile ad avenire, non hanno data definizione che convenga a tutte le specie della poesia, ma al poema epico solamente, o eroico che vogliam dirlo, e hanno esclusa la tragedia e la comedia, se pur in questo nome di narrazione non è alcuna doppiezza di significato, la qual potea da loro esser meglio distinta e dichiarata con l'autorità d'Aristotele medesimo, com'io feci alcuna volta, e poi gli altri han fatto più perfettamente. Diremo adunque che il narrare sia proprio del poema epico, perché con questo nome sono chiamati coloro che scrivono le cose fatte da gli eroi, per testimonio di Cicerone e d'Eustazio comentatore d'Omero. Un'altra differenza ancora, oltre il modo, è tra l'epopeia e la tragedia, e questa nasce dalla diversità delle cose con le quali imita, o da gl'instrumenti, perché la tragedia, oltre il verso, adopera per purgar gli animi il ritmo e l'armonia. In due condizioni dunque sono differente, nelle cose con le quali s'imita e nel modo dell'imitare; in una concorde, nelle cose imitate, perché la tragedia ancora, come dice Aristotele ne' Problemi, simula l'azioni de gli eroi. Ma dalla comedia il poema eroico in tutto è differente, perché è diverso ancora nelle cose e nelle persone imitate. Ma lasciamo la tragedia e la comedia da parte, e una specie di poesia narrativa la quale, in comparazione della comedia, è come l'Iliade paragonata alla tragedia, perché in lei s'imitano le cose brutte, come fece Omero nel Margite, ad imitazione del quale fu per aventura da nostri poeti formato il Margut; perché di queste e dell'altre specie non è mia principale intenzione di ragionare.
[9] Io dico che il poema eroico è una imitazione di azione illustre, grande e perfetta, fatta narrando con altissimo verso, affine di giovar dilettando, cioè affine che 'l diletto sia cagione ch'altri, leggendo più volentieri, non escluda il giovamento. Ma 'l giovar dilettando è per aventura di tutte le poesie, perché giova dilettando la tragedia, e giova dilettando la comedia. Ma il fine di ciascuna dovrebbe esser proprio, perché sì come altro fine ha l'arte de' freni, altro quella del far l'alabarde (tutto che l'una e l'altra sia subordinata all'arte della guerra e dirizzata a quel fine che ella si prepone), così altro fine dovrebbe aver la tragedia, altro la comedia, altro la epopeia, o altra operazione, perché la forma di ciascuna cosa si distingue per la propria operazione. Ma l'operazione della tragedia è di purgar gli animi co 'l terrore e con la compassione, e quella della comedia di muovere riso delle cose brutte (come dechiara il Maggio in quel suo libro De' ridicoli ch'egli compose separatamente); e da questa operazione della comedia nasce il giovamento, perché noi, ridendoci della bruttezza che veggiamo ne gli altri, ci vergognamo di far cose che siano brutte egualmente. Dee dunque ancora l'epopeia aver il suo proprio diletto con la sua propria operazione; e questa per aventura e il mover maraviglia, la quale non pare propriissima della epopeia, perché muove maraviglia la tragedia, come si raccoglie da quelle parole d'Isocrate ch'io addussi pur dianzi: «Però sono degni d'ammirazione la poesia d'Omero e coloro che prima ritrovarono le tragedie». Ma di ciò si potrebbe nondimeno dubitare, perché se la maraviglia è delle cose nuove, poteva parer maravigliosa la poesia d'Omero, ma non quelle tragedie le quali dopo tanti anni trattarono delle medesime cose già divolgate per la Grecia, e fatte familiari a ciascuno; se forse non le fece parer maravigliose un nuovo moda di trattarle, il quale, come invecchiato con l'uso, non parve poi maraviglioso ne' tragici che seguirono. Da molti detti ancora d'Aristotele nella Poetica si può raccogliere che le tragedie debbano muover maraviglia, e particolarmente da quelli: έπεὶ δὲ οὐ μόνον τελεὶας ἐστὶ πράξως ἡ μίμησις , ἀλλὰ καὶ φοβερῶν καὶ ἐλεεινῶν, ταῦτα δὲ γίωεται μάλιστα τοιαῦτα, καὶ μᾶλλον ὅταν γέωηεται παρὰ τὴν δόξαν δι᾽ἄλληλα τὸ γὰρ ζαθμαστὸν οὕτως ἕξει μᾶλλον ἤ εἰ ἀπὸ τοῦ αὐτομὰτου καὶ τῆς τύχης etc.; anzi i casi maravigliosi sono cagione che più agevolmente s'induca l'orribile e 'l miserabile. Muove ancora maraviglia la comedia, non bastando la bruttezza sola senza la maraviglia a far ch'altri rida delle cose che ci paiono brutte; laonde, cessata la maraviglia o la novità, cessa il riso. Nondimeno a niuna altra specie di poesia tanto conviene il muover maraviglia quanto alla epopeia; e ce l'insegna Aristotele e Omero istesso nella fuga d'Ettore: perché quella maraviglia che ci rende quasi attoniti di veder ch'un uomo solo con le minaccie e co' cenni sbigottisca tutto l'essercito, non converrebbe alla tragedia; tuttavolta rende mirabile il poema eroico; né converrebbono nella scena la morte d'Ettore o l'altre, le quali, come racconta Filostrato nella Vita di Apollonio, furono proibite da Eschilo, chiamato padre della tragedia, perché molto mitigò la sua crudeltà. Non sarebbe ancora convenevole nella scena la trasmutazione di Cadmo in serpente, la quale convenevolmente fu narrata da Ovidio; non quella di Aretusa; non quella delle ninfe converse in navi, la quale si legge appresso Virgilio; non quella di Proteo in tante sembianze descritta nella Georgica, e prima nell'Odissea; non quella nel cerchio de' ladroni, della quale Dante si vanta con queste parole:
Taccia di Cadmo e d'Aretusa Ovidio,ché se quello in serpente e quella in fonteconverte poetando, io non l'invidio;
non quella di Fileno in fonte appresso il Boccaccio, o del mago in tante forme appresso il Boiardo, o d'Astolfo in mirto appresso l'Ariosto; non tante altre che si leggono con maraviglia in tanti altri poeti moderni e antichi; non tante maraviglie le quali nel teatro sarebbono per aventura sconvenevoli, e nell'epopeia sono lette volentieri, sì perché sono sue proprie, sì perché il lettore consente a molte cose alle quali nega il consentimento colui che risguarda. Laonde le machine rade volte si lodano nella tragedia; ma nell'epopeia spesso scendono dal cielo gli iddii e gli angeli, e s'interpongono nell'operazioni de gli uomini dando consiglio e aiuto, come fanno Apollo e Minerva nell'Iliade e nell'Odissea d'Omero e nell'Ercole del Giraldi, e Venere nell'Eneide di Virgilio e nel Bolognetto; e tanti altri iddii in questi e in altri poemi. In questo medesimo modo scende l'angel Michele nel Furioso, e l'angel Palladio e l'angel Nettunio nell'Italia liberata.Laonde tutti questi poemi paiono quasi fatti e condotti a fine dalla providenza, alla quale a pena si lascia luogo nella tragedia, perché l'averebbe ancora in lei l'indegnazione, a cui Aristotele non lo concedeva: però non deveva il Giraldo e gli altri introdurre Nemesi nella scena. Oltre acciò, gli altri poemi muovono maraviglia per muover riso o compassione o altro affetto. Ma 'l poeta epico non ha altro fine, e all'incontro muove compassione per muover maraviglia; però la muove molto maggiore e più spesso. Diremo dunque che 'l poema eroico sia imitazione d'azione illustre, grande e perfetta, fatta narrando con altissimo verso, affine di muover gli animi con la maraviglia e di giovare in questa guisa.
[10] Ha il poema epico le sue parti, come ogn'altra cosa che sia tutta; e quattro sono senza dubbio quelle che chiamano di qualità: la favola, la quale è definita da Aristotele imitazione dell'azione, e per lei massimamente di coloro che fanno l'azione; questa è da lui chiamata principio ed anima del poema; la seconda parte è il costume delle persone introdotte nella favola; la terza la sentenza; l'ultima è l'elocuzione. Ma quelle della quantità è maggiore dubbio quante elle siano; ma per aventura si possono dividere in altre quattro: perciò che nella prima parte, la qual corrisponde al prologo della tragedia, il poeta propone e narra e dechiara lo stato delle cose e dà alcuna notizia delle passate, come fa Omero in tutti i suoi poemi e particolarmente nell'Odissea; nella seconda si turbano le cose; nella terza cominciano a rivolgersi; nella quarta hanno il loro fine e quasi la perfezione loro. E volendo nominarle con proprio nome, si possono chiamare l'introduzione, la perturbazione, il rivolgimento e il fine; fra le quali io non ho numerato l'episodio, benché questa parte sia propria al tragico e all'epico, anzi più convenevole all'epico, percioché nel poema eroico non ha alcun luogo determinato, come deono avere le parti della quantità. Si potrebbono ancora le parti della quantità dividere in tre solamente, e chiamarle principio, mezzo e fine, come le chiama Aristotele nella definizione del tutto; ma questa divisione è più conveniente a' poemi che non hanno la favola inviluppata, ma semplice. Le parti poi della favola sono tre: il rivolgimento, che peripezia prima dissero i Greci, la quale è una mutazione dalla buona nella rea fortuna, o dalla rea nella buona; ma nel poema eroico è doppia, perché alcuni passano dalla prospera all'aversa fortuna, e altri da questa a quella; e deve esser sempre in meglio, perché il fine più felice è quello ch'è più conforme a questo poema. Laonde non merita molta lode il Pulce, il quale finì con la morte di Orlando e d'altri paladini. L'altra parte de la favola è l'agnizione, cioè un passar dall'ignoranza alla notizia di persone prima conosciute e poi dimenticate, o sia semplice, come quello d'Ulisse, o scambievole come tra Ifigenia e Oreste; ma questo passaggio dee esser cagione di felicità o di miseria. E la passione è la terza, cioè la perturbazione dolorosa e piena d'affanni, come sono le morti e le ferite e i lamenti e i ramarichi che possono muover a pietà; e questa parte si può considerare nell'ultimo dell'Iliade.
[11] Ora, conosciuta la natura di questo nobilissimo poema e delle sue parti, potremo considerare con quale artificio possono esser composti, e giudicaremo la definizione dell'idea. Ma averemo qualche risguardo ancora alla materia, perché le forme artificiali si considerano con la materia; e non voglio chiamar materia della poesia le lettere, le sillabe, le parole, come chiamò lo Scaligero, perché queste sono peraventura materie dell'orazione e del verso; ma la materia della poesia mi pare che si possa convenevolmente dire il soggetto ch'ella prende a trattare, avenga che, come dice Porfirio, in tutte le cose un non so che suol ritrovarsi che risponde per proporzione alla materia e alla forma, e questo soggetto non è propriamente fine, come parve allo Scaligero, perché la materia non è mai fine, né la causa materiale e la finale sono l'istesse, ma la formale e la finale sogliono spesso esser insieme e, come dicono i Latini, coincidere. Il fine, dunque, è la forma data dall'artificio del poeta, il quale, aggiungendo e scemando e variando, dispone la materia e dà un'altra imagine e quasi un'altra faccia all'azione e alle cose. Ora cominciarei a trattar de l'arte sua quasi con un nuovo principio, se non mi si facesse all'incontro qualche opposizione fatta ad Aristotele dal Castelvetro; la quale è, che egli non doveva trattare dell'arte poetica se prima non trattava dell'arte istorica, perché sì come prima è l'istoria della poesia, e il vero del verisimile, così primieramente si dovea dar l'arte di scrivere il vero, poi quella d'adornare il verisimile; la quale dopo la prima non sarebbe forse stata necessaria. Questa opinione a me pare fondata sopra due fondamenti, de' quali l'uno è falso in tutto, cioè che l'istoria sia prima della poesia, avenga che i poeti siano antichissimi oltre tutti gli altri scrittori, e gl'istorici cominciarono a scrivere molte centinaia d'anni dopo loro; laonde non si dee stimar prima l'arte di quella cosa la quale nacque dopoi. Oltre a ciò, se nell'arte de gl'istorici ha alcuna parte il numero e gli ornamenti e le figure del parlare, chi non sa che queste cose furono quasi prestate dal poeta all'oratore? Però né l'oratore e né gli altri che scrivono in prosa hanno alcuna cosa che non sia quasi usurpazione. Ma s'egli o altri replicasse che l'istoria è prima per natura, quantunque sia seconda per tempo, sì come quella che scrive del vero, il quale è prima della sua somiglianza, io direi che il poeta non considera il verisimile se non come universale; però si dovea dare prima l'arte di scrivere questo universale; né fa mestieri di considerare se l'universale sia innanzi a tutte le cose o sia dopo, come disse alcuna volta Aristotele, basta che sia più noto. Non ci diede Aristotele ammaestramenti di scrivere istorie, stimando forse che ella fosse di più semplice considerazione; e s'ella appartiene all'oratore, bastavano li precetti rettorici; e s'ha pur alcune cose di proprio, come accenna Demetrio Falereo (il quale assegna altro periodo all'istorico, altro all'oratore), non erano forse tante che meritassero un'arte divisa e separata dall'altre. Però con artificio medesimo si può trattare il vero ed il verisimile; anzi dicendo Aristotele che la poesia considera più l'universale, c'insegna per conseguente l'officio dell'altra, ch'è di narrare il particolare; ma questo non è l'imitare, perché l'imitazione non è congiunta con la verità per sua natura, ma con la verisimilitudine. Non deono dunque imitare gl'istorici; e per aventura non sono prive d'imitazione l'orazioni, perché l'istorico il più de le volte non racconta quel che fu detto nel senato o ne gli esserciti, ma quel che è verisimile che fosse detto ; e, fra l'orazioni, più convenienti all'istorico sono l'oblique che le rette, come parve a Trogo Pompeio. Molti raggionamenti ancora si leggono in Erodoto, in Senofonte, scrittori delle cose greche, e ne gli altri che poi seguirono, ne' quali si vede un'imitazione quasi poetica; laonde pare che l'istorico, non contento de' suoi termini, trapassi ne' confini della poesia. Ma di queste cose, se mi sarà conceduto, trattarò in luogo proprio di materie così fatte, essaminando e quasi ponendo in bilancia da l'una parte il giudizio di Polibio, che scrisse istoria e insieme insegnò com'ella dovesse essere scritta, e di Dionigi Allicarnasseo, che fece il giudizio di Tucidide, dall'altra l'autorità di questo medesimo autore e de gli altri due prima nominati, e di Livio e di Salustio, che fra' Latini sono di maggiore stima e, se non m'inganno, imitarono li Greci. Ma questa imitazione non è quella di cui parliamo, né quella di cui intese il Fracastoro, la quale non è conveniente all'istorico; laonde tra la diversità delli scrittori e dell'opinioni non potrà parer soverchio scrivere di questo artificio. Ma ora il mio proponimento è scrivere delle cose incominciate.
LIBRO SECONDO
[1] Fra tutte le operazioni della nostra umana ragione, illustrissimo Signore, niuna e più malagevole, niuna più degna d'esser lodata dell'elezione: però che le operazioni fatte all'improviso possono peraventura come divine e meravigliose esser considerate, ma non meritano lode di maturità e di consiglio e di prudenza; ma l'eleggere è cosa propria dell'uomo che si consigli fra se stesso, e 'l bene eleggere propriissimo del prudente; tanto maggiore nondimeno si mostra la prudenza del far l'elezione, quanto è minore la certezza delle cose elette. Ma qual è più incerta, quale più instabile, quale più incostante della materia? Prudentissimo dunque conviene che sia colui il quale non s'inganni nello scegliere dove è tanta mutazione e tanta incostanza di cose; e la materia è simile ad una selva oscura, tenebrosa e priva d'ogni luce. Laonde se l'arte non l'illumina, altri errarebbe senza scorta e sceglierebbe per aventura il peggio in cambio del meglio. Ma l'arte distingue fra le cose disposte a ricever la forma e quelle che non sono disposte; e quantunque la materia propriamente si dica quella de gli elementi o de' nostri corpi, o quella de' colossi o delle piramidi o de' ponti o delle navi o dell'altre cose che si possono vedere e toccare e sono sottoposte a' nostri sentimenti, nondimeno nelle cose intellettuali ancora si trova un non so che simigliante alla materia, e, per analogia o proporzione che vogliamo dirla, può esser dimandato con l'istesso nome. Laonde non solo diciamo la materia dell'orazione o del sillogismo o del verso, ma chiamiamo materiale ancora una potenza dell'intelletto nostro, atta a ricever tutte le forme. Ma lasciando ora da parte la sottilissima investigazione de' filosofanti, niuna selva fu giamai ripiena di tanta varietà d'alberi di quanta diversità di soggetti è la poesia. La materia poetica adunque pare amplissima oltre tutte l'altre, però che abbraccia le cose alte e le basse, le gravi e le giocose, le meste e le ridenti, le publiche e le private, l'incognite e le conosciute, le nuove e le antiche, le nostre e le straniere, le sacre e le profane, le civili e le naturali, l'umane e le divine. Laonde i suoi termini non pare che siano i monti o mari che dividono l'Italia o la Spagna, non il Tauro, non l'Atlante, non Battro, non Tile, non il mezzo giorno o 'l settentrione o l'oriente o l'occidente, ma il cielo e la terra, anzi l'altissima parte del cielo e la profondissima del più grave elemento: percioché Dante, innalzandosi dal centro, ascende sovra tutte le stelle fisse e sovra tutti i giri celesti; e Virgilio e Omero ci descrissero non solamente le cose che sono sotto la terra, ma quelle ancora che a pena con l'intelletto possiamo considerare; ma le ricoprirono con un gentilissimo velo d'allegoria. È dunque grandissima la varietà delle cose trattate da loro e da gli altri che prima o dopo hanno poetato, e grandissima la diversità dell'opinioni, o più tosto la contrarietà de' giudicii, la mutazione delle favelle, de' costumi, delle leggi, delle cerimonie, delle republiche, de' regni, de gl'imperatori, e quasi del mondo istesso, il quale pare che abbia mutata faccia, e ci si rappresenta quasi in un'altra forma e in un'altra sembianza. Onde s'alcuno, fra tanta moltitudine di cose dubbie e incerte, potrà scegliere il meglio e quello che e più acconcio a ricevere ornamento e bellezza, sarà artificiosissimo e prudentissimo oltre tutti gli altri; però che l'arte non deve essere scompagnata dalla prudenza e, come ad alcuni parve, è la prudenza istessa, avenga che le sue operazioni e i suoi giudìci non siano fatti senza elezione e senza conseglio, benché altri abbiano avuto opinione che 'l consultare non abbia luogo nell'arti esattissime. Ma ora io scrivo queste cose in guisa d'uomo che dica il suo parere e chieda l'altrui, quasi volendo accendere una gran luce, di molte scentille, ch'illustri le tenebre che fanno oscura la grandissima selva della materia poetica.
[2] A tre cose dee aver riguardo, illustrissimo Signore, ciascuno che di scriver poema eroico si prepone: a sceglier materia tale che sia atta a ricever in sé quella più eccellente forma che l'artificio del poeta cercarà d'introdurci; a darle tal forma; e a vestirla ultimamente con que' più rari ornamenti ch'alla natura di lei siano convenienti. Sovra questi tre capi dunque, così distintamente come io gli ho proposti, sarà diviso tutto questo discorso: però che cominciando dal giudicio che egli deve mostrare nell'elezione della materia, passerò all'arte e all'invenzione che se gli richiede servare prima nel disporla e nel formarla, e poi nel vestirla e nell'adornarla.
[3] La materia, la quale da alcuni è detta nuda, perché non ha anco ricevuta qualità alcuna dell'artificio del poeta o dell'oratore, cade sotto l'artificio del poeta in quella guisa che il ferro o 'l legno è considerato dal fabro; perché, come dice Filopono nel principio del suo commento sovra il terzo libro Priorum analiticorum, s'appartiene a colui che sa, non solo considerare le specie delle cose subiette, ma la materia e la disposizione a ricever le forme, come colui che fa le navi considera i legni che si deono porre in opera nel naviglio, e l'architetto e 'l muratore le pietre apparecchiate per edificare, e il simile avviene nelle altre arti e in quelle ancora che sono dette ragionevoli. Così Aristotele, volendoci insegnare le specie de' sillogismi, prima ci ammaestrò nelle specie delle proposizioni, che sono materie de' sillogismi. Al poeta similmente conviene non solo aver arte nel formar la materia, ma giudizio ancora nel conoscerla; e dee sceglierla tale che sia per natura capace d'ogni ornamento e d'ogni perfezione. E benché, dandosi un metodo e una via da trovare le proposizioni, si potesse a questa similitudine andar considerando il modo e la strada tenuta da coloro i quali hanno finto l'argumento e il soggetto, nondimeno ora si ragiona di quella parte che è propria del giudizio, non dell'altra ch'appartiene all'invenzione, nella quale è più libero il poeta che l'oratore; perché all'oratore, e a quello particolarmente che s'esercita nel giudizio delle cause criminali, la materia è spesso offerta dal caso e dalla necessità, al poeta dall'elezione; al quale è lecito ancora di fingerla, e la finzione è riputata invenzione; quinci avviene che alle volte quel che non è convenevole nel poeta è lodevole nell'oratore, o tolerabile almeno. Si biasma il poeta che faccia nascere la compassione sovra persona che volontariamente abbia macchiate le mani nel sangue del padre e del fratello, o commessa altra sceleragine; ma all'oratore si concede la difesa del colpevole, come fu opinione di Quintiliano e de gli altri retori; non parlo de' filosofi, perché portaranno contraria opinione, essendo lecito, come si legge nel Gorgia di Platone, che l'amico accusi l'amico, e il parente il parente, e procurino nel giudizio che la pena sia medicina del vizio e della malvagità; ma per aventura questa fu troppo severa filosofia, né si poteva vivere con queste leggi o con questa usanza in altra republica ch'in quella di Platone. Nell'altre si biasma la mala elezione del poeta e si scusa la necessità dell'oratore, anzi si loda l'ingegno; parlo nondimeno di quelli oratori che ragionano davanti il tribunale di giudici, perché gli altri che vivono lontano dallo strepito del palazzo possono eleggere l'argumento, e meritano molta lode per la buona elezione, come meritò Isocrate da Dionigi d'Alicarnasso, scrittore della sua vita e giudice de' suoi scritti. Anzi Isocrate medesimo in quell'orazione Della Permutazione de' beni, nella quale si difende dall'opposizione fattagli dagli accusatori, niuna più certa ragione adduce che la bontà delle sue orazioni; e nella Lode d'Elena lasciò scritte queste parole, o somiglianti: «Qual uomo di sana mente delibera di lodar la calamità? Ma si conosce agevolmente che molti per infirmità dell'ingegno rifuggano a questi argomenti». E poco appresso: «A niuno mai che volesse lodar l'ape o il sale o l'altre cose di questa sorte, mancaranno le parole». Molti luoghi, oltre questi, si potrebbono recare e da questa orazione e dal Panegirico e dall'altre, ne' quali disprezza la viltà e la bassezza de' soggetti, e ogni artificio che vi possa esser usato. Lodò nondimeno Elena prima lodata da Gorgia, e Busiride comendato e difeso da Policrate, benché la lode di Busiride sia fatta per altrui ammaestramento e con scusa di se medesimo, e conchiuda che' mali argumenti non debbono trattenerci in modo alcuno, come quelli che porgono grande occasione a' calunniatori de' buoni studii. Virgilio nel quarto della Georgica, quasi egli fosse di contraria opinione, prende l'api per soggetto non solamente d'ammaestramento, ma di lode, e chiama Busiride illaudato in quei versi:
Quis aut Euristea durum,aut illaudati nescit Busiridis aras?
o perché egli non avesse letto Isocrate, o più tosto perché non lodava Isocrate di quella falsa laude, chiamando Busiride illaudato, quasi illaudabile e indegno di laude. E peraventura Virgilio stimò vera quella opinione d'Isocrate, il quale, come racconta Plutarco nella sua Vita, dimandato quel che fosse la retorica, rispose ch'era officio del retore il far le cose grandi picciole, e le picciole grandi. Ma se ciò fosse vero, sarebbe similmente officio del medesimo il far le cose degne indegne, e l'indegne degne, l'illustri oscure, e l'oscure illustri, le compassionevoli degne di riso, e le ridicule meritevoli di pietà, e il toglier la maraviglia alle maravigliose, e la verisimilitudine alle vere, aggiungendola alle cose contrarie con l'eccellenza del suo artificio, col quale può superare la difficultà della materia e la natura intessa. Tuttavolta la cosa sta altrimenti: perché Isocrate, mutando opinione, s'ebbe mai quella che da Plutarco gli fu attribuita, disse: «È agevol molto il superare le cose picciole con l'orazioni, ma parlando aguagliar le grandi è malagevolissimo; e de' fatti gloriosi è difficil dire quello che non si è detto prima, ma delle cose basse e di piccol'estima ciò che si dice a caso è proprio». In molti altri luoghi manifestò la medesima opinione, nella quale fu seguito da' migliori e più giudiziosi maestri dell'eloquenza. Laonde non è dubbio che l'eccellentissime forme s'introducono meglio nella materia che sia atta a riceverle. Onde presupponiamo che co 'l medesimo artificio e con la istessa eloquenza altri voglia mover compassione d'Edippo, che per semplice ignoranza uccise il padre, altri da Medea, la qual, conoscendo la sua sceleragine, lacerò li figliuoli; molto più sarà compassionevole la favola tessuta de gli accidenti d'Edippo che l'altra composta del fiero proponimento di Medea: quella infiammarà gli animi di pietà, questa a pena potrà intepidirli, ancor che l'artificio usato nell'una e nell'altra fosse non solo simile, ma eguale. Similmente la medesima forma del sigillo molto meglio fa sue operazioni nella cera ch'in altra materia più liquida o più densa; e più sarà in pregio una statua di marmo o d'oro ch'una di legno o di pietra men nobile, benché in ambedue si lodasse parimente l'industria di Prassitele o di Fidia. Queste cose ho dette accioché si conosca quanto importi nel poema l'eleggere più tosto una che un'altra materia. Or debbiam considerare in qual luogo ella debba ricercarsi; il che appertiene in qualche modo a l'invenzione. La materia, che può chiamarsi ancora argomento, in questi tempi ne' quali sono scritte le cose degne di memoria o si finge, e allora pare che il poeta abbia gran parte non solo nella scelta, ma nel ritrovamento, o si prende dall'istorie. Ma ne gli antichissimi tempi, prima che fosse Omero, il quale non fu tra gli scrittori del primo secolo, ma tra quelli del secondo o del terzo, i poeti peraventura non avevano il soggetto dall'istoria, avenga che l'istoria non sia più antica della poesia, ma più nuova; ma i poeti o seguivano le relazioni di coloro che erano stati presenti a' fatti medesimi, o la fama e l'opinione. Omero nondimeno, il quale fu dopo Lino e dopo Orfeo e dopo Museo e dopo Olimpo e dopo molt'altri, fu ancora inferiore d'età ad Orebanzio Trezenio e a Darete Frigio, il quale fece istoria della guerra di Troia, come scrive Eliano. Gli altri ch'hanno seguito Omero e imitatolo, tutti fondarono il poema sovra l'istorie, perché non si può fare quasi altrimenti, essendo sinora scritte tutte l'azioni memorevoli; laonde quelle che non sono scritte non paiono degne di memoria. Molto meglio dunque è, per mio giudizio, che l'argomento sia prestato dall'istoria; che non sarebbe s'egli in tutto si fingesse. Però Sinesio nel suo libro De' sogni lasciò scritto che Alceo e Archiloco furono degni che la posterità conservasse memoria di tutto ciò che lor piaceva o dispiaceva, non avendo essi voluto spender vane parole negli argomenti finti; e loda Omero e Stesicoro ch'avevano fatto più illustre co' lor poemi la progenie degli eroi; biasima all'incontro i savi del suo tempo, i quali vanamente s'erano occupati ne' falsi argomenti. E di questa opinione tra gli altri fu Macrobio nel Sogno di Scipione, nel quale, distinguendo le favole, dice che in alcune di loro il poeta vuol solo piacere a gli orecchi e fa quasi professione di falsità e di bugia, quali sono quelle di Menandro e de' suoi imitatori e gli scherzi d'Apuleio; e queste vuole che la sapienza scacci dal suo tempio nelle cune delle nutrici. Ma di quelle ch'hanno qualche forma di virtù si fa la seconda distinzione: in alcune l'argumento è finto, come nelle favole d'Esopo; in altre è fondato nella sodezza del vero, e questo è molto acconcio alla filosofia, ove la verità, la quale è mescolata con alcune cose finte e composte dall'artificio del poeta, non sia nascosa sotto un manto quasi contrario di sozze invenzioni e di brutte parole, ma dentro un pio velame di cose oneste e di nomi splendidi e illustri. Questa distinzione di Macrobio per aventura, la quale scaccia le comedie o le favole d'Apuleio nella cuna delle nutrici . . . però che le favole sì fatte deono esser lette da' giudiziosi e da gli attempati anzi che no; a' fanciulli, come vuol Platone nel terzo delle sue Leggi, deono più tosto dalle nutrici esser cantate le lode de gli dii e de gli eroi. Ma oltre l'autorità si potrebbono adducere molte ragioni per le quali al poeta eroico si conviene fare il suo fondamento nel vero: e prima, dovendo l'epico cercare in molte parti il verisimile, non è verisimile che un'azione illustre, come sono quelle da lui trattate, non sia scritta e passata a la memoria de' posteri con la penna d'alcuno istorico; e i grandi e fortunosi avvenimenti non possono esser incogniti; e ove non siano recati in scrittura, da questo solo argumentano gli uomini la loro falsità; e falsi stimandoli, non consentono di leggieri alle cose scritte, per le quali or sono mossi ad ira, ora a pietà, ora a timore, or contristati, or pieni di vana allegrezza, or sospesi, or rapiti, e in somma non attendono con quell'espettazione il successo delle cose, come farebbono se l'estimassero vere in tutto o in parte; perché, dove manca la fede, non può abbondare l'affetto o il piacere di quel che si legge o s'ascolta; ma dovendo il poeta con la sembianza della verità ingannare il lettore, suol dilettarlo con la varietà delle menzogne, come dice Pindaro nella prima ode dell'Olimpiache:
ἦ θαῦμα τὰ πολλὰ,καί πού τι καί βροτῶν φρέναὑπὲρ τὸν ἀληθῆ λόγον,δεδαιδαλμένοι ψεύδεσι ποικίλοιςἐξαπατῶντι μῦζοι;
imperché il diletto della bugia, variando l'aspetto della verità, e co' suoi colori quasi dipingendolo, suole ingannare più agevolmente. Cerca nondimeno il poeta di persuadere che le cose da lui trattate siano degne di fede e d'autorità, e si sforza di guadagnarsi ne gli animi questa opinione e questa credenza con l'autorità dell'istoria e con la fama de' nomi illustri, e d'acquistarsi benevolenza con la lode della virtù e de gli uomini valorosi, avenga che sia pericoloso l'essere odiato, come dice Platone (parlo di quelli che imitano l’azioni illustri, quali sono il tragico e l'epico). E ciò si potrebbe confermare con l'autorità d'Aristotele, perché, se i poeti sono imitatori, conviene che siano imitatori del vero, perché il falso non è; e quel che non è, non si può imitare: però quelli che scrivono cose in tutto false, se non sono imitatori, non sono poeti, e i suoi componimenti non sono poesie, ma finzioni più tosto; laonde non meritano il nome di poeta, o non tanto. Fra costoro sono i comici della nuova comedia, nata dopo la morte d'Aristotele; perché la vecchia, la quale fiorì a' suoi tempi, introduceva nella scena le vere persone, laonde erano in qualche modo imitazioni del vero. Si concedeva nondimeno alla vecchia comedia, o a quella che fu meno antica, il fingere i nomi, come dice Aristotele medesimo: ἐπί μὲν οὖν τῆς κωμῳδίας ἤδη τοῦτο δῆλον γέγονεν˙ συστήσαντες γὰρ τὸν μῦζον διὰ τῶν εἰκότων, οὑτω τὰ τυχόντα ὀνόματα ἐπιτιζέασι. Ma la nuova, o perché alcuna legge il condannasse, o perché rappresenti ancora l'azioni vili e popolaresche, sempre suol finger le persone e l'azioni e i nomi a sua voglia; né ripugna al verisimile che dell'azioni private non s'abbia alcuna contezza fra gli uomini, ancora che sono abitatori della medesima città. E benché leggiamo nella Poetica d'Aristotele che le favole finte sogliono piacere per la novità loro, come fu tra gli antichi il Fior d'Agatone, e tra' moderni Toscani le favole eroiche del Boiardo e dell'Ariosto, e le tragiche d'alcuni più moderni, non debbiamo però lasciarci persuadere che favola alcuna finta sia degna di maggior lode, perché già si è conchiuso il contrario per molte ragioni; e oltre a tutte l'altre n'adduciamo due, l'una d'Aristotele medesimo: percioché quelle cose sono credibili che si possono fare, ma quelle che non è chiaro che siano fatte, sono credute poco possibili; e l'ultima è quasi frutto del seme istesso, nata, dico, dalla sua dottrina: che la novità del poema non consista principalmente nella falsità del suggetto non udito, ma nel bel nodo e nello scioglimento della favola. Fu l'argumento di Tieste, di Medea, di Edippo da varii antichi trattato nella lingua greca e nella latina, ma, tessendolo diversamente, il facevano di comun proprio e di vecchio nuovo. Però molto s'inganna il Rubertello in assegnar al poema per materia il falso, avvenga che il falso, per giudizio di Platone e d'Aristotele, sia la materia del sofista, il quale s'affatica intorno a quel che non è. Ma il poeta si fonda sovra qualche azion vera, e la considera come verisimile, onde la sua materia è il verosimile, che può esser vero e falso, ma suole esser più tosto vero, non essendo ragionevole in modo alcuno che il verisimile sia più tosto falso, dal quale è molto dissimile; percioché ove è dissimilitudine, non può essere identità, per così dire; ma le cose somiglianti possono esser l'istesse, se non nella sostanza, almeno nella qualità. Dunque poco meno errò monsignor Alessandro Piccolomini, volendo che il soggetto del poema sia più tosto il falso che il vero. E in questo medesimo errore, s'io non m'inganno, è il signor Iacomo Mazzone, de le cui opere ho a pena veduta alcuna parte, ma dapoi ch'io ebbi scritte le cose antecedenti e alcune de le seguenti in questo libro e gli altri libri che seguono; talch'io sono stato costretto d'aggiungerne alcune altre per confermar la mia opinione. Scrive il Mazzone, ne l'introduzione della Difesa di Dante, che l'imitazione è di due maniere, l'una icastica, l'altra fantastica, seguendo in ciò la dottrina insegnataci da Platone nel Soffista; e chiama icastica quella ch'imita le cose che si trovano o si sono trovate, fantastica l'altra specie ch'è imitatrice de le cose che non sono; e questa vuol sia la perfetta poesia, la qual ripone sotto la facoltà sofistica, di cui è soggetto il falso e quel che non è. Ma per consolare i poeti, e me con gli altri, a cui fa più d'aiuto e di consolazione mestieri, fa due o tre specie d'arte sofistica, e ripone la poesia sotto la prima specie, ch'è la più antica; e questa, s'io non m'inganno, è quella medesima ch'è in tanti luoghi rifiutata da Socrate e da Platone. Però io non posso concedere né che la poesia si metta sotto l'arte de' sofisti, né che la perfettissima specie di poesia sia la fantastica. Quantunque io le concedessi che la poesia fosse facitrice degli idoli, come la sofistica, e non solamente degli idoli, ma degli iddii (poich’a la sovrana lode de' poeti si conviene il deificare e il riporre i principi giusti e valorosi nel numero degli immortali, e agli immortali secoli consecrar la lor memoria), non gli concederei nondimeno che fosse la medesima l'arte de' sofisti e quella de' poeti. Dico adunque che senza dubbio la poesia è collocata in ordine sotto la dialettica insieme con la retorica, la qual, come dice Aristotele, è l'altro rampollo de la dialettica facultà, a cui s'appartiene di considerare non il falso, ma il probabile; laonde tratta del falso, non in quanto egli è falso, ma in quanto è probabile. Ma il probabile, in quanto egli è verisimile, appertiene al poeta, percioch’il poeta usa le prove men efficacemente che non fa il dialettico; anzi l'imitazione e l'essempio e la comparazione sono debolissime maniere di prove, come c'insegna Boezio ne la sua Topica; ma 'l sofista, per giudizio d'Aristotele pur ne' libri de la sua Topica, non considera il probabile, ma il probabile apparente, cioè quello che non è veramente probabile, ma par ad alcuni probabile; del quale Alessandro Afrodiseo ne' suoi Comenti adduce alcuni essempi. È dunque il sofista in ciò differente non solamente dal dialettico, ma dal poeta ancora, percioché quello che per sé è probabile, quello è verisimile. E perché ’l poeta, come ancora il dialettico, è diverso dal sofista più tosto per elezione che per facoltà, quinci aviene che ’l buon poeta si dee affaticare più volentieri di ciascuno altro intorno a soggetti per sé probabili, come fece Omero, il qual ne la persona d’Ettorre volle dimostrarci che lodevolissima cosa sia il difender la patria, e in quella d’Achille che sia lodevolissima la vendetta, e da magnanimi, e per conseguente giusta e favoreggiata dagli dei. Le quali opinioni, essendo senza fallo per sé probabili, son verisimili, e per l’artificio d’Omero divennero probabilissime e provatissime e similissime al vero. O direi che la poesia non fosse disposta sotto la dialettica, ma sotto la logica più tosto, la qual contiene tre parti, la dimostrativa, la probabile e l’apparente probabile, ch’è la sofistica : peroch’il poeta in alcune cose dimostra, come fecero Parmenide ed Empedocle tra gli antichi Greci, Lucrezio e Boecio fra’ Latini, Dante fra’ Toscani ; in alcune altre sillogizza probabilmente, il che fa più spesso, perch’in questa parte s’impiega propiamente il suo officio ; in alcune usa il paralogismo, il che fa più di rado. E se ciò è vero, la latitudine de la poesia è quanto quella de la logica, e ha tre parti subordinate e corrispondenti a le tre superiori de la logica : alcune volte dimostrando co’ filosofi e usando il filosofema ; altre seguendo il verisimile e servendosi de l’essempio e de l’entimema, come fecero Omero e Vergilio ; e altre volte, come il sofista, s’appiglia a l’apparente probabile, e con l’equivoco e con l’altre maniere de’ fallaci argomenti, i quali consistono ne le parole e ne le cose, prende gli auditori del suo piacere ; e questo sofistico artificio fu usato da’ poeti toscani ne l’amorose poesie più che da alcuno altro, e forse da molti non se n’avedendo. Nondimeno la perfettissima imitazione, o la propissima specie de la poesia, non si ripone sotto la sofistica, o nuova o antica ch’ella sia, ma sotto la dialettica. Molto meno è vero quel che dice il Mazzone, che la perfettissima poesia è la fantastica imitazione ; perché sì fatta imitazione è de le cose che non sono e non furono giamai ; ma la perfettissima poesia imita le cose che sono, che furono o che possono essere, come fu la guerra di Troia, e l’ira d’Achille, e la pietà d’Enea, e le battaglie fra Troiani e Latini, e l’altre che furono o possono essersi fatte. Ma i Centauri, l’Arpie e i Ciclopi non sono adeguato o principal subietto de la poesia, né i cavalli volanti e gli altri mostri de’ quali son piene le favole di romanzi. Ma perch’il poeta, per sentenza d’Aristotele, imita le cose o com’elle sono, o come possibili, o come è fama ch’elle siano, o come son credute, il principale soggetto del poeta è quel ch’è, o quel che può essere, o quel che si crede, o quel che si narra ; o tutte queste cose insieme, come piacque ad Aristotele, potendo essere imitate dal poeta, sono il soggetto adeguato de la poesia. Sotto questa una considerazione di verisimile non è dunque un solo di questi membri il soggetto adeguato de la poesia, come stima il Mazzone, né quella ragione dimostra : la poesia è facitrice degli idoli, la sofistica è facitrice degli idoli, adunque la poesia è sofistica ; non solo perché ne la seconda figura del sillogismo le due affirmative proposizioni sono viziose, ma ancora perch’il nome degli idoli riceve alcuna distinzione e, secondo ch’egli è variamente deffinito, così appertiene al poeta o al sofista il formar gli idoli. Diffinì Favorino gli idoli (come referisce l’istesso Mazzone) una similitudine ombrosa e una cosa finta, che veramente non è, una forma che non ha sussistenza, come le forme ch’appaiono ne l'acque e negli specchi ; e deriva dal verbo εἴδω, che vuol dire «appaio» e «rassomiglio». Ma gli idoli, come gli difinisce Suida, sono effigie di cose non sussistenti, quali sono i Tritoni e le Sfingi e i Centauri; e le similitudini sono imagini di cose sussistenti, come di fiere e d’uomini. Isichio, dichiarando con altra voce i sentimenti del nome idolo, disse : «Idolo è imagine e similitudine e segno», quasi egli sia de le cose che sono e di quelle che non sono, come parve ancora ad Ammonio e a Platone medesimo. Quando diciamo adunque il sofista è facitor degli idoli, intendiamo degli idoli che sono imagini di cose non sussistenti, perch’il subietto del sofista è quel che non è ; e in questa significazione disse san Paulo : Idolum nihil est. Ma quando affermiamo che ’l poeta sia fattor degli idoli, non intendiamo solamente degli idoli de le cose non sussistenti, perché il poeta imita ancora le sussistenti, e principalmente le rassomiglia. Laonde, quantunque il poeta sia facitor degli idoli, ciò non si dee intendere ne l’istesso significato nel qual si dice ch’il sofista è fabro degli idoli, ma debbiam dir più tosto che sia facitore de l'imagini a guisa d’un parlante pittore, e in ciò simile al divino teologo, che forma l’imagini e comanda che si facciano. E se la dialettica e la metafisica, la qual fu la divina filosofia de’ gentili, hanno tanto conformità che furono dagli antichi tenute l’istessa, non è maraviglia che ’l poeta sia quasi il medesimo ch’è il teologo e il dialettico. Ma la divina filosofia, o la teologia che vogliam dirla, ha due parti, e ciascuna di loro è convenevole e propia ad una parte de l’animo nostro composto del partibile e de l'impartibile, non solo per sentenzia di Platone e d’Aristotele, ma de l’Areopagita, il quale scrisse ne l’epistole a Tito pontefice, ne la Mistica teologia e altrove, che quella parte de la teologia più occulta, la quale è contenuta ne’ segni e ha virtù di far perfetto, si conviene a la parte de l’animo nostro indivisibile, ch’è il simplicissimo intelletto. L’altra, studiosa di sapienza, la qual dimostra, attribuisce a la parte de l’animo divisibile, molto men nobile de l’indivisibile. Laonde il conducere a la contemplazione de le cose divine e il destare in questa guisa con l’imagini, come fa il teologo mistico e il poeta, è molto più nobile operazione che l’ammaestrar con le dimostrazioni, com’è ufficio del teologo scolastico. Il teologo mistico adunque e il poeta sono oltre tutti gli altri nobilissimi, quantunque san Tomaso ne la prima parte de la Somma riponesse la poesia ne l’infimo genere de la dottrina ; ma egli intese di quella parte de la poesia ch’insegna con prove assai deboli, quali sono gli essempi e le comparazioni usate per dimostrare; tutta volta non la collocò sotto l’arte de’ sofisti, che non è dottrina, ma inganno d’apparenzia e arte simile a quella de’ prestigitatori. Dunque il poeta facitor de l’imagini non è fantastico imitatore, come parve al Mazzone, e dopo lui a don Gregorio Comanino, canonico regolare, benché l’uno sia fornito di gran dottrina, l’altro di grande eloquenza, anzi ambedue dotati d’ambedue, e miei amici parimente. Ma se l’imagini sono di cose sussistenti, questa imitazione appertiene a l’icastico imitatore. Ma quali cose direm noi che siano le sussistenti? le inteligibili o le visibili ? Le intelligibili veramente, e per giudicio ancora di Platone, il quale ripose le cose visibili nel genere del non ente, e solamente le intellegibili pose nel genere degli enti. Dunque l’imagini degli angeli, descritte da Dionigi, sono di cose più di tutte l’umane sussistenti; e ’l leone alato ancora, e l’aquila e ’l bue e l’angelo, che sono imagini degli evangelisti, non appertengono dunque a la fantasia principalmente, né sono suo propio obietto, perché la fantasia è ne la parte divisibile de l’animo, non ne l’indivisibile, la quale è simplicissimo intelletto; se oltre la fantasia, ch’è virtù de l’anima sensitiva, non se ne trovasse un’altra che fosse virtù de l’intellitiva. Il che pare assai convenevole, perché la fantasia fra' Greci fu cosi detta dal lume (e ciò si legge nel libro De placitis philosophorum scritto da Plutarco), sì come quella potenza la quale è simile al lume ne l’illustrar le cose e nel dimostrar se medesima ; e ciò si conviene più tosto a la fantasia intellettuale. Ma questa, quantunque sia posta da’ nostri teologi e da’ platonici filosofi, non fu conosciuta o non fu conceduta da Aristotele, né da Platone nel Sofista; altrimente egli non distinguerebbe l’icastica imitazione da la fantastica, potendo l’icastica convenire ancora a la imaginazione intellettuale. E di lei intese peraventura Dante quando egli disse :
A l’alta fantasia mancò qui possa;
e altrove :
Poi piovve dentro a l’alta fantasiaun crocifìsso dispettoso e fiero.
È dunque il poeta, benché sia facitore de l’imagini, più tosto simile al dialettico e al teologo ch’al sofista ; anzi non solo fra gli antichi, per aviso d’Aristotele, i poeti e i teologi furono i medesimi, come Lino, Orfeo, Museo, ma fra’ moderni ancora, come scrive il Boccaccio ne la Vita di Dante ; e però la sua imitazione è più tosto icastica che fantastica ; e se pur fu operazione de la fantasia, intendasi d’una imaginazione intellettuale ; ma non si può contradistinguere da l’icastica. Con un’altra ragione possiam provare che ’l soggetto del poeta sia più tosto il vero che ’l falso; la quale è derivata da la dottrina di san Tomaso nella Somma e in altre opere sue. Dice egli ch’il bene e ’l vero e l’uno si convertono, e che ’l vero è bene de l’intelletto ; oltre acciò vuole ch’il male non sia natura ; laonde, non essendo in qualche natura, è fondato in qualche bene o in qualche cosa buona, perché non si trova alcuna cosa rea e mala del tutto. In questa medesima guisa ogni moltitudine è fondata sovra l’unità, né v’è alcuna multitudine che non participi de l’unità ; e ogni falsità si fonda su la verità ; però quel ch’è in tutto falso, non può essere subietto de la poesia, anzi non è. Esiodo, antichissimo poeta greco, nella Genealogia de gli dei, scrisse che le Muse sanno dir molte bugie simili alla verità, e sanno, se vogliono, dir il vero ; ma assolutamente le chiama figliuole di Giove, e veridiche, come si legge in quei versi:
«Ποιμένες ἄγραυλοι, κάκʾἐλέγχεα, γαστέρες οἶον,ἴδμεν ψεύδεα πολλὰ λέγειν ἐτύμοισιν ὁμοῖα,ἴδμεν δʾ, εὐτʾἐζέλωμεν, ἀληζέα μυζήσασζαι».Ὥς ἔφασαν κοῦραι μεγάλου Διὸς ἀρτιέπειαι.
Laonde io concluderei che questa fosse un’arte o ver facoltà di dire il vero e il falso, ma ’l vero principalmente. Tra gli scrittori sacri Atanasio non ha diversa opinione da quella ch’io stimo migliore, però ch’egli, scrivendo contro gentili, i quali estimavano che fosse proprio del poeta il finger quel che non è, dimostra il contrario, e il prova con l’essempio de’ poeti, i quali dissero le bugie, ma più de gli dii che degli uomini, perché, scrivendo delle umane azioni, non furono in tutto bugiardi ; e adduce l’autorità di Omero medesimo, il quale, se di tutte le cose avesse scritto il falso, avrebbe attribuita ad Achille la timidità, e la fortezza a Tersite. Dunque il poeta in qualche parte è amico della verità, la quale illustra e abbellisce di nuovi colori, e si può dire che di vecchia e d'antica la faccia nuova ; e nuovo sarà il poema in cui nuova sarà la testura de’ nodi, nuove le soluzioni, nuovi gli episodii che per entro vi sono traposti, quantunque la materia fosse notissima e da gli altri prima trattata : perché la novità del poema si considera più tosto alla forma che alla materia. All’incontro non potrà dirsi nuovo quel poema in cui finti siano i nomi e le persone, ma dove il poeta faccia il nodo e lo scioglimento fatto da gli altri ; e tale è pera ventura alcuna moderna tragedia, a cui manca l’autorità che porta seco l’istoria e la fama, e la novità della finzione. E s’io non sono errato, è soggetto a questa opposizione l’Avarchide, poema epico dell’Alamanno, perché, quantunque la favola non sia nota, è quell’istessa dell'Iliade d’Omero, laonde non merita gran lode nell’invenzione, e resta ancora privata di quella autorità che suol essere nell’istorie o nella fama ; non se ne vede nondimeno alcun’altra meglio tessuta, e, per mio giudizio, è la più perfetta che si legga in questa lingua.
[4] Comunque sia, l’argumento dell’eccellentissimo epico dee fondarsi nell’istorie ; ma l’istoria o è di falsa religione o di vera. Né giudico che l’azione de’ gentili ci diano soggetto attissimo del quale si formi il poema epico, perché ne' poemi si fatti o vogliamo ricorrere alle deità che da’ gentili erano adorate, o non vogliamo ; se non vi ricorriamo, manca il maraviglioso; se ci rivolgiamo a quelle medesime che furono invocate da gli antichi, in quella parte è privo del verisimile e del credibile, o non l’ha per virtù della favola e dell’imitazione, ma del verso e de gli altri ornamenti ; perché, come dice Pindaro nell’istesso luogo,
Χάρις δʾ, ἃπερ ἃπαντα τεύΧει τὰ μείλιχα ζνατοῖς,ἐπιφέροισα τιμάνκαί ἄπιστον ἐμήσατο πιστόνἔμμεναι τὸ πολλάκις.
Ma, s’io non m’inganno, Pindaro intende di quella grazia e di quella venustà de’ poeti della quale intese ancora Isocrate nell'Evagora, e Aristide dopo lui, lodando la rettorica: di quella, dico, che s’acquista con le misure del verso e co’ numeri, e che, dissolvendosi co’ medesimi, si perderebbe. Noi cerchiamo una persuasione e una forza che nella prosa faccia ancora il medesimo effetto, e diletti similmente come, per mio aviso, dilettarebbono quelle maraviglie che muovono non solamente gli animi de gli ignoranti, ma de’ giudiziosi ancora : parlo de gli anelli incantati, de’ corsieri volanti, delle navi converse in ninfe e di quelle larve che s’interpongono nella battaglia, dell’ardente spada, della ghirlanda de’ fiori, della camera difesa, dell’arco de' leali amanti e d’altre invenzioni che piacciono ancora nella prosa e si leggono volentieri e si rileggono senza la grazia del verso. Ma se questi miracoli, o prodigi più tosto, non possono esser fatti da virtù naturale, è necessario che la cagione sia qualche virtù sopranaturale o qualche potenza diabolica ; e rivolgendoci alle deità de’ gentili, cessa in gran parte il verisimile, o il probabile o il credibile che vogliamo dir più tosto, se pur sono il medesimo nel subietto; perché non è l’istesso, per giudizio d’Aristotele nel primo della Topica, il probabile e quello che pare probabile; anzi niuna di quelle cose che paiono probabili a prima vista ed estrinsecamente, è in tutto probabile. Veramente probabile, per opinione d’Alessandro suo commentatore, è che gli dii possano tutte le cose ; ma non è vero, e s’ingannò Alessandro se egli intese de’ falsi dei che furono adorati dalla Grecia. Oltre a ciò il medesimo Aristotele c’insegna nell’ottavo della Topica che non è il medesimo quel che in tutto è probabile e quel che è probabile ad alcuno solamente. Non è probabile in tutto che gl’idoli abbiano tanta potenza, ma fu probabile a que’ miseri, i quali, come dice Atanasio, non adoravano l’artefice, ma l’artificio, non lo scoltore, ma la statua. Non è probabile semplicemente quel che fu probabile al gentile, né quel che al gentile pareva verisimile, par verisimile a ciascuno : non è verisimile, non è credibile al cristiano quel che è creduto dall’idolatra ; e se credibile, come dice Aristotele nella Poetica, è quello che si può fare, quello che non si può fare non è credibile; e parimente non è credibile che da loro sia fatto quello che da loro non può esser fatto giamai. Quanto dunque il meraviglioso che portano seco i Giovi e gli Apollini sia scompagnato da ogni probabilità, da ogni verisimilitudine, da ogni credenza, da ogni grazia e da ogni autorità, ciascuno di mediocre giudizio se ne potrà facilmente avvedere leggendo i moderni scrittori ; ma ne’ poeti antichi queste cose deono esser lette con altra considerazione e quasi con altro gusto, non solo come ricevute dal volgo, ma come approvate da quella religione, qualunque ella fosse. Laonde senza alcuna ragione il Robertello biasma la bellissima favola e la dottissima allegoria del ramo d’oro, ma la vitupera come cosa impossibile ; e se quello ch’è impossibile per natura fosse impossibile ancora a gli dii, come volle Alessandro, buona sarebbe l’opinione del Robertello ; ma se a gli dei niuna cosa è impossibile, non dee questa maraviglia esser riputata più impossibile dell’altre, né merita maggior riprensione del vello d’oro o de’ pomi d’oro, de’ quali si favoleggia in tante poesie con tanta lode de’ favoleggiatori e con tanto diletto de’ lettori; peroché queste cose ancora da’ fisici sarebbono riputate impossibili ; ma a’ teologi de' gentili non parvero tali : essi diedero a’ poeti questo ardire e questa licenza di fingere ; anzi i teologi e i poeti antichi furono i medesimi, come dice Aristotele nella sua Metafisica, la quale non considerò molto il Robertello, perché ivi avrebbe letto quel che i teologi scrivessero dell’ambrosia e dell’altre cose riprese da lui, le quali egli non riprende come cristiano teologo, a cui solo questo officio si converrebbe, ma come critico de’ gentili poeti. Potea parimente ricercare nel Filebo di Platone e ne gli altri suoi dialogi e ne’ commenti del Ficino la buona interpretazione delle cose non bene intese. Non merita maggior biasimo la conversione delle navi, perché se Iddio può creare ex non entibus, vel ex non existentibus, come dicono i teologi, molto più agevolmente potrà ciò fare ex praesistenti materia. Concedasi dunque a Virgilio l’aver attribuito a quel suo Giove, che era il maggior dio ch’avessero i gentili, questa maravigliosa potenza del trasmutare la materia d’una in un'altra forma. Concederei ancora che fosse probabile a’ nostri poeti che molte cose meravigliose e prodigiose fossero fatte con arte diabolica, perché tutti gli idoli delle genti sono diavoli ; ma non si dee concedere loro quella potenza ch’era attribuita a’ medesimi da’ gentili, da’ quali fumo adorati come dii e come benefattori. Replicherò in questo luogo quel che altre volte ho detto, cioè che l’eccellentissimo poema è proprio solamente della eccellentissima forma di governo. Questa è il regno ; ma il regno non può esser ottimamente governato con falsa religione. Conviene adunque all’ottimo regno la vera religione ; e ove sia falsa pietà e falso culto d’iddio, non può essere alcuna perfezione nel principe o nel principato. Però i poemi ancora participano dell’istessa imperfezione ; ma il difetto non è dell’arte poetica, ma della politica, non del poeta, ma de’ legislatori. Conchiudiamo dunque che non si debba lodare alcun poema soverchiamente prodigioso, accioché i magi e negromanti siano introdutti con qualche verisimilitudine nel poema. Ma nel suo luogo sarà considerato quel che sia τὸ δυνατόν che ricerca Aristotele nel κατὰ τὸ εἰκός to eikosvelκατὰ τὸ ἀναγκαῖον,perché io non intendo il necessario come intende il Robertello.
[5] Ma ora seguiamo il nostro proposito, come il verisimile possa esser congiunto co ’l meraviglioso senza la grazia ancora e senza la venustà de’ versi, che sono quasi lusinghe da persuadere a gli orecchi. Diversissime sono, illustrissimo Signore, queste due nature, il meraviglioso e ’l verisimile, e in guisa diverse che sono quasi contrarie fra loro; nondimeno l’una e l’altra nel poema è necessaria, ma fa mestieri che arte di eccellente poeta sia quella ch’insieme l’accoppi; il che, se ben è stato sin ora fatto da molti, niuno è (che io mi sappia) il quale insegni come si faccia; anzi alcuni uomini di somma dottrina, veggendo la ripugnanza di queste due nature, hanno giudicato quella parte ch'è verisimile ne' poemi non essere maravigliosa, né quella che è maravigliosa verisimile, ma che nondimeno, essendo ambedue necessarie, si debba or seguire il verisimile, ora il maraviglioso, di maniera che l’una all’altra non ceda, ma l’una dall’altra sia temperata. Ma io questa opinione non approvo, né stimo che parte alcuna debba nel poema ritrovarsi che non sia vensimile; e la ragione che mi muove a così credere è tale. La poesia non è altro che imitazione (e questo non si può chiamare in dubbio); e l’imitazione non può essere discompagnata dal verisimile, perché l’imitare non è altro che il rassomigliare; non può dunque parte alcuna di poesia esser separata dal verisimile; e in somma il verisimile non è una di quelle condizioni richieste nella poesia per maggior sua bellezza e ornamento, ma è propria e intrinseca dell’essenza sua, e in ogni sua parte sovra ogn’altra cosa necessaria. Ma benché io stringa il poeta epico ad un obligo perpetuo di servare il verisimile, non però escludo da lui l’altra parte, cioè il meraviglioso; anzi giudico che un’azione medesima possa essere e meravigliosa e verisimile; e molti credo che siano i modi di congiungere insieme queste qualità così discordanti; e rimettendo gli altri a quella parte ove della testura della favola si tratterà, la quale è lor proprio luogo, qui parleremo di quello che più si conviene a questa materia.
[6] Attribuisca il poeta alcune operazioni, che di gran lunga eccedono il poter de gli uomini, a Dio, a gli angioli suoi, a’ demoni o a coloro a’ quali da Dio o da’ demoni è conceduta potestà, quali sono i santi, i magi e le fate. Queste opere, se per se stesse saranno considerate, meravigliose parranno, anzi miracoli sono chiamati nel commune uso di parlare. Queste medesime, se si averà riguardo alla virtù e alla potenza di chi l’ha operate, verisimili saranno giudicate, perché, avendo gli uomini nostri bevuta nelle fasce insieme col latte questa opinione, ed essendo poi in loro confermata da i maestri della nostra santa fede (cioè che Dio e i suoi ministri e i demoni e i magi, permettendolo Lui, possano far cose sovra le forze della natura meravigliose),e leggendo e sentendo ogni dì ricordarne nuovi essempi, non parrà loro fuori del verisimile quello che credono non solo esser possibile, ma stimano spesse fiate esser avvenuto e poter di nuovo molte volte avvenire. Sì come anco a quegli antichi, che vivevano ne gli errori della lor vana religione, non deveano parer impossibili que’ miracoli che de’ lor dei favoleggiavano non solo i poeti, ma l’istorie; perché, se pur gli uomini scienziati gli prestavano picciola credenza, basta al poeta in questo, com’in molte altre cose, la opinion della moltitudine, alla quale molte volte, lasciando l’essatta verità delle cose, e suole e dee attenersi. Può esser dunque una medesima azione e meravigliosa e verisimile : meravigliosa riguardandola in se stessa e circonscritta dentro a i termini naturali, verisimile considerandola divisa da questi termini, nella sua cagione, la quale è una virtù sopranaturale, possente e usata a far simili meraviglie. Ma di questo modo di congiungere il verisimile col meraviglioso privi sono que’ poemi ne’ quali s’introducono le deità de’ gentili, come l'Ercole del Geraldo e ’l Constante del Bolognetto; né senza molta sconvenevolezza mi pare che introducea il Bolognetto Giove, iddio delle genti, a predire, come amico e benevolo, la grandezza de’ pontefici romani, perché prediceva per conseguenza la destruzione de gli idoli suoi e de’ tempi e de gli altari e de’ molti sacrifici; e, quel che è peggio, la predizione è fatta a Venere, non s’accorgendo il poeta che niun aspetto e niuna congiunzione di Giove con Venere, niuna genealogia de gli dei, niuna favola, niuna istoria faceva tolerabili queste cose nel suo poema; le quali in Virgilio sono meravigliose per l’opinione avuta da’ Romani d’esser discesi da Enea, figliuolo di Venere e d’Anchise, e particolarmente da Giulio Cesare e dalla gente Iulia, della quale Iulo, figliuolo di Enea, era stato progenitore. Per tutte queste cagioni le poesie di Virgilio son degne di tanta laude quanta può darsi a poeta di quella età nella quale egli scrisse. Oltre a ciò, chi vuol formare l’idea d’un perfetto cavaliere, non so per qual cagione gli nieghi questa lode di pietà e di religione. Laonde proporrei di gran lunga la persona di Carlo e d’Artù a quella di Teseo e di Giasone. Ultimamente, dovendo il poeta aver molto riguardo al giovamento, molto meglio accenderà l’animo de' nostri cavalieri con l’essempio de’ fideli che de gli infideli, movendo sempre più l’autorità de’ simili che de’ non simili, e de’ domestici che degli stranieri. E se noi consideriamo il Panegirico d’Isocrate, conosceremo di leggieri la cagione per la quale la poesia d’Omero fosse tanto cara a’ popoli della Grecia ne’ suoi tempi: e quest’altra non fu che la inimicizia antichissima tra Greci e barbari, per la quale più volentieri dell’altre cose erano lette le vittorie de’ Greci e cantate ne gli inni; ma per le morti de’ medesimi si fecero i lamenti e l’altre poesie sì fatte. Per queste cagioni medesime a i nostri tempi le vittorie de’ fideli contro gli infideli porgeranno gratissimo e nobilissimo argumento di poetare.
[7] Dee dunque l’argumento del poema epico esser derivato da vera istoria e da non falsa religione. Ma l’istorie e le scritture sono sacre o non sacre; e delle sacre alcune hanno maggiore, altre minore autorità: maggior autorità hanno l’ecclesiastiche e le spirituali, se così è lecito il dire, perché tutte le cose spirituali son sacre, come parve a san Tomaso, ma non tutte le sacre spirituali; l’altre senza fallo sono meno autorevoli. Nelle istorie della prima qualità a pena ardisca il poeta di stender la mano; ma si possono lasciare nella pura e semplice verità, perché non si fa fatica alcuna nel trovare, e a pena par ch’il fingere ivi sia lecito; e chi non fingesse e non imitasse, obligandosi a que’ particolari medesimi che ivi sono contenuti, poeta non sarebbe, ma più tosto istorico.
[8] In queste medesime istorie si può fare un’altra distinzione: perché o contengono avenimenti de’ nostri tempi, o de’ tempi remotissimi, o cose non molto moderne né molto antiche. L’istoria di secolo o di nazione lontanissima pare per alcuna ragione soggetto assai conveniente al poema eroico, peroché, essendo quelle cose in guisa sepolte nell’antichità ch’a pena ne rimane debole e oscura memoria, può il poeta mutarle e rimutarle e narrarle come gli piace. Ma con questo commodo è un incommodo pera ventura, e non picciolo, perché insieme con l’antichità de’ tempi è quasi necessario che s’introduca nel poema l’antichità de’ costumi; ma quella maniera di guerreggiare usata da gli antichi, i conviti, le ceremonie e l’altre usanze di quel remotissimo secolo paiono alcuna volta a' nostri uomini noiose e rincrescevoli anzi che no, come aviene ad alcuni idioti che leggono i divinissimi libri d’Omero trasportati in altra lingua. E di ciò in buona parte è cagione l’antichità de’ costumi, la quale da coloro c’hanno avezzo il gusto alla gentilezza e al decoro di questa età è schivata come cosa vieta e rancida. Ma chi volesse con l’antichità de’ secoli descriver l’usanze moderne, potrebbe torsi parere simile alcuna volta a poco giudizioso pittore che ci mostrasse l’imagine di Catone o di Cincinnato vestito secondo le foggie della gioventù milanese o napolitana, o, togliendo ad Ercole la clava e la pelle del leone, l’adomasse di sopraveste e di cimiero, come fece il Giraldo nel suo poema, ma non senza grande essempio, perché prima Esiodo avea descritte l’arme e lo scudo di Ercole quasi gareggiando con Omero, e la battaglia fatta da lui con Cigno, figliuolo di Marte.
[9] Portano l’istorie moderne gran comodità e molta convenevolezza in questa parte de’ costumi e delle usanze, ma togliono quasi in tutto la licenza di fingere e d’imitare, la quale è necessariissima a’ poeti, particolarmente a gli epici. Oltre a ciò, per un'altra ragione par che nieghi Aristotele al poeta tragico l’argumento delle cose moderne: perché la tragedia è imitazione di uomini più eccellenti che non sono i moderni; e per l'istessa ragione non deono le cose presenti, o quelle che sono passate di poco tempo, esser soggetto del poema eroico. Ma nell’azioni di Carlo Quinto dee esser più tosto considerata la prima ragione, o le prime, avenga che troppo ardito parrebbe colui che volesse descriverle altrimenti di quello che molti sanno esser avvenute, o per se medesimi o per certe relazioni de gli avi o de’ padri, che ne sono informati. Oltre a ciò, l’azioni di Carlo sono state così grandi e così laudevoli, anzi cosi meravigliose c’hanno più tosto tolta che data a’ poeti l’occasione d'accrescerle. Ma non si dee trapassare in questo luogo senza considerare quel che scrive Isocrate nell'Evagora : «Sarebbe dunque officio de gli altri il lodar gli uomini eccellenti della sua età, acciò che coloro i quali possono ornar con le parole gli egregi fatti de gli antichi, dicessero il vero a gli altri i quali hanno notizia delle cose, e incitassero i giovani con maggior emulazione della virtù, sapendo di dover esser più lodati di quelli antichi, la cui virtù hanno superata. Ora chi non perde l’animo veggendo coloro i quali vissero nella guerra troiana, o avanti quel tempo, esser celebrati con divine laudi, e le cose fatte da loro messe inanzi a gli occhi per spettacolo della tragedia, e sappia, benché avanzasse la virtù di quegl’istessi, di non dover mai essere stimato degno di laude somigliante? Il che si dovrebbe imputare all’invidia». Ma delle cose ch’egli poi soggiunge si raccoglie che ’ fatti de gli uomini presenti, o vicini alla nostra memoria, possono esser trattati da gli oratori, benché cedano in molte cose a’ poeti : intendeva nondimeno, per mio aviso, delli scrittori de’ panegirici e dell’ode che solevano cantarsi, fra’ quali fu Pindaro; perché, degli epici e de' tragici parlando, manifestò la sua opinione assai chiaramente nel Panatenaico, quando egli disse che Agamennone, dopo le cose fatte da lui e l’essempio lasciato a gli altri, era defraudato della gloria per colpa di coloro che prepongono i portenti a’ benefizii e la bugia alla verità ; e, per mio aviso, intende Isocrate delle cose mirabili fatte da Achille con molto favor di Giove e con poca riputazione d’Agamennone, divenuto supplichevole ad un giovane adirato. Si può a queste cose aggiungere l'autorità d’Aristotele ne’ Problemi, e la ragione che egli adduce perché ci piaccia più la narrazione delle cose non troppo nuove né troppo vecchie ; la quale è questa : che noi diffidiamo delle cose troppo lontane, ma non possiamo aver diletto di quelle nelle quali non abbiamo fede ; ma l’altre che sono troppo nuove pare che ancora le sentiamo, però n’abbiamo minor diletto.
[10] Tutte queste condizioni, illustrissimo Signore, si richiedono nella materia nuda o informe, ma non però in guisa che, mancandogliene una, ella divenga inabile a ricever la forma del poema eroico. Ciascuna per sé sola fa qualche effetto, chi più e chi meno, ma tutte insieme tanto rilevano che senz’esse non sarebbe capace di perfezione. Ma oltre queste, richieste nel poema per maggior eccellenza, una n’addurrò semplicemente necessaria, come si può raccorre dalla sua definizione: quest’è che l’azione che dee venire sotto l’artificio dell’epico sia nobile e illustre e abbia grandezza; e non altra differenza è quella la quale costituisce la forma dell’epopeia. Convengono in ciò la poesia eroica e la tragica, ma sono differenti dalla comedia, ch’è imitatrice delle basse e popolaresche azioni. Ma communemente si crede che la tragedia e l’epopeia non siano differenti fra loro nelle cose imitate, imitando l’una e l’altra parimente l’azioni grandi e illustri, ma che la differenza fra loro nasca dalla diversità del modo ; è dunque necessario che ciò più minutamente si consideri.
[11] Costituisce Aristotele nella sua Poetica tre differenze essenziali e specifiche per le quali un poema dall’altro si separa e si distingue, e con poche parole sono da lui espresse in questa guisa: ἢ γὰρ τῷ γένει ἑτέροις μιμεῖσζαι, ἢ τῷ ἕτερα, ἢ τῷ ἑτέρως καὶ μὴ τὸν αὐτὸν τρόπον le quali significano nella nostra lingua: «imitano o con le cose diverse di genere, o cose diverse, o in modo diverso». Le cose imitate sono l’azioni. Il modo è il narrare o il representare: narrare si dice quello nel quale appare la persona del poeta, rappresentare ove è occulta quella del poeta e si manifesta quella delli istrioni; e l’uno si dice da’ Greci δι᾿ἀπαγγελιαν, l’altro di questi modi è detto drammatico. Le cose con le quali s’imita, cioè l’instrumenti dell’imitazione, sono il parlare, il ritmo e l’armonia: parlare è la composizione di molte parole significatrici de’ nostri concetti secondo il nostro compiacimento; l’armonia si può difhnire una concordia di voci discordi; per il ritmo intendo la misura de’ movimenti e di gesti che fanno gli istrioni. Poi che Aristotele ha poste le tre differenze essenziali, dice che la tragedia è simile alla comedia nel modo dell'imitare e nelle cose con le quali imitano, peroché l’una e l’altra rappresenta, e ambedue, oltre il verso, si vagliono del ritmo e dell’armonia; ma quel che le fa differenti di natura è la diversità delle cose imitate, perché la comedia imita gli umili, la tragedia uomini più eccellenti ch’oggi non sono. L'epopeia è poi conforme alla tragedia in quello in che la comedia è dissimile, ma le fa differenti il modo : narra l’epico, rappresenta il tragico ; e narra il primo μόνον τοῖς λόγοις ψιλοῖς ἢ τοῖς μέτροις, cioè col parlar nudo e non condito, e co' versi ; il tragico, oltre il verso, usa il ritmo e l’armonia, ch’è quasi condimento delle parole.
[12] Con queste cose dette d’Aristotele brevemente, ma con quella oscura brevità ch’è propria di lui, è stato creduto il tragico e l’epico in tutto conformarsi nelle cose imitate; la qual opinione, benché commune e universale, si può nondimeno considerare più esquisitamente. Se l’azioni epiche e tragiche fossero dell’istessa natura, produrrebbono gli istessi effetti, peroché dalle medesime cagioni sono derivati gli effetti medesimi; ma producendo diverse passioni, ne seguita che diversa sia la natura. Muovono l’azioni tragiche l’orrore e la compassione, e dove manchi il miserabile e lo spaventoso, non sono più tragiche. Ma gli epici non sogliono nell’istesso modo contristar gli animi, né questa condizione in loro si richiede come necessaria; imperoché dice Aristotele che il rallegrarsi della pena delli scelerati, quantunque piaccia a gli spettatori, non è proprio della favola tragica, ma nell’eroica si loda senza fallo; e se talora ne’ poemi eroici si vede qualche caso orribile o compassionevole, non si cerca però l’orrore e la compassione in tutto il contesto della favola; nella quale ci rallegriamo della vittoria de gli amici e della perdita de' nemici, ma de’ nemici, come sono i barbari e gl’infideli, non si dee avere egualmente misericordia. Non è ancora illustre parimente l’azione del tragico e quella dell’epico, o quello illustre è quasi diverso di natura e di forma : l’uno consiste nella inaspettata e sùbita mutazione di fortuna, e nella grandezza de gli avvenimenti che muovono misericordia e terrore ; ma l’illustre dell’eroico è fondato sovra l’eccelsa virtù militare e sopra il magnanimo proponimento di morire, sovra la pietà, sovra la religione e sovra l’azioni nelle quali risplendono queste virtù, che sono proprie dell’epopeia e non convengono tanto nella tragedia. E quinci aviene che le persone le quali nell’uno e nell’altro poema s’introducono, non sono della medesima natura, quantunque siano de’ re e de’ prencipi grandi. Richiede la tragedia persone né buone né cattive, ma d’una condizione di mezzo : tale è Oreste, Elettra, Giocasta, Eteocle, Edippo la cui persona fu da Aristotele giudicata attissima alla favola tragica. L’epico all’incontro vuole il sommo delle virtù ; però le persone sono eroiche come è la virtù. Si ritrova in Enea l’eccellenza della pietà, della fortezza militare in Achille, della prudenza in Ulisse. E se alcuna volta il tragico e l’epico prendono per soggetto la persona medesima, è da loro considerata diversamente e con vari rispetti. Considera l’epico in Ercole, in Teseo, in Agamennone, in Aiace, in Pirro il valore e l’eccellenza dell’armi; gli risguarda il tragico come caduti per qualche errore nell’infelicità. Ricevono ancora gli epici non solo il colmo della virtù nelle persone da lor descritte, ma l’eccellenza del vizio con minor pericolo assai che i tragici non sono usi di fare. Tale è Mezenzio, Busiri, Procuste, Diomede, Tersite e gli altri somiglianti ; tali, o non molto diversi, sono Ciclopi e Lestrigoni, ne’ quali la ferità è in vece del vizio, ma molto più terribile del vizio e più spaventosa.
[13] Per le cose dette può esser manifesto che la differenza ch’è fra la tragedia e l’epopeia non nasce solamente dalla diversità de gl'instrumenti e del modo deH’imitare, ma prima dalla varietà delle cose imitate, la quale è molto più propria dell’altre, e d’Aristotele ancora è accennata in quelle parole: ὥστε τῇ μὲν ὁ αυτὸς αν εἴη μιμητὴς Ὁμήρω Σοφοκλῆς, μιμοῦνται γὰρ ἄμφω σπουδαίους perché se Omero in qualche modo non è diverso da Sofocle, imitando l’uno e l’altro gli uomini eccellenti, non ne segue però che sia affatto simile. Bastò ad Aristotele accennar questa differenza, perché l’altre due sono in guisa note che non lasciano luoco a dubbio alcuno. Ma quell’illustre ch’abbiamo detto esser proprio dell’eroico, può esser più o meno illustre : quanto la materia conterrà in sé avenimenti più nobili e più grandi, tanto sarà più disposta all’eccellentissima forma dell’epopeia. Però disse Aristotele ch’Omero oltre tutti gli altri fu eroico e, per cosi dire, principalmente eroico; e, mossi dalla sua autorità, alcuni portano opinione che l’amore non sia convenevol materia dell’eroico o del tragico, e dicono ch’egli in due poemi, dell'Iliade e dell'Odissea, a pena si ricorda d’amore. Il medesimo provano con l’autorità di Sofocle, il quale fra l'altre sue tragedie non ne scrisse pur una de soggetti amorosi. Questi medesimi non lodavano Virgilio, che avesse finto Didone inamorata d’Enea, riprendendoci del soverchio diletto con que’ versi del nostro poeta toscano :
Taccia il vulgo ignorante ! io dico Dido,ch’amor pio del suo sposo a morte spinse,non quel d’Enea, com’è publico grido.
Parea nondimeno a costoro che Virgilio fosse stato più ristretto e parco che non siamo noi altri, perché molte cose e’ poteva dire dell’amor d’Enea, molte di quello d’Iarba, molte di quello di Turno e di Lavinia, le quali da lui sono taciute o a pena accennate. Aggiungevano la ragione all’autorità, dicendo che l’uno e l’altro poema è gravissimo, laonde non pare ch’in lor si convenga l’amore in modo alcuno, avenga ch’egli sia passione di animo leggiero ; onde si legge :
Ei nacque d’ozio e di lascivia umana,nudrito di pensier dolci e soavi,fatto signore e dio da gente vana.
Assegnavano dunque l’amore più tosto alla comedia. Ma io fui sempre di contrario parere, parendomi ch’ai poema eroico fossero convenienti le cose bellissime ; ma bellissimo è l'amore, come stimò Fedro appresso Platone ; ma s’egli non fosse né bello né brutto, come fu più tosto giudizio di Diotima, non però conviene alle comedie, le quali dilettano con le cose brutte, e con quelle muovono a riso. Laonde la comedia vecchia dee esser peraventura più lodata, come credeva il Maggio, perché la nova ci ha depinto alcuna volta l’amore così bello che per poco non si poteva descrivere nel poema eroico con più be’ colori. Ma non si può negare che l’amor non sia passione propria de gli eroi, perché a duo affetti furono principalmente sottoposti, come stima Proclo, gran filosofo nella setta de’ platonici : all’ira e all’amore ; e se l’uno è convenevole nel poema eroico, l’altro non dee esser disdicevole in modo alcuno ; ma convenevolissima è l’ira per giudizio di tutti e d’Omero medesimo, il quale dall’ira d'Achille prese il soggetto del suo nobilissimo poema ; dunque l’amore è convenevole similmente, e amore fu quello d’Achille e di Patroclo, come parve a Platone. Laonde nell’istesso poema non solamente è descritta l’ira d'Achille contra Agamennone e contra Ettore e gli altri Troiani, ma l’amor suo verso Patroclo. Taccio di Criseida e di Briseida, benché quelli abbracciamenti amorosi non fussero senza amore ; ma l'amore non fu nobile, come disse il Petrarca :
Tu sai che il grande Atride e l’alto Achille,.................e di tutti il più chiaroun altro e di virtute e di fortuna,.................lasciai cadere in vii amor d’ancille.
Taccio, dico, l’amore che non è nobile, ma non posso trapassare sotto silenzio l’amor d’Elena, nobilissimo e forse bellissimo quantunque ingiusto : perché la causa del bello è superiore a quella del giusto, come stima l’istesso Proclo, tra i platonici filosofo di grandissima stima, il quale pone nel grado superiore il buono o il bene, nel secondo il bello, nel terzo il giusto. Ma ciò si dee intendere solamente ne’ principii delle cose, perché nell’anima nostra non può esser bellezza senza giustizia. Nondimeno Isocrate ancora stimò che tutta la grazia e la venustà de’ poemi d’Omero nascesse dalla bellezza d’Elena. Laonde non è meraviglia se i Troiani, per ritenerla, guerreggiarono tanti anni contra la giustizia, non ascoltando il consiglio de’ più savi, i quali persuadevano che si rendesse a Menelao, come nota Aristotele ne’ suoi libri morali, alla cui autorità debbiamo prestar maggior fede ch’a quella d’ogni altro filosofo. Ma, per suo giudizio, non è negato al poema eroico, e per opinione de gli altri è conceduto. E se gravissima è la tragedia, niun’altra avrebbe maggior bisogno che la sua soverchia severità fosse temperata con la piacevolezza d’amore; né questa piacevolezza ricusò di darle Euripide nella sua Fedra, dopoi Seneca nell'Ippolito ; e Sofocle medesimo sparse l'Antigone de gli amorosi affetti e del pietoso amore di Emone, e le Trachine e l’Ercole in Eta delle passioni amorose di Dianira. Laonde Demetrio Falereo nel libro suo Dell’elocuzione scrisse che niuna cosa fa più graziose le tragedie dell’amore. Ma noi parliamo dell’amor di cavaliero, qual fu o potè esser quel d’Achille con Polissena, accennato a pena da’ tragici; e di questo non si potrebbe dubitare, s’egli fosse convenevole al poema eroico, ma qual delle due passioni fosse più conveniente, l’ira o l’amore. Omero stimò senza dubbio piu conveniente l’ira, perché altrimente avrebbe formato il poema dell’amor d’Achille e di Polissena. E oltre ciò, la ragione e l’autorità di Platone par che più ci confermi quella d’Omero, perché tra le tre potenze dell’animo nostro, io dico la ragione e l’appetito irascibile e ’l concupiscibile, senza fallo nobilissima è la ragione, e quasi regina dell’altre ; ma il concupiscibile appetito somiglia più tosto al rubbello popolare, il qual, sollevandosi e facendo tumulto nell’animo, nega di prestare obedienza alla ragione, là dove l’irascibile è quasi guerriero e ministro della ragione in raffrenare l’altro che le fa contrasto. Dunque dell’ira più tosto che dell’amore dee prendere soggetto il poeta eroico. E ciò peraventura sarebbe vero se gli eroi fossino tutti e sempre soggetti alle passioni ; ma se l’amore è non solo una passione e un movimento dell’appetito sensitivo, ma uno abito nobilissimo della volontà, come volle san Tomaso, l’amore sarà più lodevole ne gli eroi, e per conseguente nel poema eroico. Ma gli antichi o non conobbero questo amore, o non volsero descriverlo ne gli eroi ; ma se non onorarono l’amore come virtù umana, l’adorarono quasi divina; però niuna altra dovevano stimar più conveniente a gli eroi. Laonde azioni eroiche ci potranno parer, oltre l’altre, quelle che son fatte per amore. Ma i poeti moderni, se non vogliono descriver la divinità dell’amore in quelli ch’espongono la vita per Cristo, possono ancora, nel formarvi un cavaliere, descriverci l’amore come un abito costante della volontà ; e così gli hanno formati, oltre tutti gli altri, quegli scrittori spagnuoli i quali favoleggiarono nella loro lingua materna senza obligo alcuno di rime, e con sì poca ambizione ch’a pena è passato alla posterità nostra il nome d’alcuno. Ma qualunque fosse colui che ci descrisse Amadigi amante d’Oriana, merita maggior lode ch’alcuno degli scrittori francesi ; e non traggo di questo numero Arnaldo Daniello, il quale scrisse di Lancillotto, quantunque dicesse Dante :
Rime d’amore e prose di romanzisoverchiò tutti ; e lascia dir gli stoltiche quel di Limosi credon ch’avanzi.
Ma s’egli avesse letto Amadigi di Gaula o quel di Grecia o Primaleone, peraventura avrebbe mutata opinione, perché più nobilmente e con maggior costanza sono descritti gli amori da’ poeti spagnuoli che da’ francesi, se pur non merita d’esser tratto da questo numero Girone il Cortese, il quale castiga cosi gravemente la sua amorosa incontinenza alla fontana ; ma senza fallo è maggiore lode avere in guisa disposto l’animo ch’alcuno affetto non possa prender l’arme contea la ragione. Laonde più perfetta sarebbe stata l’amicizia di Girone con Danaino s’ella non fosse stata perturbata dall’amore. Assai men grave nondimeno è 'l fallo di Girone che quello del Biscaglino nel Furioso, anzi non può quasi fra loro esser fatta alcuna comparazione ; e se Girone non fosse stato cosi vicino al commetter fallo, la sua virtù ci parrebbe maggior senza dubbio ; ma non sarebbe cosi piacevole il poema in quella parte. La virtù nondimeno di Leone nel Furioso supera tutti gli altri essempi ch’io abbia letto ; laonde mi pare che scioccamente si dubiti qual sia maggiore cortesia, quella di Leone o quella di Ruggiero, perché non è cortesia quella ch’è fatta contra l’onesto e contra il dritto ; ma non era onesto che Ruggiero ingannasse Bradamante ; non fu dunque cortesia quella di Ruggiero ; però non doveria contendere con quella del prencipe greco, alla quale si può paragonare in qualche modo quella di Gisippo, uomo dell’istessa nazione, ma non della medesima fortuna ; perché quell’altra di messere Ansaldo fu similmente una generosa pazzia, ma degna di riprensione più tosto che di lode. In somma l’amore e l’amicizia sono convenevolissimo soggetto del poema eroico ; e se vogliam chiamare amicizia quella d’Achille e di Patroclo, niun’altra potea dar materia di poetar più eroicamente. Ma non dee l’opinione di Dante esser tralasciata, perché la sua autorità, in questa lingua, non mediocre, può esser fondamento della nostra opinione. Egli dice ne’ libri Della volgare eloquenza che tre sono le cose che deono esser cantate nel sommo stile : la salute e l’amore e la virtù ; la salute come utile, l’amor come piacevole, la virtù come onesta. Ma s’il sommo stile è il tragico, in quanto è l’istesso con l’eroico o in quanto il contiene, l’amore senza fallo dee esser cantato dal poema eroico. Ma egli considera l’amore come piacevole, e si potrebbe considerare ancora come onesto o come virtù cavaleresca, cioè come abito della volontà. Concedasi dunque che ’l poema epico si possa formar di soggetto amoroso, com’è l’amor di Leandro e d’Ero, de’ quali cantò Museo, antichissimo poeta greco ; e quel di Giasone e di Medea, dal qual prese il soggetto Apollonio fra’ Greci e Valerio Fiacco tra’ Latini ; o quel di Alessandro e d’Elena descritto da Coluto Tebano e dal cardinale Sfondrato padre di Gregorio XIV, non solo a’ suoi tempi grandissimo prelato, ma grandissimo poeta ; o quelli di Teagene e di Cariclea, e di Leucippe e di Clitofonte, che nella medesima lingua furono scritti per Eliodoro e per Achille Tazio ; o gli altri d’Arcita e di Palemone, e di Florio e di Biancofiore, di cui nella nostra lingua poetò il Boccaccio ; o gli avenimenti di Piramo e di Tisbe, i quali diedero materia ad un picciol poema del Tasso mio padre ; o la pazzia di Narcisso, da cui prese soggetto l’Alemanno. Ma in questa idea, ch’ora andiamo cercando, del perfettissimo poema, fa mestieri ch’abbiamo riguardo alla nobiltà e all'eccellenza più ch’a tutte le cose. Però debbiamo scegliere azione in cui la nobiltà sia in sommo grado, come è nell’impresa de gli Argonauti che passarono al vello d’oro, di cui fecero i loro poemi Orfeo prima e dapoi Apollonio. È parimente questa condizione nella guerra di Troia e negli errori di Ulisse cantati da Omero, e in quella di Tebe e nella fanciullezza d’Achille scritta da Stazio, e nella guerra civile e nella seconda africana ridotte in versi da Lucano e da Silio Italico e dal Petrarca, il quale negli amori di Masinissa superò il primo di gran lunga ; ma oltre tutte l’altre è nobilissima azione la venuta di Enea in Italia, perché l’argumento è per sé grande e illustre, ma grandissimo e illustrissimo avendo riguardo all'Imperio romano ch’ebbe origine da quella, come nel principio dell'Eneide accenna il divino poeta :
Tantae molis erat Romanam condere gentem.
Tale era la liberazione d’Italia da’ Goti, che porse materia al poema del Trissino, tali sono quelle imprese che per la confermazion della fede, o per l’essaltazione della Chiesa o dell'Imperio furono felicemente e gloriosamente adoperate ; le quali per se medesime acquistano gli animi de’ lettori e muovono aspettazione e diletto meraviglioso, e, aggiontovi l’artificio dell’eccellente poeta, non è cosa che non possano ne gli animi nostri.
[14] Dee dunque il poeta schivar gli argomenti fìnti, massimamente si finge esser avvenuta alcuna cosa in paese vicino e conosciuto, e fra nazione amica, perché fra’ popoli lontani e ne’ paesi incogniti possiamo finger molte cose di leggieri senza toglier autorità alla favola. Però di Gotia e di Norveggia e di Suevia e d’Islanda o dell’Indie Orientali o di paesi di nuovo ritrovati nel vastissimo Oceano oltre le Colonne d’Ercole si dee prender la materia de sì fatti poemi. Non tocchi ancora il poeta quelle cose che non possono esser trattate poeticamente, e nelle quali non ha luogo la finzione e l’artefìcio; rifiuti le troppo rozze, a cui non si può quasi aggiongere splendore, e si ricordi di quel precetto d’Orazio :
et quaedesperas tractata nitescere posse, relinque.
Rifiuti le male ordinate, a guisa di tronco troppo torto il quale non sia buono per la fabrica ; ricusi le materie troppo asciutte e troppo aride, le quali non danno molte occasioni all’ingegno e all’arte del poeta, e quelle che sono noiose e rincrescevoli soverchiamente, e l’infelici, com’è la morte de’ paladini e la rotta di Roncisvalle ; perché fra’ Greci ancora o fra’ Latini niuno è che celebrasse in poema eroico la sconfitta de gli Ateniesi o de gli Spartani, e le vittorie di Persiani o pur quelle de’ Francesi ; anzi Allia per l’occisione de’ nostri fu riputato nome infausto e infelice, come dovrebb’esser quel di Roncisvalle. Figuri la morte e l’occisioni fra gli avversari, come fece Omero che l’accrebbe fra' Troiani e fra’ barbari. Men savio consiglio veramente fu quello di Stazio, che celebrò la calamità de gli Argivi e la morte o la rotta dell’essercito condotto da’ sette regi, perché quello è soggetto tragico anzi che no, e fra i Greci fu trattato da Euripide, il quale, come dice Aristotele, è τραγίκώτατος Non s’invaghisca il poeta delle materie troppo sottili e convenienti più tosto alle scuole de’ teologi o de’ filosofanti ch’a’ palagi de' principi e a’ teatri ; non si mostri ambizioso nelle questioni naturali e teologice, e non dimentichi quello che dice Orazio lodando Omero e proponendolo a molti filosofi i quali avevano scritto delle virtù e dell’onesto, come si legge nella seconda epistola a Lollio :
Troiani belli scriptorem, Maxime Lolli,dum tu declamas Romae, Praeneste relegi ;qui, quid sit pulchrum, quid turpe, quid utile, quid non,plenius et melius Chrysippo et Crantore dicit.
Non si mostri troppo curioso nella cognizione dell’antichità oscura e quasi nascosta, ove l’oscurità non fosse di cose grandissime e degne della cognizione ; delle cose minute sia sprezzatore anzi che no, nell'acute magnifico, nelle riposte aperto, e in tutte meraviglioso ; non sia troppo lungo nelle cerimonie delle cose sacre o profane, e ne' giuochi sia ornato, efficace, e ponga le cose inanzi gli occhi, e non descriva tutti quelli che si fanno, ma i più celebri e illustri, e quelli che sono quasi simulacri della guerra o sua essercitazione, come fecero Virgilio e Omero, l’uno nell’essequie di Patroclo, l’altro nella sepoltura d’Anchise. Ma ora in vece di giuochi sono succeduti torniamenti e giostre, che magnificamente furono descritti da’ nostri poeti, come fu dall’Ariosto quello di Damasco, dal Tasso quella di Cornovaglia più convenevolmente : perché nell’Inghilterra solevano usarsi, ma non era costume de' Turchi o de’ Saracini il giostrare ; laonde soleva dire Geme, fratello de Salim imperatore de’ Turchi, mentre egli fu prigioniero in Roma, che era troppo da scherzo e poco da dovero. Abbia ancora risguardo il poeta alla gloria della nazione, all’origine delle città e delle famiglie illustri, a’ principi de’ regni e degl’imperi, come ebbe, oltre tutti gli altri, Virgilio ; non sia troppo licenzioso nel fingere le cose impossibili, le mostruose, le prodigiose, le sconvenevoli, come fece colui il quale volle imitare la favola di Tiresia che, percotendo e ripercotendo i serpenti, di maschio divenne femina, e poi di femina maschio, ma poco felicemente trasmutò Rinaldo in una donna ; ma consideri il poter dell’arte maga e della natura istessa quasi rinchiuso dentro a certi conimi e ristretto sotto alcune leggi, e gli antichi e i vecchi prodigi, e l'occasioni delle meraviglie e de’ miracoli e de’ mostri, e la diversità delle religioni, e la gravità delle persone ; e cerchi di accrescere quanto egli può fede alla meraviglia senza diminuire il diletto. Però non dee rifiutar gl’incanti, non le caccie, benché elle fossero di fiere terribili e rare volte vedute, come fu quella che fece Agramante in Biserta ; e in questa parte possiamo seguir l'autorità de gli antichi nella caccia del porco ucciso da Atalanta, che diede occasione all’infelicità di Meleagro, celebrato da greci e da latini poeti, e in quella del toro che fu domato da Teseo, o del serpente ucciso da Ercole. Descriva le tempeste, gl’incendi, le navigazioni, i paesi e i luoghi particolari ; si compiaccia nella descrizione delle battaglie terrestri e maritime, de gli assalti delle città, dell’ordinanza dell’essercito, e del modo di alloggiare ; ma in questo schivi il soverchio e temperi il rincrescimento di troppa esquisita dottrina, perché non abbiamo essempio di Virgilio o da Omero o d’altro antico poeta, ma dal Trissino solamente. Non sia troppo lungo ne gli ammaestramenti dell’arte militare, ne’ quali il Tasso imitò Claudiano, inducendo Perione ch’ammaestra Galaoro in quel modo che Teodosio imperatore avea tenuto con Onorio suo figliuolo. Simile avertimento potrebbe mostrare ove descrive la fame, la sete, la peste, il nascer dell’aurora, il cader del sole, il mezzo giorno, la mezza notte, le stagioni dell’anno, la qualità de’ mesi o di giorni o piovosi o sereni o tranquilli o tempestosi ; ma ne’ consigli e nelle rassegne può distendersi più securamente con l’autorità de gli antichi poeti ; e nel descriver Tarme, l'imprese, i cavalli, le navi, i tempii, i palagi, i padiglioni, le tende, le pitture e le statue e l’altre cose somiglianti, abbia sempre riguardo a quel che conviene, e schivi la noia che porta seco la soverchia lunghezza. Nelle morti cerchi la varietà, l’efficacia, l’affetto, nell’incontri di lancia e ne' colpi di spada la verisimilitudine, non passando troppo quel ch’è avvenuto, o che può avvenire, o che si crede, o che si racconta. Nelle minaccie sia altero e acerbo, ne' lamenti breve e affettuoso, ne gli scherzi piacevole e grazioso ; non asconda le cose vere nell’antichità e quasi nelle nuvole ; non mostri le finte al sole, ma più tosto al buio, quasi merci che in quel modo si vendono di leggieri ; e fra i nostri tempi e gli antichissimi secoli scelga quelli che sono lontani dalla nostra memoria con distanza conveniente, a guisa di pittore che non metta le pitture sotto gli occhi, né ancora tanto lontane che non possano essere raffigurate, ma le disponga al lume in parte alta convenevolmente. Elegga fra le cose belle le bellissime, fra le grandi le grandissime, fra le meravigliose le meravigliosissime ; e alle meravigliosissime ancora cerchi d’accrescere novità e grandezza ; lasci da parte le necessarie, come il mangiare e l’apparecchiar le vivande, o le descriva brevemente, come descrisse Virgilio in que’ versi :
Illi se praedae accingunt dapibusque futuris:tergora diripiunt costis et viscera nudant,pars in frusta secant verubusque trementia fìgunt,littore ahena locant alii flammasque ministrant.Tum victu revocant vires fusique per herbamimplentur veteris Bacchi pinguisque ferinae.
E in quegli altri :
At domus interior regali splendida luxuinstruitur, mediisque parant convivia tectis :arte laboratae vestes ostroque superbo,ingens argentum mensis caelataque in aurofortia facta patrum, series longissima rerum,per tot ducta viros antiquae ab origine gentis.
E ne’ seguenti :
Dant famuli mani bus lymphas Cereremque canistrisexpediunt tonsisque ferunt mantilia villis.Quinquaginta intus famulae, quibus ordine longocura penum struere et flammis adolere penates ;centum aliae totidemque pares aetate ministri,qui dapibus mensas onerent et pocula ponant.
Ma queste descrizioni tanto sono più lodevoli quanto sono più lontane di luogo e più diverse d’apparecchio. Sdegni ancora il nostro poeta tutte le cose basse, tutte le populari, tutte le disoneste, com’è la novella della Fiammetta e quella del dottore ; alle mediocri aggiunga altezza, all’oscure notizia e splendore, alle semplici artificio, alle vere ornamento, alle false autorità ; e se pur alcuna volta riceve i pastori, i caprari, i porcari e l’altre sì fatte persone, deve aver riguardo non solo al decoro della persona, ma a quello del poema, e mostrarli come si mostrano ne’ palazzi reali e nelle solennità e nelle pompe.
[15] Ecco, illustrissimo Signore, le condizioni che giudizioso poeta dee nella materia ricercare, le quali (repilogando in breve giro di parole quanto s’è detto) sono queste : l’autorità dell’istoria, la verità della religione, la licenza del fingere, la qualità de’ tempi accomodati e la grandezza de gli avvenimenti. Ma questa, prima che sia caduta sotto l'artificio dell’epico, materia si chiama ; dopo ch’è stata dal poeta disposta e trattata, e con l’elocuzione è vestita, se ne forma la favola, la qual non è più materia, ma è forma e anima del poema ; e tale è da Aristotele giudicata. Ma il poema non è forma semplice, perché egli è composto di materia e di forma. Ma avendo nel principio di questo discorso assomigliata quella materia, che fu detta nuda, a quella che chiamano i naturali materia prima, giudico che, sì come nella materia prima, benché priva d’ogni forma, nondimeno vi si considera da’ filosofi la quantità, la quale è perpetua ed eterna compagna di lei, e inanzi il nascimento della forma vi si ritrova, e doppo la sua corruzione vi rimane, così anco il poeta debba in questa nostra materia, inanzi ad ogn’altra cosa, la quantità considerare, peroché è necessario che, togliendo egli a trattare alcuna materia, la toglia accompagnata d’alcuna quantità. Avertisca dunque che la quantità ch’egli prende non sia tanta che, volend'egli poi, nel formare la testura della favola, interserirvi molti episodii e adornare e illustrare le cose che semplici sono in sua natura, il poema cresca in tanta grandezza che disconvenevol paia e dismisurato ; peroché non dee il poema eccedere una certa determinata grandezza, come nel suo luogo si tratterà ; che s’egli vorrà pure schivare questa dismisura e questo eccesso, sarà necessitato lasciare le digressioni e gli altri ornamenti che sono necessarii al poema, e quasi rimanersi ne’ puri e semplici termini dell’istoria. Il che a Lucano e a Silio Italico si vede in qualche parte avvenuto, l’uno e l’altro de’ quali troppo ampia e copiosa materia abbracciò : perché quegli non solamente la giornata di Farsaglia, come dinota il titolo, ma tutta la guerra civile fra Cesare e Pompeo, questi tutta la seconda guerra africana prese a trattare. Le quali materie, sendo in se stesse ampissime, erano atte ad occupare tutto quello spazio ch’è conceduto alla grandezza dell’epopeia, non lasciando luogo alcuno all’invenzione e all’ingegno del poeta. E alcune volte, paragonando le medesime cose trattate da Silio poeta e da Livio istorico, molto più asciuttamente e con minor ornamento mi par di vederle nel poeta che nell’istorico, al contrario a punto di quello che la natura delle cose richiederebbe. Di questa riprensione non è affatto sicuro Stazio : benché abbia l’invenzione poetica, nondimeno, cominciando da i primi principii della guerra, disprezza l’ammaestramento d’Orazio e spende molti libri prima ch’abbia condotti i Greci sotto Tebe ; e la venuta di Teseo nel fine, e la battaglia che si fa per dar sepoltura a i morti pare quasi soggetto d’un altro poema. A questa medesima è soggetto il Trissino. Ciascuno in somma, che materia troppo ampia si propone, è costretto d’allungare il poema oltre il convenevol termine (la qual soverchia lunghezza sarebbe forse ne l'Inamorato e nel Furioso, chi questi due libri, distinti di titolo e d’autore, quasi un sol poema considerasse, come in effetto sono), o almeno è sforzato di lasciare gli episodii e gli altri ornamenti, i quali sono necessari al poeta. Meraviglioso fu in questa parte il giudizio d’Omero, il quale, avendo propostasi materia assai breve, quella, accresciuta d’episodii e ricca d’ogn’altra maniera d’ornamento, a lodevole e conveniente grandezza ridusse. Più ampia alquanto la si propose Virgilio, come colui che tanto in un sol poema raccoglie quanto in due poemi d’Omero si contiene ; ma non però di tanta ampiezza la scelse che ’n alcuno di que’ duo vizii sia costretto di cadere. Con tutto ciò se ne va alle volte così ristretto che, se ben quella gravità e brevità sua è meravigliosa e inimitabile, non ha peraventura tanto del poetico quanto la faconda copia d’Omero. E mi ricordo in questo proposito aver udito dire dallo Sperone (uomo eccellentissimo, la cui privata camera, mentre io in Padova studiava, era solito di frequentare non meno spesso e volentieri che le publiche scuole, parendomi che mi rappresentasse la sembianza di quella Academia e di quel Liceo in cui Socrate e Platone aveano in uso di disputare), mi ricordo d’aver udito da lui che ’l nostro poeta latino è più simile al greco oratore ch’al greco poeta, e 'l nostro latino oratore ha maggior conformità col poeta greco che con l’orator greco, ma che l’oratore e ’l poeta greco aveano ciascuno per sé conseguita quella virtù ch’era propria dell’arte sua, ove l’uno e l’altro latino avea più tosto usurpata quell’eccellenza che all’arte altrui era conveniente. E in vero chi vorrà sottilmente essaminare la maniera di ciascun di loro, vedrà che quella copiosa eloquenza di Cicerone è molto conforme con la larga facondia d’Omero, sì come nell’acume e nella pienezza e nel nervo d’una illustre brevità sono molto somiglianti Demostene e Virgilio.
[16] Raccogliendo dunque quanto s’è detto, dee la quantità della materia nuda esser tanta, e non più, che possa dall’artificio del poeta ricever molto accrescimento senza passare i termini della convenevole grandezza. Ma poiché s’è ragionato del giudizio che dee mostrare il poeta intorno alla scelta dello argomento, l’ordine richiede che nel seguente discorso si tratti dell’arte con la quale deve esser disposto e formato.
LIBRO TERZO
[1] Credono molti, illustrissimo Signore, che delle scienze e dell'arti più nobili sia avenuto come de’ popoli e delle provincie e delle terre e de’ mari, molti de’ quali non erano ben conosciuti da gli antichi, ma di nuovo son ritrovati oltre le Colonne d’Ercole verso occidente, o vero di là da gli altari che pose Alessandro nell’oriente ; e rassimigliano costoro gli ammaestramenti dell’arte poetica e della retorica alle mete e a’ segni i quali son posti per termini a’ timidi naviganti. Ma sì come io non biasimo l’ardire guidato dalla ragione, così non lodo l’audacia senza consiglio, parendomi pazzia ch’altri voglia fare arte del caso, virtù del vizio e prudenza della temerità, e tutto concedere alla fortuna, la qual ha minor parte nell’operazioni dell’ingegno che nelle fatiche del corpo ; tutta volta in quelle medesime che si fanno con la parte men nobile, cerchiamo di moderare i fortunosi avenimenti e di restringerli quasi sotto alcuna legge. Laonde molto più debbiamo considerare l’operazioni dell’intelletto, a cui sempre è proposto a guisa di segno un obietto medesimo nel quale ei rimira : e questo è il vero, il quale non si muta giamai né sparisce a gli occhi della mente. Ma l’Orse si celano a coloro ch’avendo passato Abila e Calpe, navigano nell’ampissimo Oceano ; nondimeno altre stelle sono in quello emispero con le quali essi deono reggere il corso (altrimente non avrebbono arte alcuna del navigare), e possono in qualche modo schifare l’incostanza delle maritime cose con la costanza delle celesti. Ma quanto sono più stabili, quanto più vere, quanto più certe le cose intellettuali, alle quali drizziamo l’intelletto ! E se pur tal volta consideriamo le cose verisimili, non possiamo aver altra notizia di loro se non quella che ci dà la cognizione del vero. Però andiamo formando l’idee delle cose artificiali ; nella quale operazione ci pare d'esser quasi divini e d’imitare il primo Artefice. Ma qualunque sia questo nostro artificio, da niuno altro può esser meglio estimato. Legga dunque V. S. illusstrissima quel ch’io discorro con lei quasi in un ragionamento, perché s’egli è gran difficoltà il ritrovare il vero fra le cose verisimili, il giudicarlo non è minor lode, o alla filosofia men conveniente.
[2] Scelta ch’averà il poeta materia per se stessa capace d’ogni perfezione, gli rimane l’altra assai più difficile fatica, che è di darle forma e disposizion poetica ; intorno al quale officio, come intorno a proprio soggetto, quasi tutta la virtù dell’arte si manifesta. Ma però che quello che principalmente constituisce e determina la natura della poesia, e la fa dall’istoria differente, non è il verso, come dice Aristotele (perché facendosi in versi l’istoria d’Erodoto non sarebbe meno istoria), ma è il considerare le cose non come sono state, ma in quella guisa che dovrebbono essere state, avendo riguardo più tosto all’universale che alla verità de’ particolari, prima d’ogn’altra cosa dee il poeta avertire se nella materia, ch’egli prende a trattare, sia avvenimento alcuno il quale, altrimente essendo succeduto, fosse più meraviglioso o verisimile, o per qualsivoglia altra cagione portasse maggior diletto ; e tutti i successi che si fatti troverà, cioè che meglio in un altro modo potessero essere avvenuti, senza rispetto alcuno di vero o d’istoria a sua voglia muti e rimuti, ordini e riordini, e riduca gli accidenti delle cose a quel modo ch’egli giudica migliore, mescolando il vero col finto, ma in guisa che 'l vero sia fondamento della favola, come insegna Aristotele nella Retorica e Alessandro Piccolomini nel suo libro Delle stelle.
[3] Questo essempio ci diede Omero, il quale ci ammaestra con la favola e con l'istoria (come disse Dion Crisostomo, e prima di lui Strabone scrisse) che i poeti interpongono la falsità nelle cose vere e le favole nelle vere contemplazioni, come fa colui che fonde l’oro intorno all’argento. Ebbe opinione il medesimo autore che la licenza de’ poeti abbia queste tre parti : l’istoria, la favola e la disposizione ; e che ’l fine dell’istoria sia la verità, della disposizione l'espressione, della favola il piacere ; ma che ’l fingere tutte le cose non convenga, né paresse ad Omero conveniente. Virgilio ancora negli errori d’Enea e nella guerra fatta fra lui e Latino non scrisse solamente le cose che vere estimò, ma quelle che giudicò migliori e più eccellenti : perché non solo è falso l'amore e la morte di Didone, e favoloso quello che scrive di Polifemo e dello scender d’Enea all’inferno, ma le battaglie fra lui e i popoli del Lazio descrive altrimente di quelle ch’avennero secondo la verità, come si conosce chiaramente paragonando il suo poema con l’istoria di Dionigio Allicarnasseo e d’altri greci e latini c'hanno scritto davanti e dopo lui. Egli in Didone confuse di tanto spazio d’ordine de’ tempi con quella figura che da’ Greci è detta ἀναχρονισμός;, o più tosto con quella licenza che fu prima di Platone e de’ poeti greci, ch’introdussero insieme a ragionare persone vissute in secoli differenti, come nota Ateneo nel Convito de' dinosofisti. Questa licenza fu parimente d’Ovidio nelle sue Trasformazioni, nel fine delle quali Pitagora, italiano filosofo, ammaestra Numa re de’ Romani, quantunque sia più certa opinione che Pitagora nascesse doppo qualche centinaio di anni. La medesima dottrina o ’l medesimo artificio del mescolare il vero co ’l falso o co ’l finto si può raccogliere da Orazio, e da Plutarco nel principio della Vita di Teseo, da Macrobio nel Sogno di Scipione e da Servio sovra Virgilio, e molto prima da’ platonici scrittori e da Platone medesimo e da Senofonte nel suo Ciro ; e quantunque egli non fosse poeta, ma filosofo e istorico, nondimeno, nell’aver risguardo all’universale e all’idea, fu più somigliante a’ poeti ch’agli istorici ; ma di questa mescolanza non fu lodato « Erodoto di greca istoria padre », e ne gli oratori fu biasimata. Laonde Isocrate riprende Policrate dell’errore e della confusione de’ tempi, nella quale, seguendo la favolosa licenza de’ poeti, finge che fussero in un medesimo tempo Ercole e Busiride, avvenga che molto prima nascesse Busiride, sì come colui che fu anteriore a Perseo di anni più di ducento ; e Perseo nacque avanti ad Ercole quattro secoli intieri, talché tra il primo e l’ultimo furono interposte sei età. Con queste autorità e de’ nuovi e de’ vecchi scrittori può esser difeso Virgilio ; ma egli forse cercò occasione di mescolare tra la severità dell’altre materie i piacevoli raggionamenti d’amore, quantunque seguisse la morte di Didone, fiero e infelice avvenimento ; o più tosto volle assignare un’alta ed ereditaria cagione delle inimicizie tra Romani e Cartaginesi, nella quale fu poi imitato da Silio Italico, ch’introduce Annibaie giovanetto, anzi fanciullo, a giurare perpetua inimicizia contra i Romani, così persuaso da Amilcare suo padre. Ma con l’artificiosa narrazione della rovina e dell’incendio di Troia rimosse Virgilio da gli animi quella suspizione che s’ebbe d’Enea : perché egli fu sospetto di tradimento, come dice Servio ; e con le parole dette da Diomede agli ambasciatori de’ Latini l’onorò più che non avea fatto Omero nella sua Iliade ; e v’aggiunse la favola di Polifemo, della Sibilla, e la conversione delle navi in ninfe per accoppiare il maraviglioso col verisimile ; e raccontò diversamente la morte di Turno, non volle far menzione di quella d’Enea, se non accennando ch'egli al fine accrescerebbe il numero de gl’iddii, v’aggiunse quella d’Amata, mutò gli avvenimenti e l’ordine delle battaglie per accrescer la gloria d’Enea e terminar con un fine più perfetto il suo nobilissimo poema. A queste finzioni fu molto favorevole l’antichità de’ tempi.
[4] Ma non dee peraventura la licenza de’ poeti stendersi tanto oltre ch’ardisca di mutar l’ultimo fine dell’imprese ch’egli prende a trattare, o pur narrare al contrario di quello che sono avenuti alcun degli avvenimenti principali e più noti, che già sono ricevuti per veri nella notizia del mondo. Simile audacia mostrarebbe colui che descrivesse Roma vanta e Cartagine vincitrice, o Annibaie vincitore in campo aperto di Fabio Massimo, non con arte tenuto a bada, quantunque si legga ne’ Paralelli di Plutarco che Fabio nella guerra africana fusse mandato da’ Romani con cinquecento soldati contra Annibaie, e che, spronando furiosamente il cavallo, gli cavasse il diadema e poi gli morisse appresso, avendo prima ricevuta una mortalissima ferita. Simile sarebbe stato l’ardire d’Omero, se fosse vero quel che falsamente da alcuni si dice, benché a proposito della loro intenzione :
che’ Greci rotti, e che Troia vittrice,e che Penelopea fu meretrice.
Alle quali parole prestando peraventura credenza il Bolognetto, e’ si propose per fine della favola la liberazione di Valeriano imperatore, il quale se ne morì nella prigione di Sapore, re di Persia ; ma non tanto era felice il suo poema per due nobilissime guerriere celebrate nell’istorie, dico Zenobia e Vittorina (ch’egli chiama Vittoria), quanto infelice per il suo fine ; pur egli volea mutarlo, ma questo era un privare affatto la poesia e l’istoria della sua autorità. Dalla qual ragione mosso, io conclusi che l’argomento dell’epopeia dovea esser fondato sovra qualche istoria o sovra qualche verità. E quantunque Dion Crisostomo, in una orazione che scrive a quelli d’Ilio, si sforza di provare che Troia non fusse presa, non fu peraventura sua intenzione di biasimare Omero, ma di mostrare il modo col quale i poeti dicono le menzogne per ingannare, mutando e rimutando l’ordine delle cose, come a loro pare il meglio. Tanta emulazione era della gloria tra gli scrittori di prosa e ’ poeti ! Ma Tessalo, figliuolo d’Ippocrate, scrisse che le guerre di Troia non furono favolose, e molti istorici fanno testimonianza del medesimo, e fra gli altri « Erodoto di greca istoria padre ». Lasci dunque il nostro epico l’origine e il fine dell’impresa, e alcune cose più illustri e ricevute per fama, nella loro verità o poco o nulla alterata ; muti poi, se così gli pare, i mezzi e le circostanze, confonda i tempi e l’ordine dell’altre cose, e in somma si dimostri più tosto artificioso poeta che verace istorico, ricordandosi spesso di quel detto di Plutarco nel libro Della fortuna de’ Romani, cioè che l’uomo il qual nasconde la bugia nell’antichità de’ tempi, è simile a colui che ricovera da’ luoghi chiari e luminosi negli opachi e tenebrosi. Ma se ne la materia, ch'egli s’avrà proposta, saranno alcuni avvenimenti a punto come dovrebbon essere succeduti, che deve fare il poeta ? Può forse narrarli, sì veramente che poetica sia la narrazione, non spogliandosi della persona del poeta per vestirsi quella dell’istorico ; perché può alle volte avvenire ch’altri come poeta, altri come istorico tratti le medesime cose, ma saranno da loro considerate con diverso rispetto, perché l’istorico le narra come vere, e ’l poeta l’imita come verisimili. E se io non credessi che Lucano fosse poeta, a ciò non mi moverebbe quella ragione che persuade gli altri, cioè ch’egli abbia perduto questo nome per la narrazione delle cose veramente avvenute. Questo solo non basta, per giudizio d’Aristotele, il quale dice: κἂν ἂρα συμβῇ γενόμενα ποιεῖν, ούδὲν ἧττον ποιητής ἐστι etc. etc.; cioè, se ’l poeta s’avverrà ad alcune di quelle cose che sono state veramente, non riman d’esser poeta, perché non si vieta che delle cose fatte alcune sieno com’è verisimile che fossero fatte, o possibile; secondo le quali è poeta. Ma se Lucano non è poeta, ciò aviene perché s’obliga alla verità de' particolari, e non ha tanto risguardo all’universale: come pare a Quintiliano, è più simile all’oratore ch’ai poeta. Oltre a ciò, l’ordine osservato da Lucano non è l’ordine proprio de’ poeti, ma l’ordine dritto e naturale in cui si narran le cose prima avvenute ; e questo è commune all’istorico. Ma nell’ordine artificioso, che perturbato chiama il Castelvetro, alcune delle prime deono esser dette primieramente, altre posposte, altre nel tempo presente deono esser tralasciate e riserbate a miglior occasione, come insegna Orazio. Prima deono esser dette quelle senza le quali non s’avrebbe alcuna cognizione dello stato delle cose presenti ; ma se ne posson tacer molte, le quali scemano l'espettazione e la meraviglia, avenga che il poeta debba tenere sempre l’auditore sospeso e desideroso di legger più oltre. Ma non voglio già ostinatamente affermare che l’ordine artificioso sia nell’uno e nell’altro poema d’Omero; ma se nell’uno è il naturale, nell’altro è l’artificioso senza fallo, perché, secondo l’ordine della natura, le cose prima succedute, o siano parte della favola o non siano, dovrebbono esser prima raccontate. Ma nell’ordine naturale ancora non dee cominciar il poeta da principio troppo remoto e, come dice Orazio, ab ovo. Però in questa parte merita maggior lode e minor riprensione Lucano di Stazio, perché l’uno, volendo cantar delle guerre civili, mette Cesare su ’l passo del Rubicone, dove, giudicato nemico dal senato, fu costretto a far la guerra, l’altro comincia dalle furie e dalle maledizioni d’Edippo, che furono prima e fatal cagione della discordia fra Eteocle e Polinice. Nondimeno Lucano ancora avrebbe fatto meglio s’avesse posto Cesare in Tessaglia e collocatolo a fronte a Pompeo, e l’altre cose prima contenute avesse fatto raccontare. Simile nell’ordine a Stazio e a Lucano è Silio Italico; però prepongo a tutti il Petrarca in quanto alla disposizione della favola e all'ordine ch’egli tenne nell'Africa, lasciando a gli altri il giudizio della lingua e dell’elocuzione ; ma ne gli affetti amorosi ancora è maraviglioso, come ho detto nell’altro libro. Ma seguitiamo in questo a parlar dell’altre cose necessarie.
[5] Poi che avrà il poeta ridutto il vero e i particolari dell’istoria al verisimile e all’universale, che è proprio dell’arte sua, procuri che la favola (favola chiamo la forma del poema che difinir si può testura, o composizione de gli avvenimenti o delle cose), procuri, dico, che la favola ch’indi vuol formare sia intiera, o tutta che vogliam dire, sia di convenevol grandezza, e sia una. E sovra queste tre condizioni distintamente e con quell’ordine che le ho proposte discorrerò.
[6] Tutta o intiera dee esser la favola, perché in lei la perfezione si ricerca ; ma perfetta non può esser quella cosa ch’intiera non sia. La perfezione e l’integrità si trovarà nella favola s’ella avrà il principio, il mezzo e l’ultimo. Principio è quello che necessariamente non è dopo altra cosa, e l'altre cose son dopo lui. Il fine è quello che è dopo l’altre cose, né altra cosa ha dopo sé. Il mezzo è posto fra l’uno e l’altro, ed egli è dopo alcune cose, e alcune n’ha dopo sé. Ma per uscire alquanto dalla brevità delle difinizioni, dico che intiera è quella favola che in se stessa ogni cosa contiene ch’alia sua intelligenza sia necessaria, e le cagioni e l’origine di quella impresa che si prende a trattare vi sono espresse, e per li debiti mezzi si conduce ad un fine il quale niuna cosa lassi o non ben conclusa o non ben risoluta : come veggiam aver fatto Omero nell’Odissea, il quale, prima con le peregrinazioni di Telemaco a Nestore e a Menelao, e poi con le narrazioni d’Ulisse fatte ad Alcinoo, dechiara perfettamente lo stato delle cose e quel che fusse avvenuto dopo che Ulisse partì da Troia ; Virgilio parimente col racconto d’Enea a Didone. E quantunque il poeta rapisca l’auditore nel mezzo delle cose come le fossero note, nondimeno a poco a poco lo va poi informando di quello che prima è succeduto. Ma l’Orlando inamorato e ’l Furioso non sono intieri, e sono difettosi nella cognizione di quel che loro appartiene : manca al Furioso il principio, manca all’Inamorato il fine ; ma nell’uno non fu difetto d’arte, ma colpa di morte, nell’altro non ignoranza, ma elezione di finire ciò che dal primo fu cominciato. Che l'Inamorato sia imperfetto non vi fa mestieri prova alcuna ; che non sia intiero il Furioso è parimente manifesto, però che se noi vorremo che l’azione principale di quel poema sia l’amor di Ruggiero, vi manca il principio, se vorremo che sia la guerra di Carlo e d’Agramante, parimente il principio è desiderato: perché quando o come fosse preso Ruggiero dall’amor di Bradamante non vi si legge, né meno quando o in che modo gli Africani movessero guerra a’ Francesi, se non forse in uno o in due versi accennato; e molte volte i lettori nella cognizione di queste favole andarebbono al buio se dall’Inamorato non togliessero ciò ch’alla lor cognizione è necessario. Ma si dee, come ho detto, considerare l'Orlando innamorato e ’l Furioso non come due libri distinti, ma come un poema solo, cominciato dall’uno e con le medesime fila, benché meglio annodate e meglio colorite, dall’altro poeta condotto al fine ; e in questa maniera riguardandolo, sarà intiero poema, a cui nulla manchi per intelligenza delle sue favole. Questa condizione dell’integrità mancarebbe parimente nell'Iliade d’Omero, se vero fosse ch’avesse preso la guerra troiana per argomento del suo poema ; ma questa opinione è falsa, benché sia da molti antichi approvata, e da Orazio medesimo, il quale chiamò Omero «scrittore della guerra troiana» ; e se Omero istesso è buon testimonio della propria intenzione, non la guerra troiana, ma l’ira d’Achille si canta nell 'Iliade:
Μῆνιν ἄειδε, ζεά, Πηληιάδεω Ἀχιλῆοςοὐλομένην, ἥ μυρίˋ Ἀχαιοῖς ἄλγεʾ ἔζηκε,πολλὰς δʼἰφζιμους ψυχὰς Ἄιδι προΐαψενἡρώων.
E tutto ciò che della guerra troiana si dice, propone di dirlo come dipenda dall’ira d’Achille, e come azione ch’accresca la grandezza della favola e l’ira dell’offeso figliuolo di Peleo ; ma le sue cagioni e l’origini si narrano compiutamente nella venuta di Crisa sacerdote e nella concessione di Criseide e di Briseide, talché la favola con perpetuo filo sino al fine è condotta, cioè sino alla pace fra Achille e Agamennone, cagionata dalla morte di Patroclo. Laonde perfettissima è quella favola, la quale contiene tutto ciò ch’è necessario per la cognizione di se stessa, né le conviene accattare altronde cose estrinseche. Si può peraventura riprendere alcun moderno poema nel quale è necessario ricorrere a quella prosa che dinanzi per sua dichiarazione porta scritta, però che questa tal chiarezza che si ha dagli argomenti e da altri sì fatti aiuti, non è né artificiosa né propria del poeta, ma estrinseca e mendicata.
[7] Ma essendosi trattato a bastanza della prima condizione richiesta alla favola, passiamo alla seconda, cioè alla grandezza, né paia o soverchio o disconvenevole se, essendosi già ragionato della grandezza in quel luogo ove della elezione della materia si tratta, ora se ne parli ove l’artificio della forma si dee considerare : perch’ivi a quella grandezza s’ebbe riguardo che portava seco nel poema la materia nuda, qui a quella grandezza s’avrà considerazione che viene nel poema dall’arte del poeta co ’l mezzo de gli episodii.
[8] Ricercano le forme naturali, come insegna Aristotele ne’ libri Della natura, una determinata grandezza, e sono circonscritte dentro a certi termini del più e del meno, da i quali né con l’eccesso né co ’l difetto è lor concesso d’uscire. Ricercano similmente le forme artificiali una quantità determinata : né potrà la forma della nave introdursi in un grano di miglio, né meno nella grandezza del monte Olimpo; però ch’allora si dice esservi introdutta la forma non in vano che l’operazione propria e naturale di quella tal forma vi s’introduce ; ma non potrà già trovarsi l’operazione della nave, ch’è di solcare il mare e di condurre gli uomini e le merci dall’uno all’altro lido, in quantità ch’ecceda di tanto o di tanto manchi. Tale ancora è forse la natura de’ poemi ; ma non voglio però che si consideri sino a quanta grandezza possa crescer la forma del poema eroico, ma insino a quanta grandezza sia convenevole che s’accresca. Senza alcun dubbio maggior dee essere la favola epica della comica e della tragica, la quale aveva due termini, l’uno artificioso, l’altro privo d’arte : senza artificio era il tempo assegnatole dalla clepsidra, ma prendeva artificiosamente il suo termine dalla mutazione della fortuna felice nell’infelice, o dall’avversa alla prospera ; e questo termine istesso legitimo e naturale è chiamato d’Aristotele, d’Averroè e da gli altri commentatori, esponendo quelle parole : κατ᾿αὐτὴν τὴν φύσιν τοῦ πράγματος ὅρος; quasi l’arte abbia non solamente le sue leggi, ma la sua natura medesima. Ma non so che l’epopeia avesse alcuna misura o termine estrinseco, quantunque io abbia letto in Ateneo e ne gli altri che l'Iliade e l'Odissea soleano essere recitate nella scena. Ma senza fallo dee avere il suo termine naturale e artificioso, il quale nelle favole doppie può esser constituito e quasi fisso ne' duo contrari estremi della mutazione di fortuna ; ma nelle favole simplici non so dove questo termine si possa fermare, se pure non vogliamo che la memoria sia giusta estimatrice della grandezza del poema. Grande senza fallo conviene che sia quel del poema che dee esser bello, perché sì come ne’ corpi piccioli può esser leggiadria, ma beltà e perfezione non mai), così nelle picciole poesie si loda più tosto la grazia e l’acume che la bellezza o la perfezione. È necessaria dunque la grandezza, ma non dee eccedere il convenevole in guisa che si rappresenti Tizio «lo qual disteso nove campi ingombra » ; percioché le cose troppo smoderate danno sospizione di non esser una, come dice Aristotele ne’ Problemi ; ma l’unità nella favola è necessaria, come appresso proveremo. Sia dunque grande a bastanza, ma non soverchiamente. Ma sì come l’occhio è dritto giudice della grandezza del corpo, così il giudicare la quantità de' poemi s'appartiene alla memoria. Grande dunque sarà convenevolmente quella poesia in cui la memoria non si perda né si smarisca, ma, tutta unitamente comprendendola, possa considerare come l’una cosa con l’altra sia congiunta e dall’altra dependente. Ma viziosi senza dubbio sono quei poemi che sono simili a i corpi che non possono esser rimirati in un’occhiata, e in buona parte perduta è l’opera che vi si spende; ne’ quali di poco ha il lettore passato il mezzo che del principio si è dimenticato; però che vi si perde quel diletto che dal poeta, come principale perfezione, dee esser con ogni studio ricercato. Questo è come l’uno avvenimento dopo l’altro necessariamente o verisimilmente succeda, come l’uno con l’altro sia legato e dall'altro inseparabile, e come da una artificiosa testura de’ nodi nasca una intrinseca e verisimile e inespettata soluzione. E per aventura chi l'Innamorato e ’l Furioso come un solo poema considerasse, gli potria parere la sua lunghezza soverchia anzi che no, e non atta ad esser contenuta in una simplice lezione da una mediocre memoria.
[9] Dopo la grandezza siegue l’unità, che fu l’ultima condizione da noi alla favola attribuita. Questa è quella parte, cortesissimo Signor, la quale ha data a i nostri tempi occasione di varie e lunghe contese a coloro «che ’l furor literato in guerra mena». Però che alcuni necessaria l’hanno giudicata, altri all’incontra hanno creduto la moltitudine delle azioni al poema eroico più convenirsi ; et magno iudice se quisque tuetur : facendosi i defenson della unità scudo dell’autorità d'Aristotele, della maestà de gli antichi greci e latini poeti, né mancando loro quelle armi che dalla ragione sono concedute, hanno per avversarii l’uso de’ presenti secoli, il consenso universale delle donne e cavalieri e delle corti, e, sì come pare, l’esperienza ancora, infallibile paragone della verità : veggendosi che l’Ariosto, il quale, lasciando le vestigia de gli antichi scrittori e le regole d’Aristotele, ha molte e diverse azioni nel suo poema abbracciate, è letto e riletto da tutte l’età, da tutti i sessi, noto a tutte le lingue, piace a tutti, tutti il lodano, vive e ringiovenisce sempre nella sua fama, e vola glorioso per le lingue de’ mortali ; ove il Trissino all’incontro, che i poemi d’Omero religiosamente si pensò d’imitare, e d’osservare i precetti d’Aristotele, mentovato da pochi, letto da pochissimi, muto nel teatro del mondo e morto alla luce, sepolto a pena nelle librarie e nello studio d’alcun letterato si ritrova. Né mancano in favor di questa parte, oltre l’esperienza, saldi e gagliardi argomenti, però che alcuni uomini dotti e ingegnosi, o perché così veramente credessero, o pur per mostrar la forza dell'ingegno loro e farsi graziosi al mondo, lusingando a guisa di tiranno (ché tale è veramente) questo consentimento universale, sono andati investigando nove e sottili ragioni, con le quali l’hanno confermato e fatto più forte. Ma come che abbia costoro in somma riverenza per dottrina e per eloquenza, e l’Ariosto per le medesime cagioni e per felicità d’ingegno e di stile, dico nondimeno che non dee esser seguito nella moltitudine dell’azioni, la quale può bene essere scusabile nell’epopeia rivolgendo la colpa a comandamento de’ signori o ad altra ragione sì fatta ; ma la scusa sarà più tosto della fortuna che dell’arte, e fia scompagnata d’ogni lode.
[10] Né per temerità o a caso mi muovo a così dire, ma per molte ragioni, le quali, o vere o verisimili che siano, possono in me confermare questa opinione. Perché se la pittura e l’altre arti imitatrici ricercano che d’uno una sia l’imitazione ; se i filosofi, che vogliono sempre l’esatto e ’l perfetto, fra le principali condizioni richieste ne’ lor libri vi cercano l’unità del soggetto, la qual cosa mancandovi, imperfetto lo stimano ; se nella tragedia e nella comedia è da tutti giudicata necessaria, dee esser necessaria ancora nel poema eroico, non apparendo niuna causa per la qual questa unità, cercata da’ filosofi, seguita da’ pittori e da’ scultori, ritenuta da' comici e da’ tragici, debba esser dall’epico fuggita e disprezzata. E se l’unità porta in sua natura perfezione, e imperfezione la moltitudine, se i pitagorici numerano l’una fra’ beni e l’altra fra’ mali, se questa alla materia s’attribuisce e quella alla forma, perché nella buona favola ancora dell’epopeia non sarà ricercata l’unità ? Oltre a ciò, presupponendo che la favola sia il fine del poeta (come afferma Aristotele, e niuno ha sin qui negato), s’una sarà la favola, uno sarà il fine, se più e diverse saranno le favole, più e diversi saranno i fini; ma quanto meglio opera quel che riguarda ad un sol fine di colui il qual diversi fini si propone, tanto ancora sarà più lodato l’imitatore d’una sola favola e d'una sola azione. Aggiungo che dalla moltitudine nasce l’indeterminazione, e questo progresso potrebbe andare in infinito, senza che le sia dall’arte prefisso o circonscritto termine alcuno. Laonde dice Aristotele ne' Problemi che noi più volentieri sogliamo udire quelle istorie ch’espongono una cosa solamente, dell’altre dalle quali più ne sono raccontate, perché siamo più attenti alle cose e possiam meglio intendere le più note. Ma l’uno è più noto perch’è definito ; all’incontro le cose che son molte participano dell’infinito. Il poeta ch’una favola tratta, finita quella, è giunto al suo fine ; chi più ne tesse, o quattro o sei o dieci ne potrà tessere, né più a questo numero che a quello è obligato. Non potrà aver dunque determinata certezza qual sia quel segno ove convenga fermarsi. Ultimamente, la favola è la forma essenziale del poema ; laonde, se più saranno le favole, l'una delle quali dall’altra non dependa, più saranno conseguentemente i poemi. Essendo dunque questo, che chiamiamo un poema di più azioni, non un poema, ma una moltitudine di poemi insieme congiunta, o quei poemi saranno perfetti, o imperfetti ; se perfetti, bisognerà ch’abbiano la debita grandezza ; e avendola, ne risulterà una mole più grande assai che non sono i volumi de’ legisti ; s’imperfetti, è meglio a far un solo poema perfetto che molti imperfetti. Lascio da parte che se questi poemi son molti e distinti di natura, come si prova per la moltitudine e distinzion delle favole, avranno molto del confuso col mescolare le membra dell’uno con quelle dell’altro. Ma perché io ho detto che il poema di più azioni è una confusione di molti poemi, e prima dissi che l'Orlando innamorato e ’l Furioso erano un sol poema, non si noti contrarietà nella mia opinione, però che qui intendo la voce esattamente secondo il suo proprio e vero significato, e ivi la presi come comunemente s’usa : un sol poema, cioè una sola composizione d’azioni ; come si direbbe, una sola istoria e un sol libro. Da queste ragioni mosso peraventura Aristotele, o d’altre ch’egli vide e a me non sovengono, determinò ch’una fosse la favola del poema. Ma a questa quasi legge della Poetica (la qual fu come buona accettata da Orazio là dove egli disse : «Ciò che si tratta, sia semplice e uno») varii con varie ragioni hanno ripugnato, escludendo da que’ poemi eroici che romanzi si chiamano l’unità della favola, non solo come non necessaria, ma come dannosa eziandio. Ma non voglio referir già tutto ciò ch’intorno a questa materia è detto da loro, perché alcune cose si leggono in alcuni assai leggiere e indegne di risposta. Solo addurrò quelle ragioni che con maggior similitudine di verità confermano questa opinione, le quali in somma a quattro si riducono, e sono queste.
[11] Il romanzo (così chiamano il Furioso e gli altri simili) è specie di poesia diversa dalla epopeia, e non conosciuta da Aristotele ; per questo non è obligata a quelle regole che dà Aristotele della epopeia. E se dice Aristotele che l’unità della favola è necessaria nell’epopeia, non dice però che si convenga a questa poesia di romanzi, non conosciuta da lui. Aggiungono la seconda ragione. Ogni lingua ha dalla natura alcune condizioni proprie e naturali di lei, ch’a gli altri idiomi per niun modo convengono ; il che apparirà manifesto a chi andrà minutamente considerando quante cose nella greca favella hanno grazia ed efficacia meravigliosa, della quale son prive nella latina, e quante ve ne sono, ch’avendo forza e virtù grandissima nella latina, la perdono nella toscana, e riescono fredde e quasi sciocche. Ma fra l’altre condizioni che porta seco la nostra favella italiana, una è questa, cioè la moltitudine delle azioni ; e sì come a’ Greci e Latini disconvenevole sarebbe la moltitudine delle azioni, così a’ Toscani l’unità della favola non si conviene. Oltre a ciò, quelle poesie sono migliori che dall’uso sono più approvate, appo il quale è l’arbitrio e la podestà così sovra la poesia come sovra l’altre cose ; e di ciò fa testimonianza Orazio ove dice :
quem penes arbitrium est et ius et norma loquendi.
Ma questa maniera di poesia che romanzo si chiama, è più approvata dall’uso ; migliore dunque dee esser giudicata. Ultimamente così concludono : quello è più perfetto poema che meglio conseguisce il fine della poesia ; ma molto meglio è conseguito dal romanzo che dalla epopeia, cioè dalla moltitudine che dalla unità delle azioni ; si deve dunque il romanzo all’epopeia preporre. Ma che ’l romanzo meglio conseguisca il fine è così noto che non vi fa quasi mestiero prova alcuna, però che, essendo il fine della poesia il dilettare, maggior diletto ci recano i poemi di più favole che d’una sola, come l’esperienza ci dimostra.
[12] Questi sono i fondamenti sovra i quali si sostiene l’opinione di coloro che la moltitudine delle azioni hanno giudicata ne’ romanzi conveniente : saldi sì, come a lor pare, ma non tanto che dalle machine della ragione non possano esser espugnati (se pur la ragione sta dalla parte contraria, come a me giova di credere); contra i quali la debolezza del mio ingegno non resterò d’adoperare.
[13] Ma vegnamo al primo fondamento, ove si dice : è il romanzo spezie distinta dall’epopeia, non conosciuta d’Aristotele ; per questo non dee cadere sotto quelle regole alle quali egli obliga l’epopeia. Se il romanzo è spezie distinta dall’epopeia, chiara cosa è che per qualche differenza essenziale è distinto, perché le differenze accidentali non possono fare diversità di spezie ; ma non trovandosi fra il romanzo e l’epopeia differenza alcuna specifica, ne segue chiaramente che distinzione alcuna di spezie fra loro non si trovi. Che non si trovi fra loro distinzione alcuna essenziale, a ciascuno agevolmente può esser manifesto. Tre solamente sono le differenze specifiche nella poesia, come nel precedente discorso dicemmo : la diversità delle cose imitate, la diversità d’imitare e la diversità de gl’istromenti co’ quali s’imita. Per queste sole gli epici, i comici, i tragici sono differenti; da queste, se pur vi fosse, nascerebbe la diversità della spezie fra ’l romanzo e l’epopeia. Ma il romanzo imita le medesime azioni, imita col medesimo modo, imita con gli stessi istrumenti ; è dunque della medesima spezie. Imitano il romanzo e l’epopeia le medesime azioni, cioè l’illustri; né solo è fra loro quella convenienza, d’imitar l’illustri in genere, che è fra l’epico e ’l tragico, ma ancora una più particolare e più stretta d’imitare il medesimo illustre: quello, dico, che non è fondato sovra la grandezza de’ fatti orribili e compassionevoli, ma sovra le generose e magnanime azioni degli eroi, e non si determina con le persone di mezzo fra ’l vizio e la virtù, ma elegge le valorose in supremo grado di eccellenza; la qual convenienza d’imitare chiaramente si vede fra’ nostri romanzi e gli epici de’ Latini e de’ Greci. Imita il romanzo e l’epopeia con l’istessa maniera: nell’uno e nell’altro poema vi appare la persona del poeta; vi si narrano le cose, non si rappresentano; né ha per fine la scena e l’azioni degli istrioni, come la tragedia e la comedia. Imitano co’ medesimi istrumenti: l’uno e l’altro usa il verso nudo, al qual non paion necessarii il ritmo e l’armonia, che son ricercati quasi necessariamente da’ versi tragici e da’ comici.
[14] Dalla convenienza, dunque, delle azioni imitate e degli istrumenti e del modo d’imitare si conclude esser la medesima spezie di poesia quella che epica vien detta e quella che romanzo si chiama. Onde poi questo nome di romanzo sia derivato, varie sono l’opinioni, ch’ora non fa mestieri di raccontare ; ma non è inconveniente che sotto la medesima spezie alcuni poemi si trovino diversi per diversità accidentali, i quali con diverso nome siano chiamati; sì come fra le comedie, alcune sono vecchie, altre nuove, altre di mezza età; altre fur dette palliate (le quali furono de’ Greci), altre togate (che furon de’ Romani), e quelle ch’introducevano persone più nobili si dimandorono pretestate ; altre atellane, da Atella, città della Campania ; alcune tabernarie ; alcune altre per l’umiltà dell’argumento fur dette planipedie ; alcune mimi e rintonice. Se dunque il romanzo e l’epopeia sono d’una medesima spezie, agli oblighi delle stesse leggi deono esser ristretti, massimamente parlando di quelle che non solo in ogni poema eroico, ma in ogni poema assolutamente sono necessarie. Tale è l’unità della favola, la quale Aristotele ricerca in ogni spezie di poema, non più nell’eroico che nel tragico o nel comico; onde, se fosse vero ciò che si dice del romanzo, non però ne seguirebbe che l’unità della favola non fosse in lui, secondo il parer d’Aristotele, necessaria. Ma che ciò non sia vero, a bastanza mi pare dimostrato : perché se pur volevano affermare che ’l romanzo è spezie distinta dall’epopeia, conveniva lor dimostrare eh’Aristotele è manco e difettoso nell’assegnare le differenze), come ha creduto alcuno che, dopoi ch’io ebbi scritte alcune di queste cose, commentò la Poetica d’Aristotele, la quale a lui pare un di que’ libri che son detti memoriali, e ciò prova con l’autorità d’Ammonio, forse ingannato della memoria, perché non Ammonio, ma Simplicio sovra i Predicamenti fa menzione de' libri memoriali d'Aristotele; ma perché quelli contenevano varie cose che non erano drizzate ad un fine e ad una intenzione, e nella Poetica tutte sono drizzate ad un medesimo segno, è necessario che quel libro non sia memoriale. E chi ben considera quelle differenze dalle quali par che proceda diversità di spezie fra ’l romanzo e l’epopeia, sono in guisa accidentali che non è più nell’uomo l’esser essercitato nel corso e nella lotta, o saper l’arte dello schermo. Tale è quella che l’argomento del romanzo sia finto, e quello dell’epopeia preso dalla istoria ; che se questa fosse differenza specifica, necessariamente sarebbono diversi di spezie tutti que’ poemi fra’ quali questa differenza si ritrovasse. Diversi dunque di spezie sarebbono il Fior d’Agatone e l’Edippo di Sofocle, e in somma quelle tragedie il cui argumento fosse finto, da quelle che l’avessero dall’istoria; e, secondo la ragione usata da loro, la tragedia d’argomento finto non avrebbe l'obligo di quelle medesime regole che ha la tragedia d’argomento vero. Onde né l’unità della favola sarebbe in lei necessaria, né ’l movere il terrore e la compassione sarebbe il suo fine. Ma questo, senza alcun dubbio, è inconveniente ; inconveniente dunque sarebbe ancora che la finzione o verità dell’argomento fosse differenza specifica.
[15] Del medesimo valore sono l’altre differenze ch’assegnano, e co’ fondamenti dell’istessa ragione si possono confutare. E perché molti hanno creduto che ’l romanzo sia spezie di poesia non conosciuta d’Aristotele, non voglio tacer questo, che spezie di poesia non è oggi in uso, né fu in uso ne gli antichi tempi, né per un lungo volger de’ secoli di novo sorgerà, nella cui cognizione non si debba credere che penetrasse Aristotele con quella medesima sottigliezza d’ingegno con la quale tutte le cose, ch’in questa gran machina Dio e la natura rinchiuse, sotto dieci capi dispose, e con la quale, tanti e sì varii sillogismi ad alcune poche forme riducendo, breve e perfetta arte ne compose. Vide Aristotele che la natura della poesia non era altro che imitare ; vide conseguentemente che la diversità delle sue spezie non poteva in lei altronde derivare che da qualche diversità dell’imitazione, e che questa varietà solo in tre guise potea nascere : o dalle cose, o dal modo, o da gli istromenti. Vide dunque quante potevano essere le differenze essenziali della poesia, e, avendo viste le differenze, vide in conseguenza quante potevano essere le sue spezie; perché, essendo determinate le differenze che costituiscono le spezie, determinate conviene che sian le spezie, e tante solamente quanti sono i modi ne’ quali possono congiungersi le differenze.
[16] Era la seconda ragione ch’ogni lingua ha alcune particolari proprietà, e che la moltitudine delle azioni è propria de’ poemi toscani, come è l’unità de’ latini e de’ greci. Non nego io che ciascuno idioma non abbia alcune forme proprie di lui, però che alcune elocuzioni veggiamo così proprie d’una lingua che ’n altra favella dicevolmente non possono esser trasportate ; però disse Iamblico nel suo trattato De' misteri che ciascuna gente ha alcune cose proprie, le quali non possono esser significate all’altre nazioni, e che le proprietà delle significazioni, interpretate per altra lingua, non conservano l’istessa mente. Avevano i nomi de’ barbari molta efficacia e una concisa brevità, e nella significazione delle cose divine erano a tutti gli altri anteposti, e fu usata gran perseveranza nel conservarli ; ma i Greci furono amatori di cose nuove, e per l’instabilità trasformarono la pura elocuzione. È nondimeno la lingua greca molto atta alla espressione d’ogni minuta cosa ; a questa istessa espressione inetta è la latina, ma molto più capace di grandezza e di maestà ; e la nostra lingua toscana, se bene con egual suono nella descrizione delle guerre non ci riempie gli orecchi, con maggior dolcezza nondimeno ci lusinga nel trattare le passioni amorose. Quello dunque ch’è proprio d’una lingua, o è elocuzione, e ciò nulla importa al nostro proposito, parlando noi d’azioni e non di parole, o pur diremo proprio d’una lingua quelle materie le quali meglio da lei che da altra sono trattate, com’è la guerra della latina e l’amore della toscana. Ma chiara cosa è che, se la toscana favella sarà atta ad esprimere molti accidenti amorosi, sarà parimente atta ad esprimerne uno; e se la lingua latina sarà disposta a trattare un successo di guerra, sarà parimente disposta a trattarne molti; sì ch’io per me non posso conoscere la cagione che l’unità delle azioni sia propria de’ latini poemi e la moltitudine de’ vulgari. Né peraventura cagione alcuna se ne può rendere: perché se costoro a me chiederanno per qual cagione le materie della guerra sono stimate più proprie della latina, e l’amorose della toscana, risponderei che ciò si dice avvenire per le molte consonanti della latina e per la lunghezza del suo essametro, più atte allo strepito delle armi e alla guerra, e per le vocali della toscana e per l’armonia delle rime, più convenevole alla piacevolezza degli affetti amorosi ; ma non però queste materie sono in guisa proprie di questi idiomi che l’arme nella toscana e gli amori nella latina non possano convenevolmente essere cantate da eccellente poeta. Concludendo dunque dico che, se ben è vero ch’ogni lingua abbia le sue proprietà, è detto nondimeno senza ragione alcuna che la moltitudine delle azioni sia propria de’ volgari poemi, e l’unità de’ latini e de’ greci.
[17] Né più malagevole è il rispondere alla terza ragione, la quale era che quelle poesie sono più eccellenti che più sono dall’uso approvate ; onde più eccellente è il romanzo dell’epopeia, essendo più dall’uso approvato. A questa ragione volendo io contradire, conviene che, per maggior intelligenza e chiarezza della verità, derivi da più alto principio il mio ragionamento.
[18] Si ritrovano alcune cose che in sua natura non sono né buone né ree, ma, dependendo dall’uso, buone e ree sono secondo che l’uso le determina. Tale è il vestire, che tanto è lodevole quanto dalla consuetudine viene accettato; tale è forse il parlare, e per ciò fu convenevolmente risposto a colui : «Vivi come vissero gli uomini antichi, e parla come oggidì si ragiona». Quinci avviene che molte parole, che già scelte e pellegrine furono, or, trite dalle bocche degli uomini, comuni, vili e popolaresche sono divenute ; molte all’incontra, che prima come barbare e orride erano schivate, or come vaghe e cittadine si ricevono; molte ne invecchiano, molte ne muoiono, e rinascono e rinasceranno molte altre, come piace all’uso, che con pieno e libero arbitrio le governa; e questa mutazion delle voci fu con la comparazion delle foglie mirabilmente espressa da Orazio :
Ut sylvae foliis pronos mutantur in annos,prima cadunt, ita verborum vetus interit aetas,et iuvenum ritu florent modo nata vigentque.
E soggiunge :
Multa renascentur quae iam cecidere, cadentquequae nunc sunt in honore vocabula, si volet usus,quem penes arbitrium est et ius et norma loquendi.
Per questa ragione concludono i peripatetici, contra quello che alcuni filosofi credettero, che le parole non siano opere dalla natura composte, né più in lor natura significhino una cosa che un’altra (perché se tali fossero, dall’uso non dependerebbono), ma che siano fattura degli uomini, onde, come a lor piace, può or questo or quel concetto esser da esse significato ; e non avendo bruttezza o bellezza alcuna che sia lor propria e naturale, belle e brutte paiono secondo l’uso le giudica ; il quale mutabilissimo essendo, è necessario che mutabili sieno tutte le cose che dependono dalla consuetudine. Tali in somma sono non solo il vestire e ’l parlare, ma tutte quelle che, con un nome comune, si chiamano usanze e foggie. Queste, come il lor nome dimostra, dalla consuetudine al biasimo e alla lode sono determinate. E sotto questa considerazione caggiono molte di quelle opposizioni che si fanno ad Omero intorno al decoro delle persone, come alcuni dicono, mal conosciuto da lui.
[19] Alcune altre cose si ritrovano poi, che tali determinatamente sono in sua natura : cioè o buone o ree sono per se stesse, e non ha l’uso sovra loro imperio o autorità niuna. Di questa sorte è il vizio e la virtù : per se stesso è malvagio il vizio, per se stessa è onesta la virtù, e l’opere virtuose e viziose sono per se stesse e lodevoli e degne di biasimo. E quel che per se stesso è tale, bench’i costumi si variino, sempre nondimeno è sì fatto ; laonde il pascersi di carne umana sempre sarà riputato ferità, benché appresso alcune nazioni fosse in uso; sempre fu e sarà virtù la pudicizia, quantunque le donne spartane fossero riputate men caste; s’una volta meritò lode colui che rifiutò l’oro de’ Sanniti, o colui che «legò sé vivo, e ’l padre morto sciolse», non saran mai biasmati di sì nobile operazione. Di questa sorte sono parimente l’opere della natura ; laonde quel ch’una volta fu eccellente, mal grado della instabilità dell’uso, sarà sempre eccellente. È la natura stabilissima nelle sue operazioni, e procede sempre con un tenore certo e perpetuo (se non quanto per difetto e inconstanza della materia si vede talor variare), perché, guidata da un lume e da una scorta infallibile, riguarda sempre il buono e ’l perfetto ; ed essendo il buono e ’l perfetto sempre il medesimo, conviene che ’l suo modo di operare sia sempre l’istesso. Opera della natura è la bellezza, la qual consistendo in certa proporzion di membra con grandezza convenevole e con vaga soavità di colori, queste condizioni, che belle per se stesse una volta furono, belle sempre saranno, né potrebbe l’uso fare ch’altrimente paressero; sì come all’incontra non può far l’uso sì che belli paiano i capi aguzzi o i gosi fra quelle nazioni ove si veggiano nella maggior parte degli uomini e delle donne. Ma tali in se stesse essendo l’opere della natura, tali in se stesse conviene che siano l’opere di quell’arte che, senza alcun mezzo, della natura è imitatrice. Laonde ragionevolmente da Cicerone nella Topica la natura e l’arte sono annoverate fra le cagioni le quali hanno costanza, perché non sogliono variare i loro effetti, come in quel luogo medesimo dechiara Boezio. E per fermarsi su l’essempio dato, se la proporzion delle membra per se stessa è bella, questa medesima, imitata dal pittore e dallo scultore, per se stessa sarà bella ; e se lodevole è il naturale, lodevole sarà sempre l’artificioso che al naturale s’assomiglia. Quinci avviene che quelle statue di Prassitele o di Fidia che salve dalla malignità de’ tempi ci sono rimaste, cosi belle paiono a i nostri uomini come belle a gli antichi solevano parere ; né il corso di tanti secoli o l’alterazione di tante usanze cosa alcuna ha potuto scemare della loro degnità.
[20] Avendo io in questo modo distinto, facilmente a quella ragione si può rispondere ne la quale si dice che più eccellenti sono quelle poesie che più approva l’uso : perché ogni poesia è composta di parole e di cose. In quanto alle parole ora concedasi (poiché nulla rileva al nostro proposito) che quelle migliori siano che più dall’uso sono commendate, però che in se stesse né belle sono né brutte, ma quali paiono, tali la consuetudine le fa parere ; onde alcune voci che appresso l’imperator Federico e il re Enzo e appo gli altri antichi dicitori furono in prezzo, suonano all’orecchie nostre un non so che di spiacevole. Le cose poi, che dall’usanza dependono, come la maniera dell'armeggiare, i modi dell’aventure, i costumi de’ sacrifìci e de’ conviti, le cerimonie, il decoro e la maestà delle persone, queste, dico, come piace all’usanza che oggi vive e signoreggia il mondo, si possono accomodare. Però disconvenevole sarebbe nella maestà de’ nostri tempi ch’una figliuola di re, insieme con le vergini sue compagne, andasse a lavare i panni al fiume ; e questo in Nausicaa, introdotta da Omero, non era in que’ tempi degno di riprensione. Parimente chi ’n cambio della giostra descrivesse il combatter su i carri, meriterebbe picciola lode ; e molte altre cose simili, che per brevità trapasso. In questa parte non fu lodato il Trissino, ch’imitò in Omero quelle cose ancora che avea rendute men lodevoli la mutazione de’ costumi. Ma quelle che per se stesse sono buone, non hanno riguardo alcuno alla consuetudine, né la tirannide dell’uso sovra loro in parte alcuna si estende. Tale è l’unità della favola, che porta in sua natura bontà e perfezione nel poema, sì come in ogni secolo passato e futuro ha recato e recherà. Tali sono i costumi, non quelli che con nome d’usanze sono chiamati, ma quelli de’ quali formiamo gli abiti, che si possono aggiungere fra le cause costanti, come parve a Boezio, anzi ad Aristotele istesso ; e di loro parla Orazio in que’ versi :
Reddere qui voces iam scit puer et pede certosignat humum, gestit paribus colludere et iramcolligit et ponit temere : mutatur in horas;
e Aristotele lungamente nella Retorica. A questi costumi del fanciullo, del vecchio, del ricco, del possente, del povero, del nobile e dell’ignobile, quel che in un secolo è convenevole, in ogni secolo è convenevole ; che se ciò non fosse, non n’avrebbe parlato Aristotele, però ch’egli di sole quelle cose fa professione di ammaestrarci che sotto l’arte possono cadere ; e l’arte essendo costante e determinata, non può comprendere sotto le sue regole ciò che, dependendo dalla instabilità dell’uso, è mutabile e incerto. Sì come anco non avrebbe ragionato dell’unità della favola, s’egli non avesse giudicata questa condizione essere in ogni secolo necessaria. Ma mentre vogliono alcuni nova arte sovra nuovo uso fondare, la natura dell’arte distruggono, e quella dell’uso mostrano di non conoscere.
[21] Questa è, Signor mio, la distinzione senza la quale non si può rispondere a coloro che dimandassero quali poemi debbono esser più tosto imitati, o quelli degli antichi epici o quelli di moderni romanzatori ; perché in alcune cose a gli antichi, in alcune a' moderni debbiamo assomigliarci. Questa distinzione, mal conosciuta dal vulgo, che suol più rimirare gli accidenti che la sostanza delle cose, è cagione ch’egli, credendo di conoscer poca convenevolezza di costumi e poca leggiadria d’invenzioni in que’ poemi ne’ quali la favola è una, crede che l’unità della favola sia parimente biasimevole. Questa medesima distinzione, mal conosciuta da alcuni dotti, gli indusse a sprezzar la piacevolezza delle aventure e delle cavallerie de’ romanzi, e il decoro de’ costumi moderni, lodando negli antichi, insieme con l’unità della favola, l’altre parti ancora che ci sono men care e non gradite. Questa, ben conosciuta e ben usata, fia cagione che con diletto non meno degli uomini volgari che de gli intelligenti i precetti dell’arte siano osservati, prendendosi dall’un lato, con quella vaghezza d’invenzioni che ci rendono si grati i romanzi, il decoro de’ nostri tempi, dall’altro, con l’unità della favola, la gravità e la verisimilitudine che si vede ne' poemi d’Omero e di Virgilio.
[22] Resta l’ultima ragione, la qual era ch'essendo il fine della poesia il diletto, quelle poesie sono più eccellenti che meglio questo fine conseguiscono ; ma meglio il conseguisce il romanzo che l’epopeia, come l’esperienza dimostra. Concedasi quel che si può negare, cioè che ’l diletto sia il fine della poesia ; concedo parimente quel che l’esperienza ci dimostra, cioè che maggior diletto rechi a’ nostri uomini il Furioso che l’Italia liberata o pur l’Iliade o l’Odissea. Ma nego però quel ch’è principale e che importa tutto nel nostro proposito, cioè che la moltitudine delle azioni sia più atta a dilettare che l’unità, perché il contrario si prova con l’autorità d’Aristotele e con la ragione ch’egli adduce ne’ Problemi; e benché più diletta il Furioso, il quale molte favole contiene, che altro poema toscano o pur i poemi d’Omero, non avviene per rispetto della unità o della moltitudine, ma per due ragioni, le quali nulla rilevano nel nostro proposito. L’una, perché nel Furioso si leggono amori, cavallerie, venture e incanti, e in somma invenzioni più vaghe e più accomodate alle nostre orecchie; l’altra, perché nella convenevolezza delle usanze e nel decoro attribuito alle persone l’Ariosto è più eccellente de molti altri. Queste cagioni sono accidentali alla moltitudine e all’unità della favola, e non in guisa proprie di quella che a questa non siano convenevoli. Laonde non si dee concludere che più diletti la moltitudine che l’unità. Ma per un’altra cagione peraventura si potrebbe provare : perciò che, essendo la nostra umanità composta di nature assai fra loro diverse, è necessario che d’una istessa cosa sempre non si compiaccia, ma con la diversità procuri or all’una or all’altra delle sue parti sodisfare; essendo dunque la varietà dilettevolissima alla nostra natura, potranno dire ch’assai maggior diletto si trovi nella moltitudine che nella unità della favola. Né già io niego che la varietà non rechi piacere, perché il negar ciò sarebbe un contradire alla esperienza e a’ sentimenti, veggendo noi che quelle cose ancora che per se stesse sono spiacevoli, per la varietà nondimeno care ci divengono, e che la vista de’ deserti e l’orrore e la rigidezza delle alpi ci piace doppo l’amenità de’ laghi e de’ giardini. Dico bene che la varietà è lodevole sino a quel termine che non passi in confusione, e per poco l’unità n’è capace sino a questo termine istesso, perché all’unità, che non è la prima, è accidentale, come dice Boezio, la moltitudine; e la diversità, se sì fatta non si vede in poema d’una azione, si dee credere che sia più tosto imperizia degli artefici che difetto dell’arte ; i quali, per iscusare forse la loro insofficienza, questa lor propria colpa attribuiscono all’arteficio.
[23] Non era per aventura così necessaria questa varietà a’ tempi di Virgilio e d’Omero, essendo gli uomini di quel secolo di gusto non così isvogliato ; però non tanto v’attesero ; maggiore nondimeno in Virgilio che in Omero si ritrova. Gratissima era a’ nostri tempi, e perciò devevano i nostri poeti co’ sapori di questa varietà condire i loro poemi, volendo che da questi gusti sì delicati non fossero schivati ; e s’alcuni non tentaro d’introdurlavi, o non conobbero il bisogno, o il disperare come impossibile. Io e soavissima nel poema eroico la stimo, e possibile a conseguire ; peroché, sì come in questo mirabile magisterio di Dio, che mondo si chiama, e ’l cielo si vede sparso o distinto di tanta varietà di stelle, e, discendendo poi giù di regione in regione, l’aria e ’l mare pieni di ucelli e di pesci, e la terra albergatrice di tanti animali così feroci come mansueti, nella quale e ruscelli e fonti e laghi e prati e campagne e selve e monti sogliamo rimirare, e qui frutti e fiori, là ghiacci e nevi, qui abitazioni e culture, là solitudine e orrori ; con tutto ciò uno è il mondo che tante e sì diverse cose nel suo grembo rinchiude, una la forma e l’essenza sua, uno il nodo dal quale sono le sue parti con discorde concordia insieme congiunte e collegate ; e non mancando nulla in lui, nulla però vi è che non serva alla necessità o aH'ornamento ; cosi parimente giudico che da eccellente poeta (il quale non per altro è detto divino se non perché, al supremo Artefice nelle sue operazioni assomigliandosi, della sua divinità viene a partecipare) un poema formar si possa nel quale, quasi in un picciolo mondo, qui si leggano ordinanze di esserciti, qui battaglie terrestri e navali, qui espugnazioni di città, scaramucce e duelli, qui giostre, qui descrizioni di fame e di sete, qui tempeste, qui incendii, qui prodigii ; là si trovino concilii celesti e infernali, là si veggiano sedizioni, là discordie, là errori, là venture, là incanti, là opere di crudeltà, di audacia, di cortesia, di generosità, là avvenimenti d’amore or felici, or infelici, or lieti, or compassionevoli ; ma che nondimeno uno sia il poema che tanta varietà di materie contegna, una la forma e l’anima sua, e che tutte queste cose sieno di maniera composte che l’una l’altra riguardi, l’una all’altra corrisponda, l’una dall’altra o necessariamente o verisimilmente dependa, sì che una sola parte o tolta via o mutata di sito, il tutto si distrugga. E se ciò fosse vero, l’arte del comporre il poema sarebbe simile alla ragion dell’universo, la qual è composta de’ contrarii, come la ragion musica ; perché s’ella non fosse moltiplice, non sarebbe tutta, né sarebbe ragione, come dice Plotino.
[24] Ma questa varietà si fatta tanto sarà più meravigliosa quanto recherà seco più di malagevolezza e quasi d’impossibilità, non potendo le qualità contrarie ritrovarsi insieme, se non eminentemente come nel cielo, o almeno rintuzzate come ne gli elementi. Nel poema dunque nel quale si congiungesse la tragedia con la comedia, il riso non dovrebbe esser riso se non rintuzzato. È certo assai agevol cosa e di niuna industria il far che ’n molte e separate azioni nasca gran varietà di accidenti ; ma che la istessa varietà in una sola azione si trovi, hoc opus, hic labor est. In quella che nasce dalla moltitudine delle favole per se stessa, arte o ingegno alcuno del poeta non si conosce, e può esser a’ dotti e a gl’indotti comune ; questa in tutto dall’artificio del poeta depende, e conseguita da lui solo si riconosce, né può da mediocre ingegno essere conseguita. Quella tanto meno diletterà quanto sarà più confusa e meno intelligibile ; questa, per l'ordine e per la legatura delle sue parti, non solo sarà più chiara e più distinta, ma porterà molto maggior novità e meraviglia. Una dunque dee esser la favola e la forma, come in ogni altro poema cosi in quelli che trattano l’armi e gli amori de gli eroi e de' cavallieri erranti ; i quali con nome comune son chiamati poemi eroici. Ma una si dice la forma in più guise. Una si dice la forma de gli elementi, la quale è semplicissima e di semplice virtù e di semplice operazione; una si dice parimente la forma delle piante e degli animali : questa mista e composta risulta dalle forme degli elementi insieme raccolte e rintuzzate e alterate, della virtù e della qualità di ciascuna di loro participando. E una si dice la lettera e la parola ; e una, per composizione di molte lettere e di molte parole, è detta l’orazione, sì come insegna Aristotele ne’ libri Dell'interpretazione. E nella poesia l’unità si considera in molti modi, e le favole son dette simplici, o doppie o miste in varii significati. Doppie chiama Aristotele alcune favole nelle quali altre persone passano di felicità in miseria, altre di miseria in felicità ; e la composizione di queste egli biasima nella tragedia, come conveniente all’epopeia. In altra significazione simplici sono le favole di quelle tragedie che non hanno agnizione, né mutamento di felice fortuna in misera, o al contrario ; doppie quelle nelle quali con l’agnizione sono gran rivolgimenti di fortuna. Patetiche o affettuose si dicono quelle in cui è la perturbazione, che fu posta per terza parte della favola. E quelle, all'incontra, le quali sono senza questa parte, ma che più manifestano il costume, sono dette morate o costumate.
[25] Ma questo è luogo senza fallo di dechiarar più minutamente quel che sia la peripezia, l’agnizione e la perturbazione, che son le parti della favola. La peripezia è mutazione delle cose, che si fanno, in contrario ; la qual, come dice Aristotele, si fa o verisimilmente o di necessità ; in contrario, intendiamo dalla prospera nell’avversa fortuna, o dall’avversa nella prospera. Questo secondo modo si conviene all’epopeia, alla comedia o ad alcune tragedie le quali da’ moderni impropriamente son dette tragicomedie ; il primo è proprio della tragedia. Ma alcuna volta la mutazione è doppia, perché altri passa da miseria in felicità, altri da felicità in miseria, come si vede in Carlo e Agramante ; e questa doppia mutazione conviene più all’epopeia ch’a gli altri poemi.
[26] L’agnizione è delle cose inanimate o del fatto o delle persone ; delle cose inanimate, come quella d’Edipo il quale riconosce il bosco sacro alle Furie, e di messer Torello che riconosce la chiesa dov’egli fu portato per arte magica ; ma questa il più volte par che abbia per fine l’altra delle persone. L’agnizione del fatto è più propria degli oratori che de’ poeti, de’ quali è propriissima l’agnizione della persona, la quale è una mutazione dell’ignoranza nella notizia, affine d’amicizia o di nemicizia fra coloro che divengono felici o infelici. Per questa cagione bellissima è l’agnizione s’è congiunta con la mutazione della fortuna, com’è nell'Edipo tiranno. Di queste alcuna è semplice agnizione, altra mutua o vicendevole. Semplice agnizione è quella, nell’Odissea, nella quale Ulisse non conosciuto conosce Eumeo, Euriclea, Telemaco, Penelope, da’ quali al fine è riconosciuto. Doppia o scambievole è nell'Ifigenia in Tauris quando ella riconosce Oreste e da lui è riconosciuta ; o quella di Filotete nella tragedia che fece Sofocle di questo nome, in cui egli riconosce Neottolemo e Ulisse essendo prima conosciuto da loro. Una nondimeno può esser l’agnizione, come appare in alcuni degli essempi già detti ; e alcuna volta l’agnizione è non solamente delle persone vive, ma delle morte, come quella d’Edipo che riconosce Iocasta, sua madre, viva, e Laio, suo padre, morto ; o quella di Tieste che riconosce morti i figliuoli. Ma in sei modi si fa l’agnizione. Nel primo, meno di tutti artificioso, si fa per segni : e questi o sono infissi e colorati nella pelle, come la lancia ne’ figliuoli della Terra nati da’ denti seminati da Cadmo e ne’ loro descendenti, e la stella o la spalla d’avorio ne’ figliuoli e nepoti di Pelope, o le lettere nel petto di Splandiano, come si legge nell’Amadigi ; altri sono accidentali, come la cicatrice d'Ulisse nella gamba, per la qual fu riconosciuto nel bagno, o quella che Beltenebroso avea nel volto fatta dalla lancia d’Archeloro, per cui fu raffigurato dalla donzella di Davismara ; altri sono estrinseci, come la spada per la quale Teseo fu riconosciuto da Egeo suo padre, e la scafa in cui furono esposti Romolo e Remo, ch’essendo portata da Faustulo sotto la vesta, fu cagione che Numitore loro avolo si certificasse de’ nepoti ; e questi ancora possono usarsi più o meno artificiosamente. La seconda maniera d’agnizione non è tanto priva d’artificio, perch’è fatta per le cose finte dal poeta : come, appresso Euripide, Oreste è conosciuto da Ifigenia sua sorella da lor lettera, ed egli riconosce lei ad altri indizii. Ma perché questa nasce più tosto dalla volontà del poeta che dalla composizione della favola, agevolmente incorre nel medesimo errore ; e tale nell’Inferno è peraventura l’agnizione di Cianfa (il quale fu nominato e conosciuto per lo suo nome non perché la favola il ricercasse, ma perché il poeta così volle), e il riconoscimento di Geri del Bello. Il terzo modo di riconoscimento si fa ricordandosi d’alcuna cosa per la quale egli si manifesti e sia riconosciuto : come Ulisse, nel racconto che si fa appresso Alcinoo, pianse per la memoria delle cose udite, e dal pianto fu riconosciuto. Il quarto è per sillogismo : nel qual modo Oreste fu riconosciuto da Elettra in una tragedia d’Eschilo, perché ella in questa guisa argumentò : « Niuno ha le vestigia pari alle mie, se non Oreste ; ma queste vestigia sono eguali a quelle de' miei piedi ; dunque Oreste è qui venuto » ; e nell’Ifigenia di Polide il sofista, Oreste sillogizzò ch’a lui si convenisse d’esser sacrificato, perché la sorella ancora fu offerta al sacrificio ; e fu per questo suo sillogismo riconosciuto dalla sorella con questo altro argumentò : « Se questo è fratello di cui fu offerta al sacrifìcio, è mio fratello ». In questa medesima maniera Agricane riconobbe Orlando, quando gli disse :
Se tu sei cristiano, Orlando sei ;
però ch’egli stimava che niun altro cristiano avesse potuto combatter seco del pari. L’altra spezie d’agnizione si fa nel teatro per paralogismo, o per falso sillogismo, il quale si fa delle cose non conosciute, come s’elle fosser conosciute : in questa guisa nel Falso messaggiero colui che non aveva mai veduto l’arco d’Ulisse disse di riconoscer l’arco, e cercò d’acquistar fede alle cose ch'egli narrava della sua morte. Ma ottima agnizione e bellissima oltre tutte l’altre è quella che nasce dalla composizione della favola stessa ed è congiunta col mutamento della fortuna, com’è quella d’Edipo, e quella d’Alvida nel Torrismondo.
[27] La terza parte della favola è la passione, o la perturbazione che vogliamo dirla, la qual consiste nelle morti che si fanno in publico, e nelle ferite e ne’ lamenti e nell’altre cose ch’apportano dolore ; e, come ad alcuni parve, nell’Iliade d’Omero questa è quella parte nella quale sovra il corpo d’Ettore già morto si lamentarono Priamo, Ecuba, Andromache, Elena.
[28] Ma sì come queste parti variamente si compongono co ’l costume, ne risultano varii generi di favola. Sì che quattro sono i generi, o le maniere o le forme che vogliam dir, di favola : il simplice e ’l doppio, l’affettuoso e ’l morale. E sin ora sono accoppiate, come piace ad Aristotele, in due guise : nell’una s’accoppia il simplice e l’affettuoso, nell’altra il doppio e ’l costumato. Simplice e compassionevole è l'Iliade, morata e doppia è l’Odissea. Ma peraventura si possono congiungere in due altre guise : nell’una potrà stare il scempio e ’l costumato, nell’altra il doppio e ’l perturbato. Anzi, se la peripezia o ’l rivolgimento è cagione di perturbazione, non veggio come questa coppia potesse meglio congiungersi insieme ; e s’ella si congiunge nella tragedia, non so perché non si possa congiungere e accoppiare nell’epopeia. Ma in un altro modo ancora s’intende la favola esser doppia o mista : cioè quando ella contenga in sé molti argomenti e quasi molte favole ; la qual mescolanza si può trovare ancora in quelle favole che non hanno mutazione di fortuna congiunta co ’l riconoscimento, come non ha l’Iliade, in cui, benché vi sia gran mutazione, non procede però dall’agnizione. Laonde Aristotele la volle chiamar semplice anzi che no.
[29] Di questa mescolanza si fece accorto Aristotele quando, disputando qual dovesse esser preposto, il poema tragico o l’epico, disse molto più semplici esser le favole della tragedia che quelle dell’epopeia ; e di ciò è segno che da una sola epopeia si posson cavar molte tragedie. Ma questa maniera di composizione è cosi biasimevole nella tragedia com’è lodevole quell'altra che si fa con la peripezia e con l’agnizione ; perché, quantunque la tragedia ami la sùbita e inaspettata mutazione delle cose, le desidera nondimeno simplici e uniformi, e schiva la varietà de gli episodii, i quali fanno grande e bella l’epopeia. Che cosa sia episodio non è deffinito d’Aristotele, ma Suida gli chiama πράγματα ἐξαγώνια, cioè azioni fuor della cosa di cui si tratta, le quali si pigliano d’altra parte e sono estrinsiche. Ma non si loda nelle tragedie, come s’è detto, ch’alcuni passino di felicità in miseria, altri di miseria in felicità, se non per ignoranza del teatro ; perché questo fine lassa più consolati gli uditori là dove questa mutazione sia accompagnata dalla amicizia o almeno dalla giustizia.
[30] Ma questa composizione è più tosto conveniente all’epopeia, purché non sia simile a quella del Pulci, il quale, cominciando dalle feste di Carlo e de’ paladini, finisce nella rotta dolorosa nella quale « Carlo Magno perdé alla santa gesta ». Plotino nondimeno pare che porti contraria opinione, dicendo ch’una è la ragione de la favola tragica, o vero comica : la quale contenga in sé molte battaglie ; ma si dee intendere che ciascuna di loro sia una per sé, non che l’una e l’altra sia l’istessa. Nondimeno io sin ora non ho letta alcuna favola comica simigliante, né tragica, se tragica non si chiama quella d’Omero ; ma si nominiam quella tragedia, altri consideri qual si possa nominar comedia. Debbiam dunque in ciò seguir l'opinion d’Aristotele, che discorda da Plotino nel nome solamente, chiamando con nome specifico epopeia quella che Plotino nominò tragedia. Si potrebbe nondimeno aver qualche considerazione alle Fenisse d'Euripide, nelle quali è raccontata la battaglia seguita fra Tebani e Argivi, quantunque, seguendo l’opinion d’Aristotele, non possiam laudare le favole episodiche, le quali da lui sono biasimate ; anzi, se l’arte è imitazione della natura, non facendo la natura cosa alcuna per episodio, come dice Aristotele nella Metafisica, l’arte ancora non dovrebbe farla ; e certo, se ’l fare episodio è operar oltre il primo proposito, né l’arte né la natura fanno alcuna cosa per episodio, perché l’una e l’altra opera ad un fine determinato. Ma ciò appare chiaramente nell’opere della natura ; in quelle dell’arte non tanto, perché l’arte alcuna volta finge d’operare a caso e impensatamente, e molte volte si spazia in altre cose oltre quelle ch’aveva proposte di narrare. Laonde elle paiono straniere, o avventizie come si dice.
[31] Ma discorriamo con qual arte il poeta introduca nella favola questa varietà così piacevole e così desiderata da coloro c’hanno avezzi gli orecchi a’ poeti moderni. Ma niuna cosa si dee considerare senza l’essempio de’ principi della poesia greca e latina, però che il ricercar nuove strade porta seco maggior riprensione che lode, e si potrebbe incorrere di leggieri in quel vizio manifestatoci da Orazio :
qui variare cupit rem prodigialiter unam,delphinum sylvis appingit, fluctibus aprum.
Dico adunque ch’alcuno potrebbe stimar agevolmente che Omero non cercasse la varietà, come colui il quale a’ nomi stessi dà spesse volte il medesimo aggiunto, chiamando Giove αἰγίοχος, Giunone λεθκώλενος, Minerva γλαυκῶπις, Achille ὠκύς, Ulisse πτολίπορζος, πολυμήχανος ; e oltre a ciò spesso dice le medesime cose con le parole istesse. Dall’altra parte, avendo egli mescolate nel suo poema tutte le lingue usate da’ Greci, si può affermar il contrario. Oltre a ciò da lui furon usati tutti tre gli stili : io dico il grande, il mediocre e l’umile : perché, sì come nota Aulo Gelio, il sublime è attribuito ad Ulisse, il temperato a Nestore, il tenue a Menelao, il quale, essendo spartano, dovea parlare più acutamente de gli altri. E se ciò è vero, il sommo poeta nell’usare tutti gli stili non è dissimile al sommo oratore ; ma l’uno e l’altro può conseguire nel suo genere l’ultima perfezione, quantunque paia che Cicerone, nel libro Del perfetto genere de gli oratori, già dicesse altrimenti. Omero descrisse ancora con diversi modi le morti de’ Greci e de’ Troiani, e fece diverse comparazioni per rassomigliarli e quasi per metterceli davanti a gli occhi ; laonde si può credere ch’egli prima d’ogn’altro insegnasse ad usar la varietà delle cose, non solo quella delle parole, meravigliosa nell’Odissea, perché la sua favola è assai breve, come possiam conoscere da queste parole d’Aristotele : « Essendo andato molt’anni un cavaliero errando per diverse parti del mondo, rimase senza alcuno de’ compagni ; e aveva lasciate le cose della sua casa in modo che le sue ricchezze dall’insolenza de’ drudi eran dissipate, e al suo medesimo figliuolo si tendevano insidie ; egli finalmente pervenne nella sua patria, spinto dalla tempesta del mare, e dandosi a conoscere ad alcuni, e congiungendosi con essi loro, al fine gli oppresse». Nondimeno Omero la variò con molti episodi e con la narrazione di molte cose meravigliose. Né gli bastando che la narrazione de gli errori d’Ulisse, fatta da lui medesimo ad Alcinoo re de’ Feaci, tenesse gli uditori per molti libri occupati e pieni di meraviglia, descrisse prima la peregrinazione di Telemaco, il quale, desideroso di trovare il padre, andò in Pilo a Nestore e in Sparta a Menelao, e da lui udì le favolose trasmutazioni di Proteo, e gli altri suoi errori parimente per l’Africa e per l’Egitto, assai più brevi nondimeno di quelli del padre. Ma d’Ulisse, sì come racconta Strabone, è dubbio s’egli andasse vagando per il mare Meditarraneo o fuori delle Colonne d’Èrcole per l’Oceano. Laonde per la diversità de’ paesi descritti in tre peregrinazioni, e per la moltitudine e novità delle cose vedute, grandissima conviene che sia la varietà ; e par questo poema composto d’errori e de' viaggi di tre persone diverse. Maggior varietà nondimeno si trova nell'Eneide, perché non congiunge gli errori con li errori, come avea fatto Omero, ma gli errori con le battaglie. Dell’uno e dell’altro poema nondimeno è proprio il dirizzar tutte le cose ad un medesimo fine : perciò che, avendosi proposto Omero per oggetto il ritorno d’Ulisse alla patria, e Virgilio la venuta d’Enea in Italia, tutte le cose sono dirizzate a questo segno, perché sono mezzi di questo fine, e agevolezze, per così dire, o impedimenti e disturbi, eccettuatene alcune poche che servono per introduzione della favola. Fra i mezzi numero Minerva e Mercurio, Nausicaa, i Feaci e le cose avenute fra loro e Ulisse, e, dopo, quel ch’egli trattò col porcaro, col capraro e con la nutrice medesima prima ch’egli uccidesse i drudi ; tra gl’impedimenti annovero Calipso, Circe, Scilla, Caribdi, i Lestrigoni, i Lotofagi, i Ciclopi e l’altre cose sì fatte. Parimente in Virgilio chiamo impedimenti Didone, Turno, Mezenzio, Camilla ; e mezzi Aceste, che li diede aiuto per venire in Italia, ed Evandro e Pallante e i Toscani e gli altri che l’aiutarono a vincere, non solo a guerreggiare. Tutta dunque la varietà nel poema nascerà da’ mezzi e da gli impedimenti, i quali possono esser diversi e di molte maniere e quasi di molte nature, e non distruggeranno l’unità della favola, nondimeno, s’uno sarà il principio dal quale i mezzi dependeranno, e uno il fine a cui sono dirizzati ; dopo il quale è soverchio tutto quel che s’aggiunge, come da molti è giudicata l’opera di Quinto Calabro delle cose tralasciate da Omero, e quella di Maffeo Vegio che segue Virgilio : perché l’uno volle finir con la morte di Ettore, l’altro con quella di Turno. Ma gli impedimenti, benché possono dependere da vari principi, ad una cosa riguardano, cioè ad impedire il ritorno d'Ulisse in Itaca, e ’l regno d’Enea in Italia.
[32] A bastanza abbiamo ragionato della diversità, mostrando com’ella possa esser accresciuta con gli episodi, e come gli episodi vi debbano esser introdotti, o secondo il verisimile o secondo il necessario, perché altrimenti la favola sarebbe episodica. Favola episodica Aristotele chiama quella in cui gli episodii non sono congiunti οὔτε κατʼεἰκός, οὔτε κατʼἀνάγκην, cioè né verisimilmente, né per necessità. L’episodio è dunque o verisimile o necessario ; ma non considero il necessario corn’è considerato dal Robertello, il quale vuole che in duo modi sia lecito al poeta di mentire : o nelle cose secondo la natura, o ’n quelle che sono contra natura. Se finge le cose che sono naturali, può servare τὸ εἰκός e ἀνάγκην, se contra natura, c’inganna col paralogismo. Ma io stimo ch’in tutti i modi possa osservare il verisimile o ’l necessario, ma non intendo di quello ch’è necessario simpliciter, ma di quello ch'è necessario di conseguenza, e nelle cose ancora contra natura, come sono i Ciclopi e l’Arpie e gli altri mostri. Per essempio, s’Ulisse e i compagni si salvano dal Ciclope divenuto cieco, è necessario che ’l Ciclope fosse prima accecato; s'Enea intende le cose future da Celeno, è necessario che Celeno possa predirle ; e in altre favole sì fatte la dipendenza e la congiunzione degli episodi può esser necessaria, benché le favole siano impossibili.
[33] Ora si deono dire alcune cose del costume, perché, quantunque la poesia principalmente sia imitazione d’una azione, nondimeno l’azione non può esser fatta se non v’è chi la faccia, e l’agente, per cosi dire, o l’operante convien ch’abbia alcune qualità, cioè ch’egli sia buono o reo, o participi dell’uno e dell’altro. Il poeta dee esprimer i costumi come fanno i buoni pittori, fra’ quali Polignoto imitò i migliori, Pausone i peggiori, e Dionigi i simili. Omero espresse questa diversità de’ costumi meglio di tutti gli altri ; perciò che la poesia fu tirata in diverse parti e quasi distratta secondo i propi costumi de’ poeti : e i più magnifici imitarono l’azioni più belle e de’ più simili a loro, ma i più dimessi quelle de’ più vili, componendo da prima villanie e ingiurie, come gli altri laudi e celebrazioni. Ma Omero, come dice Aristotele, fu nella magnificenza tra gli altri massimamente poeta, e fu ancora il primo che fece vedere l’imitazione della comedia, avendo rappresentata non villania, ma cosa da far ridere ; e quantunque il mover riso e il dir villania non sia il medesimo, nondimeno spesso, dicendo villania, si muove riso, sì come, lodando, si genera meraviglia. Laonde errò senza dubbio il Castelvetro quando egli disse che al poeta eroico non si conveniva il lodare, perciò che se il poeta eroico celebra la virtù eroica, dee inalzarla con le lodi sino al cielo. Però san Basilio dice che l’Iliade d’Omero altro non è che una lode della virtù, e Averroè, sopra il comento della poesia, porta la medesima opinione, e Plutarco nel libro ch’egli scrisse del modo d’intendere i poeti ; nel quale ancora c’insegna ch’al poeta è lecito di biasmare e d’interporre il suo giudizio, il qual prima accusa la malvagità, mostrando in questo mezzo quel che sia utile ; altrimente ci potrebbe nocere con l’essempio delle cose imitate ; e pericolosa molto sarebbe la lezione de’ poeti se ne’ passi dubbii non ci mostrassero il camino della virtù e non ci servissero quasi di guida. Ultimamente, s'all’istorico è lecito a lodare, come parve a Polibio, a Dionisio Alicarnasseo e a molti altri scrittori dell’istorie, molto più dovrebbe esser lecito al poeta. Lasciando dunque i seguaci del Castelvetro nella loro opinione, or noi seguiam quella di Polibio, di Dionisio, di san Basilio, d’Averroè, di Plutarco e d’Aristotele medesimo. Ma si ricerca appresso Aristotele ne’ costumi quattro condizioni : che sian buoni, che sian convenienti, che sian simili e che sian eguali ; perché molte fiate i costumi sono buoni, ma non sono convenienti, come la fortezza alla donna. Essempio di reo costume ci diede peraventura Sulmone, il quale nell’Orbecche è reo senza necessità ; e nel Furioso il dottore che vende la sua onestà al brutto etiopo, e Olimpia che troppo crudelmente taglia la gola all’amante condotto per lei all’insidie. Di non convenevol costume è essempio Rodomonte, che, dopo l’esser stato abbattuto, cede troppo agevolmente alla nemica ; e in un ferocissimo il non stare a’ patti sarebbe stata convenevolezza. Non convenevole ancora nella presa di Napoli è la lunga disputa d'amore tra Belisario e Massenzio mentre ancora erano con l’arme indosso. L’inequalità del costume si conosce per Rodomonte, il qual, dopo la prima rotta ricevuta da Carlo, troppo cortesemente prende commiato da Bradamante, e in Ruggiero, il qual nell’altro poema non si mostrò molto constante in amarla ; e la dissimilitudine in Marfisa, o in Patino e ne gli altri Romani, i quali sono formati assai dissimiglianti da quel che sono o furono i cavalieri romani. Ma i costumi si manifestano con le parole, nelle quali appaia buona o malvagia elezione, e con l’operazioni, e alcuna volta sogliono esser manifesti con gli atti e con sembianti ; però Dante disse:
se vo’ credere a i sembianti etc.,
e nell'Inferno, volendo dipingere un ladro scelerato, disse :
le mani alzò con ambedue le fiche,dicendo : «Togli, Dio, ch’a te le squadro!»
e altrove :
e di trista vergogna si dipinse ;
e nel Purgatorio ci descrive la magnanimità di Sordello in que’ versi :
Ella non ne diceva alcuna cosa,ma lasciavan’ andar, solo guardandoa guisa di leon quando si posa;
e nel Purgatorio ci pone avanti gli occhi la leggiadria e l’onestà di Matelda :
Come si volge con le piante strettea terra ed intra sé donna che balli,che piede inanzi piede a pena mette,volsesi in su’ vermigli ed in su’ giallifioretti verso me non altrimentiche vergine che gli occhi onesti avalli.
Ma il costume de’ forti nel gravissimo dolore delle ferite è da’ poeti espresso nelle tragedie greche e latine. E perch’il dolore è cosa aspra, amara, difficile a tolerarsi e inimica della natura, si concede, per opinione di Marco Tullio nelle Questioni tusculane, a Filotete il gemere, sì come a colui che prima avea veduto Ercole nel monte Età per la grandezza del dolore stridere e lamentarsi : ltaque exclamabat auxilium expetens, mori cupiens:
« Heu ! qui salsis fluctibus mandetme ex sublimi vertice saxi ?Iam iam absumor ; conficit animamvis vulneris, ulceris aestus ».
Ma veggiamo Ercole medesimo, il quale allora fu vinto e quasi dirotto dal dolore quando con la morte cercava l’immortalità, come si lamenti e con quai voci appresso Sofocle nelle Trachine:
O multa dictu gravia, perpessu aspera,quae corpore exanclato atque animo pertuli!Nec mihi Iunonis terror implacabilis,nec tantum invexit tristis Eurystheus mali,quantum una vecors Oenei partu edita.Haec me irretivit veste furiali inscium,quae lateri inhaerens morsu lacerat viscera,urgensque graviter pulmonum haurit spiritus ;iam decolorem sanguinem omnem exorbuit.Sic corpus clade horribili absumptum extabuit..............................................Perge, aude, nate, illachryma patris pestibus,miserere ! Gentes nostras flebunt miserias.Heu ! virginalem me ore ploratimi edere,quem vidit nemo ulli ingemiscentem malo !Sic foeminata virtus afflicta occidit.Accede, nate, assiste, miserandum aspiceevisceratum corpus lacerati patris.
Non altrimenti si duole Prometeo affisso al monte Caucaso nella tragedia d’Eschilo, con molte parole oltre queste :
Luctifica clades nostro infixa est corpori,ex quo liquatae solis ardore exciduntguttae, quae saxa assidue instillant Caucasi.
Ma con maggior gravità è descritto Enea da Virgilio, e con maggior fortezza d’animo, inentr’è medicato della ferita della gamba. I versi del medesimo son questi :
Saevit et infracta luctatur arundine telumeripere auxilioque viam, quae proxima, poscit:ense seccnt lato vulnus telique latebramrescindant penitus seseque in bella remittant.
E poco appresso :
Stabat acerba fremens, ingentem nixus in hastamAeneas, magno iuvenum et maerentis Iuliconcursu, lachrymisque immobilis.
Somigliante è il costume d’Euripilo medicato da Patroclo nell’Iliade, come il medesimo Cicerone insegna ne’ medesimi libri delle Tusculane. In somma, sì come nelle pitture non basta il disegno s’insieme non si veggiano i costumi, così nel poema non è bastevole la favola senza l’espressione di quest'altra parte. E possiamo paragonare le poesie c’hanno il costume alle pitture di Polignoto ; ma quelle che ne sono prive all’imagini depinte da Zeusi, sì veramente che la favola fusse eccellentissima e senza costumi.
[34] La terza parte di qualità è la sentenza. Ma ne’ costumi si dimostran più tosto gli abiti morali, nella sentenza quelli dell’intelletto e la prudenza particolarmente, la quale è una delle virtù intellettuali. Sentenzia chiamo in questo luogo quella che da Aristotele nella Poetica è detta διάνοια, di cui son parti il dimostrar, il solvere, il mover gli affetti (come sono la misericordia, l’ira, il timore), raggrandire e il diminuire, o il farci conoscer la grandezza e la picciolezza delle cose. Laonde in questa sola parte della poesia si contengono quasi tutte le cose di cui si tratta nella retorica, tanto la poesia, o l’arte poetica, è più ampia della retorica. Ma a questa parte si conviene di far ciò con la forza del parlare, il quale è indizio di questa potenza dell’animo ; perché ’l far queste medesime operazioni con le cose istesse è più tosto officio della favola. E quantunque questa parte, che da’ Greci è detta διάνοια, non sia quella che nel secondo della Retorica d’Aristotele è chiamata γνώμη, nondimeno l’uso della γνώμη (che nella nostra lingua si dice similmente « sentenzia ») s’appartiene a questa parte che si disse διάνοια: perch’essendo officio della διάνοια (che noi possiam chiamar con altro nome « discorso ») il provare e il dimostrare e ’l solvere e ’l confutare, facendo tai cose usa la γνώμη, cioè la sentenza. Questa è definita d'Aristotele, nel secondo della Retorica, una enunziazione o vero un parlare delle cose universali, non però di tutte, ma di quelle solamente ch’appartengono all’azione, e deono essere elette o rifiutate ; e suole alcuna volta esser principio dell’entimema, alcuna conclusione, alcuna tutto l’entimema. Laonde è tale verso l’entimema quale la definizione per rispetto del sillogismo, perché l’uno serve all’azione, l’altro alla speculazione, come insegna Egidio interpretando questo luogo della Retorica. Ma della sentenzia Aristotele pone quattro spezie; due non hanno bisogno di prova, due l’hanno: quelle che non l’hanno, o sono di cose prima sapute e conosciute, com’è quella :
in giovenil fallire è men vergogna ;
o quell’altra :
che tal morì già tristo e sconsolato,cui poco inanzi era il morir beato;
o di cose che subito s’intendono e sono credute, come questa del medesimo autore :
Gran giustizia a gli amanti è grave offesa ;
e quest’altra :
un bel morir tutta la vita onora.
De l’altre due spezie, una è questa :
Niun maggiore doloreche ’l ricordarsi del tempo felice nella miseria ;e ciò sa ’l tuo dottore,
perché l’autorità è in vece di prova, o con la prova espressa ;
Sempre a quel ver c’ha faccia di menzognadee Tuona chiuder le labbia quanto ei potè,peroché senza colpa fa vergogna ;
e questa è uno entimema intero. L’altra spezie è d'una parte ; ma, come la διὰνοια, così la γνώμη, provando e confutando, con meraviglioso movimento d’affetti da Virgilio ci è mostrata meglio d’alcun altro nell’orazione di Drance e di Turno. Prova Drance che non si debba continuar la guerra con la sentenza :
Quid miseros toties in aperta pericula civesproicis, o Latio caput horum et causa malorum?Nulla salus bello ; pacem te poscimus omnes etc.
Riprova Turno con un’altra sentenza opposta a quella Nulla salus bello:
cur indecores in limine primodeficimus ? cur ante tubam trernor occupat artus ?Multa dies variusque labor mutabilis aevirettulit in melius, multosque alterna revisenslusit et in solido rursus Fortuna locavit.
[35] Ma perché nel poema eroico si dee aver riguardo non solo al buono, ma all'ottimo, conviene aver riguardo a tutte queste cose unitamente, perché da tutte insieme risulta il decoro ; né già estimo che ’l decoro sia uno inganno intorno al bello, come dimostrò di creder Socrate per pigliarsi giuoco d’Ippia il vecchiarello ; ma o quello ch’è secondo la dignità, come piace a Plotino, o l'onesto, come vuole Aristotele, o quella dignità ch’accompagna l’onestà, per congiungere insieme l’una e l’altra opinione, avegna che il decoro non si può separar dall’onesto, come disse Marco Tullio negli Offici; e se tra loro è alcuna differenza, si può intender più tosto che spiegare. Ma ’l decoro è confuso con la virtù, com’è la bellezza con la sanità, e sol si distingue con la mente. Questo decoro è doppio : perché l’uno è generale, il quale risplende in ogni azione onesta ; l’altro a questo soggetto, il qual si conosce nelle parti dell’onestà ; e ciò conosciamo esser vero considerando quel decoro c’hanno osservato i poeti, i quali allora sono più lodati ch’osservano quel ch’è conveniente. Laonde nella persona d’Atreo, che fu crudel tiranno, volentieri sentiamo :
oderint dum metuant.
Ma queste istesse parole ci spiacerebbono nella bocca di Eaco e di Minòs, che furono riputati giusti. Questo riguardo ebbe ancora Omero, s’io non m’inganno, perciò ch’egli attribuì a molte persone virtù singulari ; laonde per conseguente ebbe in maggior considerazione il decoro particolare. Laonde ad Ulisse assegna l’industria, a Diomede la confidenza, a Teucro l’arte del saettare, a Mnesteo quella d’ordinare le squadre, a Nestore il buon conseglio, ad Aiace la fortezza, o più tosto parte della fortezza, cioè quella che propriamente è sofferenza o toleranza ; e alcuna volta l’assomiglia all’asino, il quale non lascia i pascoli per battitura o per percossa de’ fanciulli, parendoli ch’in niun altro modo potesse meglio dimostrarci la picciola stima ch’egli faceva dell’armi de’ Troiani ; gli dà ancora uno scudo coperto sette volte d’un cuoio di bue, col quale si difende in guisa ch’egli non è mai ferito ; né minor fortezza dimostra nell’animo che nel corpo mentre egli difende le navi da Ettore vittorioso e da gli altri Troiani che volevano accenderle. L’altra parte della fortezza, la quale consiste nell’assalire e nel portar guerra, è propria d’Achille, nella cui persona non si possono schivar l’opposizioni d’avarizia e di crudeltà fattele da Platone ne’ Dialogi del giusto ; dal qual forse imparò Pirro, re de gli Epiroti, suo pronepote, ad esser magnanimo, o da altro più antico. Laonde egli disse quella magnanima sentenza che si legge appresso Ennio :
Nec mihi aurum posco, nec mi precium dederitis,nec cauponantes bellum, sed belligerantes,ferro, non auro, vitam cernamus utrique.Vosne velit an me regnare hera, quidve ferat Fors,virtute experiamur ; et hoc simul accipe dictum :quorum virtuti belli Fortuna peperciteorundem me libertati parcere certum est.Dono ducite doque volentibus cum magnis diis.
Ma Virgilio, se non m’inganno, vide meglio il decoro generale, perché formò in Enea la pietà, la religione, la continenza, la fortezza, la magnanimità, la giustizia e ciascun’altra virtù di cavaliero ; e in questo particolare il fece maggiore del fero Achille, il quale vendè al padre supplichevole il corpo d’Ettore, là dove Enea donò quel di Lauso, e altrove, a chi gli prometteva molti talenti d’oro e argento, disse :
Argenti et auri memoras quae multa talenta,gnatis parce tuis.
àia nella sepoltura de’ morti disse a gli ambasciatori di Latino quelle veramente pietose parole :
Pacem me exanimis et Martis sorte peremptisoratis ? equidem et vi vis concedere vellem.
Simile o maggiore pietà ne la sepoltura de' morti fu dimostrata da Antigone appresso Sofocle, ne la tragedia di questo nome : percioché, avendo Creonte, tiranno di Tebe, proibito a ciascuno che non seppellisse il corpo di Polinice giudicato nimico della patria, Antigone la sorella contra l’editto del tiranno ebbe ardimento di seppelirlo ; ed essendone da lui medesimo addomandata, rispose quelle veramente magnanime parole che si leggono ne l’istesso autore, le quali io addurrò come in latino furono trasportate :
Non summus mihi haec imperat Iuppiter,nec Iustitia, deos quae habitat apud inferos,inter homines qui iura sanxerant pia ;nec iussa tanti ponderis tua extimo,mortalis ut perennia deorum queastemerare iura insculpta mentibus hominum.Non haec heri aut nuper sunt edita :vixere semper ; quoque tempore cocperintscit nemo. Non haec debui ego, hominis ulliusperculsa sceptro, aut arrogantiam timens,violare, postmodum diis poenas gravispensura. Moritura sum : id haud me fugerat.Quid ni ? etiam id, etsi publico praeconionon imperasses, si ante tempus oppetam,id in lucro positura sum. Nam, plurimisquicumque vivit involutus miseriis,veluti ego, qui si non occidat, lucrum ferat ?Sic quoque mihi hoc fato mori nihil dolet.At si ex eodem utero fratremsic insepultum relinquissem, doloriustus foret.
Appresso Stazio ancora la medesima Antigone dimostra la pietà e la magnanimità, costumi veramente di donna eroica, percioch’ella ne l’orror d’una spaventosa notte se n’uscì da la città per sepellire il corpo del fratello, il quale andò ricercando in una campagna piena di corpi morti, e quivi s’avenne in Evadne, moglie di Capaneo, la qual era condotta da l’istessa pietà a seppellire il marito : avenimento senza dubbio maraviglioso e degno del gentile artificio del poeta e de le pietose lagrime del lettore. Si legge ancora ne l’istesso poema de la Tebaide che Teseo, re d’Atene, mosse guerra a’ Tebani, i quali con insolita crudeltà negavano la sepoltura a’ corpi de gli Argivi uccisi ne l’assalto di Tebe : tanta in quegli antichissimi secoli fu la pietà e la relligione del sepellire i morti. E di ciò ancora si fa menzione ne l'Orazioni d’Isocrate. Laonde per questa ragione ancora e per questo essempio pare Achille degno di maggior biasimo, non avendo avuto risguardo a l’antichissimo costume e a l’umanità de’ popoli de la Grecia.
[36] Alcuni nondimeno fra' moderni hanno voluto biasimar Enea di pari crudeltà, perch’egli negò la vita a Turno supplichevole ; e incolpano Turno di pusilannimità, in quel istesso modo ch’Ettorre di soverchio timore e Achille di soverchia ferità è biasimato. Ma peraventura non con le ragion pari : perché molte difese sono propie di Virgilio le quali non si possono far comuni ad Omero, bench’a monsignor di Caserta o al Possevino, suo discepolo, o a lo Sperone paresse altrimenti ; i quali, essendo per altro di contraria opinione, in biasimar Virgilio, principe de' poeti latini, si mostrano assai concordi. A me nel rispondere sovvengono molte ragioni, de le quali alcune tacerò. E taccio prima di ciascun’altra la ragione di stato, per la quale Enea non si poteva assicurar de le cose d’Italia vivendo Turno turbator de la pace e de la quiete publica. Ma questa medesima ragione non poteva muover Achille, il quale non aveva alcuna pretensione nel regno di Troia, né per cupidità di signoreggiare alcuna necessità d’uccidere il nemico, difensore de la patria, non oppressore de l’altrui signoria, com’era Turno, a cui Latino, suocero d’Enea, era costretto di cedere il governo del regno. L’obligo de la vendetta ne l’uno e ne l’altro era eguale : obligo non picciolo, se la vendetta è giusta e orrevole fra i principi e i cavalieri, come estima il Bernardo e il Possevino. Ma in Enea a l’obligo comune de la vendetta s’aggiunge quel de la sua propia parola, perch’egli, rimandando il corpo di Pallante ad Evandro, si duole di non aver sodisfatto a le sue promesse, come si legge in que’ versi de l’undecimo de l’Eneida :
Non haec Euaudro de te promissa parentidiscedens dederam ;
e poco appresso :
Haec mea magna fìdes ?
Ma, non avendo potuto rimandarlo salvo al padre, non poteva mancar al desiderio paterno de la vendetta dimandata da Evandro con efficacissime parole, o negare questa consolazione a l’animo esacerbato de l’infelice vecchio, come si manifesta espressamente in quegli altri versi con le parole dette da Evandro a’ Troiani :
Vadite et haec memores regi mandata referte :quod vitam moror invisam Pallante perempto,dextera causa tua est,, Turnum gnatoque patriquequam debere vides. Meritis vacat hic tibi solusfortunaeque locus.
Ma da Menezio, padre di Patroclo, non era dimandata la vendetta in questa guisa, percioch’egli, troppo più lontano da gli avisi, non sapeva ancora cosa alcuna de la morte del figliuolo. Era dunque per questa cagione maggior l’obligo d’Enea, e per giudicio d’Evandro non gli rimaneva altro luogo da meritare. La relligione ancora il costringeva, non potendo egli placare in altra maniera l’ombra di Pallante, come si raccoglie da questi versi del decimo :
quatuor hic iuvenes, totidem, quos educat Ufens,viventeis rapit, inferias quos immolet umbriscaptivoque rogi perfundat sanguine flammas...........................................Hoc patris Anchisae manes, hoc sentit Iulus.
E che da l’ombre de’ morti fosse ricercata la vendetta e ’l sacrificio d’umana vittima, si conferma co ’l testimonio d’Euripide ne l'Ecuba, ne la qual è scritto che l'ombra d’Achille dimandava d’esser placata co ’l sangue di Polissena, come si raccoglie da que’ versi :
Namque e sepulchro visus Aeacides suo,Argivum Achilles tenuit omnem exercitum,remum ad penates dirigentem ponticum.Meam is sororem postulat Polixenam.
Ma questa difesa è peraventura comune a l’uno e a l’altro principe de l’eroica poesia, ma sino a la morte solamente ; perch’oltre la morte non si dee stender l’ira degli eroi, né deono a guisa di cani rabbiosi incrudelir ne’ corpi morti, almeno poich’a l’ira è conceduto giusto spazio d’intepidire. Ma si potrebbe dire a l'incontra che ’l sacrificio d’umana vittima è cosa empia e crudele, benché fosse non solamente ricevuta da’ barbari e da’ Greci, ma da’ Romani istessi, i quali, come scrive Livio, ne’ grandissimi pericoli solevano sacrificare Gallum et Gallam, o Graecum et Graecam ; tutta volta fu popolo riputato religiosissimo e giustissimo e amico de la pietà e de la clemenza. Ma falsa fu quella religione, e però, come dice Lucrezio, epicureo filosofo :
Tantum relligio potuit suadere malorum.
Ma questa non è colpa né accusa de l’arte poetica, ma de la relligione ; laonde, se pur è difetto ne’ poeti, par difetto non per sé, ma per accidens. Concedasi dunque a Virgilio, nato in quella religione de’ gentili, che possa, come buon parole, dir quelle terribili parole in persona d’Enea, quand’egli diede la morte a Turno impaurito da le Furie :
Ille, oculis postquam saevi monimenta dolorisexuviasque hausit, furiis accensus et iraterribilis : « Tune hinc spoliis indute meorumeripiare mihi ? Pallas te hoc vulnere, Pallasimmolat et poenam scelerato ex sanguine sumit».
Giusta fu dunque la vendetta e lecita al cavaliero gentile (il quale non può esser riputato crudele da' gentili, o in comparazione degli altri), e molto più convenevole che la vendetta fatta d’Achille : peroché l’uno, come abbiam detto, uccise il difensor de la patria, che non aveva alcuna colpa nel periurio e nel violar de’ patti ; ma l’altro tolse la vita al rompitor de’ patti e al perturbator de la pace. Però con alcuna ragione dal nemico Enea son dette quelle parole sovra l’infelice giovene :
poenasque scelerato ex sanguine sumit.
Non sono ancora pari le ragioni nel timor d’Ettorre e di Turno : perché Turno è descritto audace e temerario giovene, Ettorre prudente anzi che no ; e oltre a questo, Turno è spaventato da le Furie, laonde il suo timore pare in lui non difetto di natura, ma violenza del Fato, maggiore ch’in Ettorre. Era ancora assai conveniente che ’l giovene inamorato si descrivesse temerario ; ma ’l tiranno, come Mezenzio, è descritto intrepido ne la sua morte per le cagioni scritte da me altre volte ; le quali io pensava di confermare con molte altre, ma bastino queste in questo proposito. Possiamo dunque concludere che Virgilio nel formare il cavaliere s'avvicinò più al segno che non fece Omero.
[37] E dovendo noi considerare l'idea, e per lei approvar la definizione della poesia, debbiamo aver riguardo all’azione e al come e a tutte l’altre cose insieme. Ma se crediamo a Massimo Tirio, non mancò questa perfezione ad Omero, perch’egli ci finge in Nestore l'imagine della virtù perfetta ; ma vi manca pera ventura la perfezione dell'età, la quale non era più atta alla milizia o ad altra azione, ma solamente al consiglio : perch’un perfetto eroe non si dee peraventura descriver nella decrepità, avegna che ’l perfetto costume sia costume d’età perfetta. Dunque tra le qualità de’ costumi già ricercate debbiam particolarmente considerare quel che si convenga a ciascuna età : perché il vecchio è tardo nell’operazioni, prudente nelle deliberazioni, e maturo ne’ consegli, e timido anzi che no di tutte le cose che possono avenire, com’è descritto in quelle parole :
O praestans animi iuvenis, quantum ipse ferocivirtute exuperas, tanto me impensius aequum estconsulere atque omnes rnetuentem expendere casus ;
e in quell’altre :
Si Turno extincto socios sum accire paratus,cur non incolumi potius certamina tollo ?Quid consanguinei Rutuli, quid caetera dicetItalia, ad mortem si te (Fors dieta refutet!)prodiderim, natam et connubia nostra petentem ?Respice res bello varias ; miserere parentislongaevi etc.
Il medesimo è lodator delle cose passate e di se stesso, come ci dimostra Virgilio in Entello, dicendo :
Si mihi, quae quondam fuerat quaque improbus isteexultat fidens, si mine foret illa iuventus,haud equidem pretio inductus pulchroque iuvencovenissem.................................................Quid si quis caestus et ipsius Herculis armavidisset tristemque hoc ipso in littore pugnam?
E in Evandro che desidera di ringiovenire, come si legge :
O mihi praeteritos referat si Iuppiter annos,qualis eram, cum primam aciem Praeneste sub ipsastravi scutorumque incendi victor acervos,et regem hac Herilum dextra sub Tartara misi.
Ma del costume del giovine si vede espressa l’imagine in Turno :
Talibus exarsit dictis violentia Turni ;dat gemitum rumpitque has imo pectore voces :« Larga quidem semper, Drances, tibi copia fanditunc cum bella manus poscunt, patribusque vocatisprimus ades. Sed non replenda est curia verbis etc.
E ne’ pericoli della guerra mostrò insieme quasi depinti i costumi de’ vecchi, de’ gioveni e delle donne :
Arma manu trepidi poscunt, fremit arma iuventus,flent moesti mussantque patres. Hic undique clamordissensi! magnus vario se tollit in auras.
Ma del giovane innamorato si vede colorata l’effigie in quegli altri versi :
Illum turbat amor figitque in virgine vultus :ardet in arma magis paucisque affatur Amatam :«Ne, quaeso, ne me lachrymis,
e quel che segue. È figurato il costume del fanciullo generoso in Ascanio :
At puer Ascanius mediis in vallibus acrigaudet equo, iamque hos cursu, iam praeterit illosspumantemque dari pecora inter inertia votisoptat aprum aut fulvum descendere monte leonem ;
e in quell’altri versi :
vidisti quo Turnus equo, quibus ibat in armisaureus ? ipsum illum, clipeum cristasque rubentesexcipiam votis, iam nunc tua praemia, Nise.
Anzi è descritto il buon costume di molti fanciulli e di molti giovani in que’ versi :
Ante urbem pueri et primaevo flore iuventusexercentur equis domitantque in pulvere currusaut acres tendunt arcus aut lenta lacertisspicula contorquent cursuque ictuque lacessunt.
Non solo si deve aver riguardo a quel che convenga all’età, ma a quel che convenga alla natura, alla fortuna, alla nazione, all’officio, alla dignità. Ecco la natura come si scopre nel costume de’ padri :
Aeneas (neque enim patrius consistere mentempassus amor) rapidum ad navem praemittit Acatem,Ascanio ferat haec ipsumque ad moenia ducat ;
e altrove :
omnis in Ascanio chari stat cura parentis.
Ma la pietà del figliuolo appare in quegli altri versi :
Perculsa mente dederuntDardanidae lachrymas, ante omnes pulcer Iulus,atque animum patriae strinxit pietatis imago.
Si riconosce la magnanimità d’un povero re in que’ versi :
«Aude hospes contemnere opes et te quoque dignumfinge deo rebusque veni non asper egenis ».Dixit et angusti subter fastigia tectiingentem Aeneam duxit ;
e la ricchezza d'un re in quegli altri :
nuntius ingentes ignota in veste reportatadvenisse viros. Ille intra tecta vocariimperat et solio medius consedit avito.Tectum augustum ingens, centum sublime columnis,urbe fuit summa, Laurentis regia Pici,
e quel che segue. Il costume della gente s’esprime in questo modo :
Mos erat Hesperio in Latio, quem protinus urbesAlbanae coluere sacrum, nunc maxima rerumRoma colit, cum prima movent in praelia Martem,sive Getis inferre manu lacrimabile bellumHyrcanis Arabisve parant, seu tendere ad IndosAuroramque sequi Parthosque reposcere signa.Sunt geminae Belli portae (sic nomine dicunt)religione sacrae et saevi formidine Martis ;centum aerei claudunt vectes aetemaque ferrirobora, nec custos absistit limine Ianus ;has ubi certa sedet patribus sententia pugnae,ipsa Quirinali trabea cinctuque Gabinoinsignis reserat stridentia limina consul.
In quelli parimente :
Quare agite o iuvenes tantarum in munere laudumcingite fronde comas et pocula porgite dextra,communem vocate deum et date vina volentes.
[38] All'officio ebbe riguardo Virgilio in que' versi, descrivendoci quello d’un buon re, il qual veglia per la salute comune :
Talia per Latium. Quae Laomedontius heroscuncta videns, magno curarum fìuctuat aestuatque animum nunc huc celerem, nunc dividit illuc,in partesque rapit varias perque omnia versat ;sicut aquae tremulum labris ubi lumen ahenissole repercussum aut radiantis imagine lunaeomnia pervolitat late loca iamque sub auraserigitur summaque ferit laquearia tecti.
[39] E altrove :
Nox erat, et terras ammalia fessa per omnesalituum pecudumque genus sopor altus habebat,cum pater in ripa gelidique sub aetheris axeAeneas, tristi turbatus pectore bello,procubuit seramque dedit per membra quietem.
E in quell’altro luogo nel quale fa officio di capitano :
castra Aeneas aciemque movebat.
Parimente si descrive la religione e la pietà di un re vittorioso in quell’altro :
Aeneas, quamquam et sociis dare tempus humandispraecipitant curae turbataque funere mens est,vota deum primo victor solvebat Eoo.
L’officio del medico si descrive in quelli :
Ille retortoPoeonium in morem senior succinctus amictumulta manu medica etc. ;
del sacerdote ne gli altri :
Hic Helenus, caesis primum de more iuvencis,exorat pacem divum vittasque resolvit etc.
[40] Ma dell’officio della madre di famiglia ci mostra in quella comparazione :
ceu foemina primum,cui tolerare colo vitam tenuique Minervaimpositum, cinerem et sopitos suscitai ignes,noctem addens operi, famulasque ad lumina longoexercet penso, castum ut servare cubileconiugis et parvos possit educere natos.
Alla dignità d’una regina ebbe riguardo nel primo :
Tum foribus divae, media testudine templi,septa armis solioque alto subnixa resedit.Iura dabat legesque viris operumque laborempartibus aequabat iustis aut sorte trahebat;
a quella di re nell’ultimo :
Interea reges : ingenti mole Latinusquadriiugo invehitur curru, cui tempora circumaurati bis sex radii fulgentia cingunt,Solis avi specimen.
[41] Ma benché si potessino addurre infiniti essempi di questo e degli altri poeti, ci bastano questi pochi. In somma si dee aver gran considerazione a tutte quelle cose le quali sono considerate da Aristotele nel secondo della Retorica e da Orazio nella Poetica: perché questa parte del costume da molti è stimata poco meno dell’altra, ch’è la principale, e non si può quasi separare, avegna che l’azione sempre sia fatta da qualche agente ; ma l’agente convien ch’abbia qualche qualità o buona o rea, o degna di lode o di riprensione. Laonde fra tutte le circostanze è prima questa della persona, nella quale si deve osservare quel costume che dalla fama l’è attribuito ; però non estimava Orazio Ch’Omero avesse errato nel descriver Achille in questa guisa :
Scriptor, honoratum si forte reponis Achillem,impiger, iracundus, inexorabilis, acer,iura neget sibi nata, nihil non arroget armis.
Ma nel finger una nuova persona abbia il poeta quell'altre considerazioni che c’insegna il medesimo autore. Parve nondimeno al Castelvetro che non fosse lecito di formar nuova persona non conosciuta per fama, e riprese Virgilio che l’avesse formata. Ma Giulio Cesare dalla Scala porta altra opinione e, se non m’inganno, migliore: cioè che le persone si formano dal necessario o dal verisimile, che di ciò sia cagione l’azione istessa, la quale principalmente è imitata. Io nondimeno più lodo l’opinione di Atanasio nel libro Contra gentili, nel qual si legge che se l’azioni son finte da’ poeti, essi ne’ nomi ancora hanno mentito ; ma se dissero il vero de’ nomi, il dissero dell'opere similmente. Ma si potrebbe aggiungere alle cose dette che l’azione è o tutta vera o tutta finta, o parte vera o parte falsa ; se tutta vera, tutte le persone ancora dovrebbono esser vere ; se tutta falsa, converrebbe che tutte le persone fossero false ; se parte vera o parte falsa, le persone ancora potrebbeno esser in questo modo vere e finte. Nondimeno l’ardimento de’ poeti s’è steso più oltre, fingendo una falsa azione di vera persona ; sol che l’abbiano finta verisimilmente, perché la persona accresce autorità all'azione. Nelle persone si considerano non solo la natura, la fortuna, l’età, la nazione, ma gli abiti e gli istrumenti, e ’l tempo e ’l luogo nel quale sogliono operare. Gli abiti, come quel di Venere in forma di cacciatrice :
Namque humeris de more habilem suspenderat arcumvenatrix dederatque comas diffundere ventis,nuda genu nodoque sinus collecta fìuentes.
O quel di Camilla :
attonitis inhians animis, ut regius ostrovelet honos leveis humeros, ut fibula crinemauro intemectat, Litiam ut gerat ipsa pharetramet pastoralem praefìxa cuspide mirtum.
E l’armi, che si possono annoverar fra gli istrumenti, li quali da Virgilio son descritti nel Catalogo, come quelle degli Ernici e de’ Prenestini e d’altri popoli :
Non illis omnibus arma,non clipei currusve sonant ; pars maxima glandesliventis plumbi spargit, pars spicula gestatbina manu, fulvosque lupi de pelle galerostegmen habent capite, vestigia nuda sinistriinstituere pedis, crudus tegit altera pero.
E quelle de gli Aurunci e de gli Osci :
Teretes sunt aclides illistela, sed haec lento mos est aptare flagello;laevas cetra tegit, falcati cominus enses.
E quelle de’ popoli Sarrasti :
Teutonico ritu solitos torquere cateias,tegmina queis capitum raptus de subere cortex,aerataeque micant peltae, micat aereus ensis.
E fra gli istrumenti sono gli arieti e 'l cavallo troiano, di cui si legge :
aut haec in nostros fabricata est machina muros etc.
Il tempo è descritto in que’ versi :
Tempus erat, quo prima quies mortalibus aegrisincipit et dono divum gratissima serpit ;in somnis ecce ante oculos maestissimus Hector.
E la mezza notte in quelli altri :
Nox erat, et placidum carpebant cuncta soporem,
e quel che segue. E ’l nascer dell’aurora :
Postera iamque dies primo surgebat Eoohumentemque Aurora polo dimoverat umbram.
E nell’istesso libro :
Iamque rubescebat stellis Aurora fugatis,cum procul obscuros colles humilemque videmusItaliam.
E nel quarto :
Et iam prima novo spargebat lumine terrasTithoni croceum linquens Aurora cubile.Regina e speculis ut primum albescere lucemvidit et aequatis classem procedere remis.
È la sera descritta in quegli altri :
Sol ruit interea et montes umbrantur opaci.Sternimur optatae gremio telluris ad undam..........................................corpora curamus ; fessos somnus occupat artus.
E le qualità del tempo sono descritte similmente :
Nam neque astrorum ignes neque lucidus aethrasiderea polus, obscura sed nubila coelo,et lunam in nimbo nox intempesta tenebat.
E la tempesta, come quella del primo :
Talia iactanti stridens Aquilone procellavelum adversa ferit fiuctusque ad sidera tollit.Franguntur remi, tum prora avertit et undisdat latus, insequitur praeruptus aquae mons.
E la tranquillità, di cui si legge :
Sic ait, et dicto citius tumida aequora placatcollectasque fugat nubes solemque reducit.
E la peste è descritta nel terzo similmente :
subito cum tabida membriscorrupto coeli tractu miserandaque venitarboribus satisque lues et lethifer annus.
Nella descrizione di luoghi ancora è meraviglioso Virgilio, come in quello accommodato a gli aguati :
Est curvo anfractu vallis, accomoda fraudiarmorumque dolis, quam densis frondibus atrumurget utrumque latus, tenuis qua semita ducit,angustaeque ferunt fauces aditusque maligni.Mane super in speculis summoque in vertice montis,planicies ignota iacet tutique receptus,seu dextra laevaque velis occurrere pugnae,sive instare iugis et grandia volvere saxa.
Si consideri ancora l’eccellentissimo artificio del poeta divino in quell’altri versi :
Est locus Italiae in medio sub montibus altis,nobilis et fama multis memoratus in annis..........................................urget utrinque latus nemoris, medioque fragosusdat sonitum saxis et torto vertice torrens.Hic specus horrendum et saevi spiracula Ditismonstrantur, ruptoque ingens Acheronte voragopestiferas aperit fauces.
Considera la medesima felicità in quella descrizione :
Portus ab Eoo fluctu curvatur in arcum etc.
Ma quello fu divinissimo :
Est in secessu longo locus : insula portumefficit obiectu laterum, quibus omnis ab altofrangitur inque sinus scindit sese unda reductos.Hinc atque hinc vastae rupes geminique minanturin coelum scopuli,
e quel che segue. Tutta volta alcun potrebbe dubitare perché Virgilio descrivesse un porto appresso Cartagine, il quale veramente non è in quella parte di Africa, ma, come Servio e alcuni altri hanno creduto, in Cartagine nuova, città di Spagna, ora detta Cartagena. Ma peraventura egli ebbe risguardo non al vero, ma alla bellezza, se non mi fosse lecito il dire all’idea del porto ; e volendoci descrivere il più bel porto che potesse imaginarsi, fece la finta descrizione del luogo, e v’aggiunse l’antro delle ninfe e l'altre cose, nelle quali volle imitare Omero. E questa finzione peraventura sarebbe soggetta a maggiore opposizione s’ella fosse nella geografia, quantunque gli errori della geografia ancora o della descrizione universale della terra sian per accidente nell’arte poetica ; ma essendo una topotesia, cioè una particolar descrizione del luogo, può di leggieri esser lodata, non sol tolerata, perché dopo lungo spazio di anni più agevolmente avengono le mutazioni nelle picciole parti della terra che nelle grandi, benché nelle grandi ancora sogliono a venire, come ci insegna non solamente Aristotele ne’ libri Delle cose sublimi, e Strabone nella Geografia, ma il medesimo poeta in quel verso :
tantum aevi longinqua potest mutare vetustas.
Oltre a ciò, la spelunca riceve molte allegorie, come l’antro di Platone figurato per lo mondo, e quello d’Omero, del qual Porfirio compose un picciolo ma dotto libretto ; e questo ancora può aver la sua occulta significazione e i suoi meravigliosi misteri. Ma non è ora mia intenzione parlar di questa materia, della quale non ragiona Aristotele; ma forse ne’ libri seguenti toccherò alcuna cosa della opinione d’altri eccellenti scrittori, all’autorità de’ quali molto dovrebbe esser creduto.
LIBRO QUARTO
[1] Dovendo io trattare dell’elocuzione, si tratterà per conseguente delle forme del parlare, perché, essendo egli pieghevole a guisa di cera, prende molte forme e quasi molti caratteri, ciascuno de’ quali è diverso da gli altri e ha la sua propria eccellenza e la sua propria laude. Ma intorno a ciò sono state varie l’opinioni, come sa V. S. illustrissima, a cui non è occulta alcuna cosa ch'appartenga al bene intendere o al bene scrivere. Laonde non è chi meglio sappia giudicar le cose scritte, o trovarle prima che sieno scritte, se pur ve n’è alcuna ch’in sì lungo corso de secoli e d’anni sin ora non sia ritrovata. Ma se ’l rinovar l’opinioni, o le ragioni con le quali si posson provare e confermare, sarà quasi un nuovo ritrovamento, io e gli altri possiamo sperar qualche nuova lode nell’invenzione, la qual più volentieri riceverei da voi, mio Signore, come da quello ch'è lodatissimo da ciascuno. Ma in questa materia poche sono le cose che non sieno scritte e confermate con buone ragioni e con grande autorità, e grande è il numero dell’opinioni e degli autori che n’hanno ragionato. Laonde io non avrei tanta fatica in raccor molte cose da molte parti quanto in elegger le migliori e de’ miglior Greci e Latini.
[2] Ma prima ch’io venga a trattar di questa ultima parte di qualità, non estimo inconveniente che si tratti della proposizione dell’opera e dell’invocazione, la quale il poeta dee fare, poi ch’avrà ritrovata e disposta la favola, avanti ch’egli cominci a spiegarla, perciò che non si può proporre quello che non s’è ancora ritrovato e ordinato. E come che l’invocare l’aiuto divino in tutti i luoghi e in tutti i tempi sia necessario, nondimeno gli scrittori sogliono farlo assai spesso nel principio dell’opere loro, alcuna volta nel mezzo o nel fine, e sempre che s'avengono a cosa che paia ricercarlo. Dico gli scrittori perché non invocano solamente i poeti ma i filosofi e gli oratori, com’appresso Platone Timeo, il quale n’ammonisce che si debba invocare in tutte le cose, e grandi e picciole. E nell’Eutidemo s’invocano le Muse e la Memoria, della quale elle furono generate ; Lucrezio invoca Venere, dea ch’è sovra la generazione ; Demostene, nella sua orazione Della corona, tutti gli dei e tutte le dee. E non è vero quel che n’insegna il Castelvetro sotto la persona del Graminaticuccio, ch’a’ poeti soli si convenga d'invocare, perché soli i poeti sian mossi da divino furore, avegna che la retorica ancora abbia la sua divinità, come prova Aristide nell’orazione nella quale egli la difende dall’opposizioni fattele da Platone;e la sua invenzione è non altrimenti attribuita a Mercurio che quella della poesia ad Apolline. Molto meno è vero che non si convenga l’invocare nelle cose picciole, perché niuna cosa è così picciola che non abbia bisogno dell’aiuto divino ; e i piccioli poemi sogliono spesso apportar seco grandissima difficultà. Però nelle brevi poesie invocarono Museo e Teocrito ; e non si disdice a’ lirici l’invocare, com’estimò il Grammaticuccio ; e invocò Pindaro, principe de’ poeti lirici, nell'Agesidamo (ch’è la decima oda dell'Olimpiche) la Musa e la Verità figliuola di Giove, nell'Ergotele (ch’è la duodecima) supplicò alla Fortuna, nel Ierone (ch’è la prima ode fra le Pitie) invocò Apollline e le Muse. Taccio del Psaumide, perché quella è più tosto consecrazione dell’inno a Giove. Orazio similmente nella prima oda del primo libro invocò Polinnia. Dante invocò Amore, che si mostrava negli occhi della sua donna, e in un’altra canzone gli chiese non solamente la voglia di piangere, ma la scienza di saper acconciamente lagrimare ; in quella la qual comincia
Voi ch’intendendo il terzo ciel movete
volse gl’intelletti divini per auditori. Il Petrarca, che molte volte ragionò d’Amore, una volta sola, ch’io mi ricordo, il chiamò in aiuto, dicendo :
Deh porgi mano a l’affannato ingegno.
Il Bembo chiamò le Muse in que’ leggiadrissimi versi :
Dive, per cui s’apre Elicona e serra,....................................date a lo stil, che nacque de’ miei danni,viver quando io sarò spento e sotterra.
Monsignor della Casa invocò similmente le Muse nel primo sonetto :
Oh se cura di me, figlie di Giove,talor vi punge al primo suon di squilla,date al mio stil costei seguir volando.
S’inganna parimente il Grammaticuccio quando egli dice che l’invocazione è argomento di superbia e di presunzione. Opposizione somigliante fece l’antico sofista Protagora ad Omero, dicendo ch’egli chiama la Musa con un modo imperioso, quasi egli voglia comandarle. Ma Aristotele nella sua Poetica, difendendo i poeti, rispose ancora a questa opposizione, mostrando che ciò avveniva più tosto per difetto di colui che recitava i versi, il quale poteva pronunciarli in altro modo ; e senza fallo le medesime parole si possono pronunciare imperiosamente e supplichevolmente ; laonde il difetto era più tosto nell’arte dell’istrione. Altri ha voluto che l’invocare sia segno di modestia, ma io direi più tosto che fosse argomento di pietà e di religione, sì veramente che non sia invocata deità che ’l poeta riputi falsa, o non con questa intenzione ; perché alcuni ebbero opinione che Dante invocasse il buono Apollo, e il Petrarca il chiamasse immortale a differenza degli idoli o pur de’ demoni, che sono mortali, come disse Plutarco in quella operetta nella quale egli disputò della cagione per la quale gli oracoli son mancati. Ma perdonisi questa licenza a' poeti, e mutisi il nome, purché la buona intenzione non sia condennata. Più sicuramente Dante nella sua Comedia invocò l’ingegno e la mente :
O Muse, o alto ingegno, or m’aiutate ;o niente che scrivesti ciò ch’io vidi,
come prima Orfeo aveva invocato l’intelletto. Sarà dunque lecito al poeta cristiano invocar la mente e l’intelligenze, imperò che le Muse non furono credute altro che intelligenze.
[3] Ma nel modo del proporre e dell’invocare è tenuto diverso ordine : Omero, Esiodo e gli altri Greci fanno insieme l’invocazione e la proposizione, cominciando dall’invocare ; Virgilio e gli altri Latini prima sogliono proporre, poi invocare : alcuni rivolgono il parlare a’ principi, come l’istesso autore ad Augusto ne’ libri dell’agricultura, e Ovidio ne’ suoi Fasti a Germanico ; il quale uso fu seguito da’ moderni. Orazio diede per ammaestramento, nella proposizione e nell’invocazione, che non si cominciasse da parole troppo gonfie, biasimando Antimaco il quale die principio al suo poema con questo verso :
Fortunam Priami cantabo et nobile bellum,
lodando all’incontra Omero il quale cominciò l’Odissea con questo altro :
Dic mihi, Musa, virum captae post tempora Troiae;
quantunque la comparazione si potesse fare tra l’Iliade e ’l poema biasimato, nel quale era cantata la fortuna di Priamo. Ma la proposizione dell’Iliade, o l’invocazione, può esser considerata da chi meglio suol giudicare lo stil de’ poeti greci : Pindaro peraventura, che portò diversa opinione, estimando che ’l principio de' poemi dovesse essere grande, magnifico e luminoso e simile a’ frontispici de’ palagi, come scrisse in que’ versi dell’Agesia :
Χρυσέας ὑποστάσαντες εύ-τειχεῖ προζύρῳ ζαλἀμουκίοωας ὡς ὅτε ζαητὸν μέγαρονπάξομεν˙ ἀρχομένου δʼἔργου πρόσωπον etc.
Ma forse Pindaro diede essempio a’ lirici, Orazio ammaestrò gli epici con l’autorità d’Omero; e, per mio aviso, non biasimò Orazio tutti i principii alti e illustri, ma quelli solamente a’ quali non corrispondono l’altre parti ; peroché non si conviene, com’egli dice, dare ex fulgore fumum, sed ex fumo lucem ; ma il dare ex luce lucem non sarebbe biasimato da Orazio medesimo. Diremo adunque che o si dà luce da luce, o luce da fumo, o fumo da luce, o fumo da fumo ; e con parole proprie diremo o che sono princìpi chiari e l’altre cose chiare, o dopo gli oscuri princìpi seguitano più chiare narrazioni, o da chiari princìpi nascono l’oscure, o da gli oscuri similmente l’oscure ; e parimente le basse dopo i bassi, e le basse dopo gli alti, e l’alte appresso gli alti, e l’alte che seguono i bassi cominciamenti. Di queste quattro coppie che ' Latini chiamano combinazioni, due per mio parere sono degne di biasimo, l'altre di lode : merita biasimo il dar le cose oscure dopo boscure, e l’oscure dopo le chiare. L’altre due sono laudevoli molto ; e bistesso giudizio si può fare dell'altre quattro coppie, se l'alte cose e le basse insieme s’accoppieranno. Virgilio accoppiò l’alto stile e l’illustre nella proposizione :
Arma virumque cano etc.,
e simili sono i seguenti versi ; e sempre avrebbe continuato nella medesima altezza e nel medesimo splendore s’alcuna volta non avesse voluto variar le forme del parlare. Laonde io non posso riprovare in modo alcuno il giudicio di Tucca e di Varo, seguito assai arditamente da Lucano in que’ primi versi della sua proposizione :
Bella per Aemathios plusquam civilia campos,iusque datum sceleri canimus ;
e più arditamente da Stazio in quelli altri :
Fraternas acies altemaque regna profanisdecertata odiis sontesque evolvere Thebas,Pierius menti calor incidit ;
o pur in quelli :
Magnanimum Aeacidem formidatamque Tonantiprogeniem canimus ;
e con grande animo ancora da Silio Italico, quando egli disse :
Ordior arma quibus caelo se gloria tollitAeneadum ;
né con minor da Claudiano in quelli :
Inferni raptoris equos afflataque currusidera Taenario caligantesque profundaeIunonis thalamos audaci prodere cantumens concussa iubet.
Non posso adunque biasimare la proposizione alta, chiara e illustre, ove il poeta eroico, che da Orazio è detto promissi carminis auctor, non manchi delle sue promesse ; anzi, se la proposizione è quasi un proemio del poeta, il muover espettazione e il fare attento il lettore è molto convenevole, per mio giudizio, nella proposizione ; la qual peraventura si fa alcuna volta nel mezzo de’ poemi, come il proemio nell’orazione ; ma l’invocazione senza fallo suol farsi molte, e n’abbiamo essempio da Omero e da Virgilio, il quale dopo la prima invocazione invocò di nuovo :
Nunc age, qui reges, Erato, quae tempora rerum,quis Latio antiquo fuerit status, advena classemcum primum Ausoniis exercitus appulit oris,expediam.. . .tu, diva, mone ; dicam horrida bella,dicam acies actosque animis in funera regesTyrrhenamque manum totamque sub arma coactamHesperiam. Maior rerum mihi nascitur ordo,maius opus moveo ;
ne’ quai versi dopo l’invocazione segue la proposizione quasi congiunta. Invoca negli altri libri ancora :
Pandite nunc Helicona, deae, cantusque movete;Vos, o Calliope, precor, aspirate canenti.
Ora consideriamo quel ch’appartiene all’elocuzione, nella quale si dimanda l'aiuto divino per favellare altamente, non meno che per la memoria delle cose già sepolte nell’oblivione. Io dico che l’elocuzione altro non è che uno accoppiamento di parole, la qual si risolve ne’ nomi e ne’ verbi e nell’altre parti da le quali è composta; e queste nelle sillabe ; e le sillabe nelle lettere, che sono chiamate elementi con l’istesso nome co ’l quale si chiamano i quattro principi delle cose di cui è composto l’universo. E quantunque le parole siano ad placitum, come vuole Aristotele ne’ libri Dell’interpretazione , e Alessandro nelle Questioni, nondimeno si possono dire in qualche modo per natura, s’esse son composte in quel modo che c'insegna Ammonio nel medesimo libro, come diremo appresso più lungamente. Ora darò la deffinizione delle parti dell’elocuzione, le quali sono : l’elemento, la sillaba, la congiunzione, il nome, il verbo, l’articolo, il caso, l'orazione.
[4] Elemento è una voce indivisibile ; ma non ogni voce indivisibile è elemento, perché quelle delle bestie non si posson chiamar con questo nome, ma quelle solamente le quali possono esser intese ; ma di queste alcune sono vocali, altre semivocali, altre mute. Vocali son quelle le quali senza percossa hanno voce che può esser udita, come a e o ; semivocale è quella la quale con la percossa ha voce che può udirsi, come s e r ; muta quella che con la percossa non ha voce, ma diviene sì fatta in compagnia dell’altre che l’hanno, in guisa che ella può esser udita, come g e d. E queste son differenti fra loro per le figure della bocca, per luogo, per grossezza e sottigliezza, per longhezza e brevità, e, oltre a ciò, per acume e gravità e per quello accento ch’è mezzo tra l’uno e l’altra.
[5] Sillaba è una voce che non significa cosa alcuna, composta dalla lettera muta e dalla vocale, come gra.
[6] La congiunzione è una voce che non significa alcuna cosa, e non impedisce né fa una voce significativa di molte voci, e può aver luogo nel mezzo e negli estremi, se più non le si convenisce il principio ; o ver diremo che la congiunzione sia una voce che non significhi, ma sia atta a fare una voce di più voci, che significhino insieme, cioè un parlare di molte parole ; perché gli espositori non intendeno de’ nomi congiunti, ma delle parti dell’orazione legate insieme, come s’altri dicesse :
Sotto essa giovanetti trionfaroScipione e Pompeo.
[7] L’articolo è una voce che non significa, la qual distingue i generi e i numeri, o casi, di quelle che hanno significazione ; e per sua natura nella nostra lingua si mette nel principio solamente, benché in quella de’ Greci alcuni dimostrassero il principio, i quali sono chiamati προτακτικοί, altri dechiarassero il fine, i quali dagli istessi furono detti ὑποτακτικοί; altri nell’istessa lingua separano una cosa dall’altre ; e in luogo di questi i Latini posero ille e iste, come dechiara il Vittorio nel suo comento sovra la Poetica d’Aristotele. Nome * * *
Verbo è una voce composta, la qual significa insieme co ’l tempo, di cui niuna parte separata significa per sé, come abbiamo detto de’ nomi ; perciò che dicendosi uomo o bianco, non è significato il quando ; ma chi dice camina o camino, significa insieme quando : l’uno il tempo presente, l’altro il passato.
[8] Il caso è quel che dimostra ne’ verbi e ne’ nomi la mutazione de’ numeri e delle persone, perciò ch’egli si trova negli uni e negli altri : ne’ nomi diremo di questo e a questo, o vero l’uomo e gli uomini ; ne' verbi dicendosi camina e caminò, perciò che l’uno e l’altro cade da camino, ch’è prima persona del presente.
[9] L’orazione è una voce, o vero un parlar composto, il qual significa ; e le sue parti significano ancora per sé qualche cosa. Ma l’orazione si dice una in due modi : o quella che significa una sol cosa, come la definizione dell’uomo l’uomo è animal ragionevole, o quella la qual, congiungendo molte cose insieme, ne fa una di molte, come l'Iliade.
[10] Ma le specie de’ nomi son la semplice e la doppia, che si può dir composta ; e ogni nome è o proprio, o straniero, o trasportato, o usato per ornamento, o fatto, o allungato, o accorciato, o mutato. Proprio è quello ch’usa ciascuna gente e lingua ; straniero è quello ch’usa la diversa ; per che straniero e proprio può essere il medesimo, ma non a’ medesimi, avenga che retaggio a’ Francesi sia proprio, a noi è strano. Traslazione è trasportamento di nome proprio o da genere a spezie, o da spezie a genere, o da spezie a spezie, o secondo la proporzione. Dico da genere a spezie come in que’ versi di Dante, quando egli, parlando de’ giganti, disse :
Certo Natura, quando lasciò l’artedi sì fatti animali, assai fe' bene.
Da spezie a genere dicendo mille volte in vece di molte, perché mille son molte, come fece il Petrarca :
Mille fiate, o dolce mia guerrera.
Della spezie alla spezie quando si pone l’una per l’altra, come fece Dante, il qual chiamò volo la navigazione, la quale è un’altra spezie di movimento :
de’ remi facemmo ale al folle volo.
Per proporzione si farà la metafora se chiamaremo la morte occaso della vita, o l’occaso morte del giorno, ad imitazione di Dante, il qual disse :
che parea il giorno pianger che si more ;
perché la medesima proporzione è tra ’l secondo e ’l primo ch’è tra il quarto e 'l terzo, cioè tra la morte e la vita, la qual è tra l’occaso e ’l giorno. Laonde sogliamo prendere il secondo in luogo del quarto, e ’l quarto in luogo del secondo ; e alcuna volta s’aggiunge quello per che si dice, come feci io in que’ versi :
muto poeta di pittor canoro.
Fatto o finto è quel nome che, non essendo mai stato usato da alcuno, il poeta il fa di nuovo : come fece Dante binato, e similmente intuassi, immiassi e inciela, impola, imparadisa, inoltra, insempra; ma particolarmente son lodati quelli che son più atti all’imitazione e al por le cose avanti gli occhi, come quello in quel verso :
Alto sospir, che ’l duolo strinse in «hui!».
Anzi il poeta dal finger de’ nomi prende il suo nome, perché egli è detto poeta dal verbo greco ποιεῖν, che significa tanto « fare » quanto « fingere ». Laonde così dal finger i nomi come dal far la favola è denominato. Il nome usato per ornamento è l’epiteto, o ’l nome aggiunto che vogliam dirlo ; il qual Aristotele chiamò co ’l nome greco κόςμον; e questo nome significa quella sorte d’epiteti che son detti « oziosi » e « vani », come piace al Vittorio ; o vero quello che da’ Greci è detto οἰκεῖον, cioè « proprio » o « appropriato », come dechiara il Maggio ; benché più mi piace l’altra opinione, perché la proprietà non suole apportar grande ornamento. L’allungato sarebbe s’altri dicesse simìle in vece di sìmile, il quale ha la penultima breve, o ignudo in vece di nudo ; l’accorciato, chi dicesse secol o pensier o caval in vece di secolo, di pensiero o di cavallo. Il mutato è quando rimane una parte del nome, e l’altra si cambia : come dicendosi desiro in vece di desire, o desire in vece di desiderio, o alloro in vece di lauro, o allegiamento in cambio d’alleviamento.
[11] Ma la virtù della elocuzione, se crediamo ad Aristotele, è che sia chiara, non umile, quasi nell’umiltà non possa essere alcuna virtù. Chiarissima veramente è quella la quale è composta de’ nomi propri, ma è umile, come sono i Capitoli del Bernia o del Mauro. Ma quella sarà grave la quale userà vocaboli affatto peregrini. Peregrini chiama Aristotele la varietà delle lingue, l’accorciamento e l’allungamento, e ciascuno altro nome che non sia proprio. Ma s’alcuno mescolasse insieme tutte queste cose, farebbe enigma o barbarismo : se mischiasse le traslazioni, enigma, se le lingue, barbarismo. I nomi dunque stranieri e i traslati e gli ornati e l’altre forme potranno fare il parlare non umile, ma sublime, e i propi il faranno chiaro e manifesto. Ma perché da una medesima cagione suol nascere l’oscurità e la grandezza, e derivar quasi da un medesimo fonte e dall’altro la umiltà e la chiarezza, fa di mestieri di gran giudizio e di grand’arte in accoppiare le voci proprie con le straniere e con le trasportate e con l’altre in guisa che ne risulti un parlare tutto splendido e tutto sublime. Dovrà dunque scegliere il poeta quelle traslate ch’averanno maggior vicinanza con le proprie, e che non saranno trasportate così di lontano. Dee ancora sceglierle da cose gratissime alla vista e a gli altri sensi, e schivar quelle che sono spiacevoli ad alcun di loro, come deveva far Dante, il qual, chiamando il sole lucerna del mondo, ci fé’ quasi sentir l’odor dell’oglio. E sì debbiamo fuggire la suspizione di tutte le cose brutte e troppo plebeie e popolari, come quella la quale è tratta dal chiavar delle porte, e l’altre somiglianti. Però non lodo colui il qual disse che la republica era castrata per la morte di Scipione ; né meritò molta lode il Caro chiamando i Francesi Galli intieri. Si deono anco lasciar quelle metafore le quali per l’uso sono divenute proprie, perch’alcune cose nelle traslazioni si dicono più pianamente e più propriamente che non con le proprie e medesime, come dice Demetrio Falereo. Non dee il poeta trasportar la metafora dalle cose minori alle maggiori, come il suono della tromba al tuono, ma dalle maggiori alle minori, come il torreggiar a’ giganti :
torreggiavan di mezzo la personagli orribili giganti.
In somma le metafore deono esser vaghe, piacevoli, agevolmente intese e illustri, com’è quella :
ridono i prati, il ciel si rasserena ;
e quell’altre :
e le rose vermiglie infra le nevemover dall'òra, e discovrir l’avorioche fa di marmo chi dappresso il guarda ;
e quelle :
perle e rose vermiglie, ove l’accoltodolor formava voci ardenti e belle ;fiamma i sospir, le lacrime cristallo.
E facilmente intese, illustri e sublimi e magnifiche, come quelle altre :
Io credeva assai destro esser su l’ali,non per lor forza, ma di chi le spiega;
e quelle :
Rotta è l’alta colonna e ’l verde lauroche facean ombra al mio stanco pensero;
e quelle :
spargendo a terra le sue spoglie eccelse,mostrando al sol la sua squallida sterpe.
Dee ancora schivar le metafore troppo oscure, le quali paiono quasi enigma, come alcune della canzone :
Mai non vo' più cantar come soleva.
Né si deono continuar le metafore, ma interporre tra le parole traslate le proprie, se vogliamo che ’l parlar sia chiaro e sublime ; altrimenti se ne farebbe allegoria : perché allegoria è la metafora continuata, come è quella :
Passa la nave mia colma d’oblioper aspro mare, a mezza notte il verno,infra Scilla e Cariddi ; ed al governosiede il signore, anzi il nemico mio.A ciascun remo un pensier pronto e rioche la tempesta e ’l fin par ch’abbia a scherno ;la vela rompe un vento umido eternodi timor, di speranza e di desio etc.
La metafora continuata nondimeno conviene al grave dicitore e ne’ misteri e nelle minaccie ; ma oltre tutte le metafore che son lodate da Aristotele è quella che si chiama « metafora in atto », cioè quella che pone la cosa manzi a gli occhi, e le dà quasi movimento e anima, e di inanimata la fa quasi animata. Perché s’alcuno dicesse che l’uomo da bene è « ben tetragono a’ colpi di fortuna », fa metafora, perché l’uno e l’altro è perfetto, ma non significa alcuna operazione, pierò che non mette alcuna cosa inanzi gli occhi ; ma dicendosi :
Nell’età sua più bella e più fiorita,
pare che quasi ci rappresenti la primavera. Similmente metafora in atto è quella :
Pon mano in quella venerabil chiomasicuramente, e ne le treccie sparte,sì che la neghittosa esca del fango,
perché segue l’operazione ; e quell’altra, pur del Petrarca :
Vinca il ver dunque, e si rimanga in sella,e vinta a terra caggia la bugia ;
e quella di Dante :
insin che ’l ramovede a la terra tutte le sue spoglie ;
e quell'altra :
io chinai il viso, e quel se 'n venne a rivacon un vasello snelletto e leggiero,tanto che l’acqua nulla n'inghiottiva ;
e quella del Boccaccio nella Teseide :
ad un’ora ruggiar tutte le porte.
[12] Si vede adunque che ciascuno di questi poeti si compiacque di far le cose animate d’inanimate, come prima s’era compiaciuto Omero con questa medesima traslazione, la quale è cagione di grandezza perché dà anima alle cose, e dà chiarezza perché le pone inanzi a gli occhi. Dee similmente il poeta, per accoppiar queste due condizioni, pigliar le parole straniere da quelle lingue le quali hanno qualche similitudine con la nostra, come è la spagnuola e la francese, sì veramente che lor si dia il fine delle parole toscane, ad imitazione di Cesare e d’altri, i quali alle parole barbare diedero la terminazione latina. Laonde non è da lodare il Guicciardino, il qual disse monsignor de l’Escu, potendo dir monsignor de lo Scudo, benché in ciò abbia avuto infiniti imitatori. E ciò similmente conviene avere non sol nelle voci traslate e nelle straniere, ma nelle fatte di nuovo ; altrimenti il parlare sarebbe simile a quello de gli Sciti, come dice Demetrio, o pur a quel de’ Tedeschi e degli Schiavoni. Laonde io non posso lodare a fatto que’ versi di Dante :
che se Tabernicvi fosse su caduto, o Pietrapana,non avria pur da l’orlo fatto cric.
Similmente, per congiunger queste qualità, nella scelta de’ nomi antichi si deono schivar quelli c’hanno del vieto e quasi del rancido, come son quelli :
o non vi fu mestier più che la dotta ;
e quelli :
E « Se miseria d’esto loco sollorende in dispetto noi e i nostri preghi»cominciò l'uno « e ’l tristo aspetto e brollo ».
E quell’è biasimata da Dante medesimo nel libro Della volgare eloquenza: e andavamo introcque. Ma per risolver questo dubbio con le parole usate d'Aristotele nella Retorica, io dirò che la virtù dell’elocuzione è che sia chiara, perché, s’ella fosse oscura, non farebbe il suo officio ; ma non dee esser umile, né più gonfia che non conviene ; la poetica non è umile, ma non è conveniente. Dalle quali parole si raccogliono due cose : l'una, che la virtù dell’elocuzione oratoria è la chiarezza e la convenevole altezza, l’altra, che ’l parlare ne’ poeti sia più sublime che ne gli oratori, ma non già proprio ; perché i poeti, come dice Marco Tullio, parlarono quasi con lingua aliena. Ma dall’altre parole che seguono si raccoglie che le parole proprie fanno l’orazione piana, ma non ornata, e gli altri nomi, i quali più convengono al poeta, l’accrescono ornamento, e particolarmente le parole disusate la fanno più venerabile, perché sono come forestieri tra cittadini ; laonde paiono peregrine e producono meraviglia; ma la meraviglia sempre apporta seco diletto, perché il dilettevole è meraviglioso. Tutta volta il parlar sì fatto è più convenevole nel verso che nella prosa,nella quale si deono usar poche volte le parole straniere e le finte e l’altre ch’abbiamo annoverate. Ma le metafore sono più accomodate all’oratore ; delle quali abbiamo detto alcune cose e dato quasi alcuni precetti ; e, repilogando, possiam dire con Egidio, interprete d’Aristotile, che tre sian le proprietà delle metafore : ch’ella sia presa da cose convenevoli, da vicine e da manifeste ; o che sian quattro, seguendo l’opinione d’altri e aggiungendovi ch’elle sian prese da cose belle e grate alla vista ; anzi, potendo esser presa da due cose belle, debbiam prenderla dalla più bella» come fece il Petrarca, il quale, parlando dell’aurora, disse :
con la fronte di rose e co’ crin d’oro.
Ma Dante prima avea detto che le guance dell’aurora
per troppa etate divenivan rance.
Laonde non si doverebbe dire che l’aurora fosse rossa, ma purpurea più tosto. Si possono alle dette proprietà aggiungerne due altre : ch’elle sian prese da cose maggiori e da migliori, sì veramente che la nostra intenzione sia di lodare ; perché s’ella fosse di vituperare, possiamo prenderla dalle peggiori, come fece Dante nel biasimar la sua donna :
questa scherana micidiale e ladra.
A queste cose, dette da Aristotele e da Demetrio Falereo, aggiunge Cicerone alcun’altre dell’origin della metafora, dicendo ch’elle son fatte o per bisogno o per diletto : per bisogno come quelle che sono uscite da’ villani, i quali dicono gemmar le vite e lussureggiar le biade, e l’altre simili ; per diletto come l’altre che son ritrovate per ornamento del parlare. Ma Porfirio non vuol che quelle le quali sono usate per necessità sian metafore, ma nomi equivochi più tosto ; la quale opinione egli raccolse dalle parole d’Aristotele medesimo, il qual nel terzo della Retorica disse che la metafora porta diletto oltre la necessità; laonde par ch’escluda quelle che son ritrovate per bisogno. Comunque sia, le traslazioni, usate con queste condizioni, accrescono molto la bellezza del parlare con gran lode di chi le trova ; né può ritrovarle convenienti chi non conosce la similitudine delle cose nella dissimilitudine. Laonde par ch’agli ingegni filosofici propriamente convenga il ritrovarle ; e Platone oltre tutti gli altri le ritrovò e l’usò senza risparmio, e perciò fu tenuto arditissimo. Senofonte si servì più volentieri delle imagini, o delle similitudini che vogliam dirle. E c’è dato per consiglio di trasmutar in imagine la metafora pericolosa ; il che si fa agevolmente con la giunta della particella quasi, come fece il Petrarca :
e d’intorno al mio cor pensier gelatifatto avean quasi adamantino smalto;
e ’l Caro dopo lui :
Giace, quasi gran conca, infra due mari.
Si può assicurar ancora la traslazione con un altro aiuto, cioè con l'epiteto, come assicurò Dante, il quale, parlando degli alberi pieni di neve, disse :
Sì come neve tra le vive travi.
E ’l Petrarca, per opinione d'alcuni, chiamò all’incontro una cassa di legno secca selva:
E pria sarò sotterra in secca selva ;
e spesso usò questo aiuto, come chiamando gli occhi di madonna Laura angeliche faville, e in un altro luogo il destro occhio destro sole, e 'l volto calda neve. Alcuna volta i nostri poeti hanno usato gli aggiunti per ammollir l’asprezza del nome che sta per sé, come usò il Petrarca dicendo :
O viva morte, o dilettoso male ;
e monsignor della Casa :
Pietosa tigre ad amar diemmi e scoglio ;
e altrove :
serena e pianaprocella il corso mio dubbioso face.
[13] Ma benché questo nome di metafora paia tanto ristretto d’Aristotele quanto abbiam veduto, nondimeno alcune volte l’usò in larghissimo significato, perch'egli suole chiamar metafora ogni nome che non è proprio. Laonde Cicerone estima ch’Aristotele comprendesse sotto il nome di metafora tutto quel che da’ grammatici e da’ maestri del dire (i quali dividono e spezzano le cose) vien chiamato con vari nomi ; e senza fallo i nomi d’ipallage, di metonomia e d’allegoria furono dopo Aristotele di nuovo ritrovati, perciò ch’egli riprese alcuni sofisti i quali posero nomi diversi a cose che non erano diverse in modo alcuno. Laonde non è meraviglia se di poche figure ritroviamo appresso Aristotele alcuna menzione ; ma non era convenevole ch’Aristotele facesse menzione di quelle cose che non si possono raccogliere sotto alcuna arte. Ma le figure peraventura si possono multiplicare in infinito ; laonde Cicerone nella Topica disse che le figure delle parole o delle sentenze, le quali i Greci chiamano σχήματα, era cosa infinita ; però può cadere più tosto sotto la distribuzione delle parti che sotto la divisione. Son dunque anzi parti dell’orazione che forme o specie ; e s’elle fossero forme, come piace a Boezio, e spezie del genere, potrebbono ricever l’istesso nome, percioché a ciascuna di loro conviene il nome del genere, là dove alle parti non si conviene quel del tutto ; nondimeno ciò nulla rileva, percioch’essendo in potestà del dicitore multiplicare le figure del parlare, può multiplicarle in infinito, perché, insieme col mutar dell’elocuzione, si mutano le figure, fra le quali non è alcuna differenza sostanziale, ma solamente accidentale ; laonde par che non possano avere genere comune, perché ciascun genere ha le sue differenze specifiche. E meglio dunque seguir l’altra opinione di Cicerone, seguita da Boezio istesso, che l’elocuzione sia il tutto, e le figure sieno alcune parti in lei tessute in molti e diversi modi, quasi tronconi o foglie o animaluzzi o altre si fatte imagini nel drappo della seta e dell’oro. Ma se ciò è vero, non debbiam diffinir la figura forma fatta di nuovo con qualche artificio, ma una parte artificiosamente rinovata e mutata e diversa dall'altre. Ma se le figure son parti, di loro non si può dare arte esquisita, perché non si posson raccogliere sotto certo numero. Non errò dunque Aristotele in tralasciarle ; o più tosto, non le tralasciò, perché tutte le raccolse sotto la metafora, e le distinse dalle parole proprie; né si può imaginare altra più perfetta divisione o altra più certa partizione di quella ch’egli fece nella Poetica. Ma non deono esser però disprezzate le cose dette da gli altri. Demetrio divise le figure in quelle delle sentenze e delle parole, ma nell’insegnare confuse questo ordine egli medesimo. L'istesse divisioni fece dapoi Marco Tullio, o l’autore ad Erennio, ma perturbò l’ordine similmente, perché le figure delle sentenze son prima che quelle delle parole, sì come son prima le cose delle parole ; ma peraventura ebbe riguardo a qualche comodità dell’insegnare, o disprezzo l’avertimento come troppo minuto. ìIl Trapezunzio confuse nell’istesso modo le figure del parlare con quelle del sentimento. ìQuintiliano le numera per ispezie ; Aldo Manuzio, sequendo gli antichi grammatici, suddivide quelle delle parole in tre generi : cioè della voce, della construzione e dell'elocuzione. Ma Giulio Cesare della Scala promette di darne arte esquisita, e difinisce la figura un disegno delle specie o delle forme ch’abbiamo nella mente, e vuol che tanti sieno i sommi generi delle figure quante sono le scienze ; e fra le scienze mette la dialettica per principale, le cui figure sono la disposizione del mezzo termine, perché in questo modo le chiamò Aristotele. La grammatica ha le sue figure, che sono mutazioni fatte nel parlare contra le sue leggi, o contra la sua regola, che vogliam dirle ; e sono sotto una somma scienza, la qual contiene la poesia, l’istoria e l’arte oratoria. Ma peraventura quelle della grammatica sono confuse con quelle ch’usano i poeti, gli istorici e gli oratori ; anzi i grammatici non ne conoscono altre. Oltre a ciò, se molti sono i sommi generi delle figure, non vi è un genere universo il quale contenga tutti e sia superiore a gli altri ; laonde non so come si possa darne una sola definizione.
[14] Lasciam dunque ora da parte le figure della logica, perch’in questo nome è qualche equivocazione ; ma non biasimo già la divisione fatta in quelle ch’appartengono alla poesia ; ch'alcune figure significano quel ch'è, altre il contrario ; e di quelle che significano quel ch’è, altre il significano egualmente, altre meno, altre altrimenti ; tutta volta questa divisione è sua propria fatta per le specie. Nondimeno non l’ha potute raccoglier tutte sotto i suoi generi, né io prenderò questa fatica, o impossibile o malagevolissima molto ; e voglio più tosto presupporre, come ho detto, ch’elle sian parti dell’elocuzione. Ma forme son quell’altre ch'idee son state chiamate ; le quali altri chiamò caratteri, altri generi, ciascun de’ quali ha la sua propria laude e la sua propria eccellenza. Ma questa divisione fu fatta dopo Aristotele, il quale non distinse le forme del parlare in quel modo che dopo lui furono distinte da Demetrio o da alcuno più antico, se non m’inganno, e dapoi da Marco Tullio e da Ermogene e da retori e da gramatici greci e latini. E cominciando dall’opinione di questi, che sono più vicini, quattro sono i generi del parlare : il breve e ’l lungo, il mezzano e ’l fiorito. Ma il primo vizio in questa divisione, come piace a Giulio Cesare da la Scala, è che le parti della divisione sian troppe ; l’altro, ch'elle non sian separate per le differenze specifiche ; il terzo, che così il lungo come il breve può esser fiorito. Alle medesime opposizioni mi par quasi soggetta la divisione che Ermogene fa dell’idee, le quali sono : la chiara, la grande, la bella, la veloce, l’affettuosa, la grave e la vera ; perciò che sono molte e non son divise per contrarie differenze ; e s’alcuno la volesse chiamar partizione, non divisione, ne seguirebbe ch’elle fossero parti, non forme, né idee, come vuole Ermogene ; ma noi abbiam presupposto che sian forme, a differenza dell’altre che son parti. Oltre a ciò, se pur si trova la forma del dire veloce, perché non si trova la tarda ? E se ci è la vera, perché non ci è la falsa ? Benché non si può dubitar ch’ella non vi sia, perché molti ammaestramenti si potrebbon dare di questa forma, solamente considerando la narrazione di Sinone appresso Virgilio. Più breve e più spedita mi par la divisione di Cicerone nel suo Oratore, che tre siano i generi del parlare : l’alto, il mediocre e l’umile ; perciò che il mediocre si fa o inalzando l’umile o abbassando il sublime. Laonde due generi solamente sono i principali, e questi sono gli estremi. Nell’istesso modo può esser difesa la divisione di Demetrio, il qual divide le forme in quattro semplici : nella tenue, o sottile che vogliamo dire, nella magnifica, nell’ornata e nella grave, e nell’altre che di queste son mescolate. Ma tutte non sono miste con tutte, ma l’ornata con la sottile, e l’ornata nell’istesso modo con l'una e con l’altra ; sola la magnifica non si mescola con la sottile, ma sono quasi forme poste all’incontra e contrarie. Per la qual cagione volsero alcuni che fosser due forme solamente, e l’altre due poste nel mezzo : ma l’ornata è attribuita alla tenue, e la magnifica alla grave, come se l’ornata avesse qualche sottigliezza, e la grave, mole e grandezza. Ma ’l parer di costoro parve a Demetrio degno di riso, perch’egli vide tutte l’altre mescolate insieme, non solo le due già dette ; e conobbe che ne’ versi d’Omero e nelle prose di Platone e di Senofonte e d’altri molti è molta magnificenza mescolata con molta gravità e con molta bellezza. Tanta differenza è tra la felicità del comporre e la sottigliezza del disputare. Nondimeno nell’assegnare i nomi a’ caratteri, egli non fece grande stima dell’autorità d’Aristotele, il qual nel terzo della Retorica riprese coloro che trasportavano questo nome di magnificenza da’ costumi all’elocuzione ; o per aventura non si ricordò d’aver ciò letto ; ma più sicuramente si chiamerebbono le forme semplici co’ nomi opposti, cioè alto e basso, se la bassezza non fosse vizio. Ma questa è lite de’ nomi, e, purch’intendiamo e siamo intesi, poco importa comunque sian detti. Dicansi dunque o caratteri, come gli nomina Demetrio, o generi, come Marco Tullio, o specie o forme, come son dette dall’uno e dall’altro, o idee, come le disse Ermogene e, prima di lui, Plutarco. Ma la forma si può difinire l’effigie del parlare, e ’l carattere il segno. Chiamandosi generi, pare che le spezie quasi più minute sotto a lui sian contenute. Laonde se le forme sono spezie, conviene che sian soggette al genere. E se ciò è vero, il sublime e l’alto genere avrà, come sue spezie, la grande, la bella, la splendida, la grave forma e quella ch’è piena di dignità, e l’aspra, l’affettuosa e la veemente ; il mediocre : la graziosa, la soave, la dolce, la piacevole, l’ornata e la fiorita ; l’umile : la chiara o ver la facile, la semplice, l’acuta, la sottile, la motteggevole o ver quella che move a riso, e altre simiglianti. Benché Giulio Cesare da la Scala abbia voluto che alcune di queste siano più tosto affetti che spezie, perché, se fossero spezie, sarebbon separate per differenze contrarie ; ma aviene altrimenti, come egli estima, perché la chiarezza e la bellezza sono necessarie ad ogni sorte d’orazione, ma la grandezza non a tutte. Nondimeno, per l’opinione de gli antichi si potrebbe replicare ch’ai parlar degli oracoli e a quel che s’usa ne’ misteri non è necessaria la chiarezza, né la bellezza nel parlar di colui che vitupera e che rimprovera altrui le sue colpe. Laonde Beatrice, nel riprender Dante, non usò questa forma quando ella disse :
O tu che ancor di là del fiume sacro................................per udir se’ dolente, alza la barba ;
del che egli s’avide ; però soggiunse :
e quando per la barba il volto prese,ben conobbi il velen dell'argomento.
Ma molto meno usò questa forma il Boccaccio nel riprender la vedova che l’aveva schernito ; anzi raccolse i più sozzi vocaboli e i più vili ch'usasse il popolo fiorentino, come fece Dante ancora spesse fiate nell’Inferno, cioè nel primo canto del suo poema : perché si fece lecito di riprendere e di morder le persone co ’l proprio nome, sì come s’usava nella comedia vecchia; benché per altra cagione ancora li potè dare questo nome, come altrove ho detto.
[15] Ma lasciando questa questione da parte, io dico che le forme si mescolano insieme in guisa ch’è diffidi cosa trovarle mai separate, eccettuatene quelle che sono contrarie. Talché possiamo assomigliare il parlare ad una cera, la qual prende diversi segni e diverse figure. Ma le parole sono imagini de' concetti, i quali sono nell’animo nostro, come dice Aristotele ; e i concetti delle cose che son fuori dell’intelletto. Le parole adunque sono imagini dell’imagini, però deono assomigliarli ; e benché il concetto, il quale è quasi un parlare interno, sia fatto in uno instante, le parole nondimeno sono pronunziate in qualche tempo; e ’l tempo è numero, laonde il numero ancora si dee considerare nelle parole. Tre condizioni dunque concorrono in queste che noi dimandiamo forme del parlare : le parole (quasi materia che dee ricever la forma), il numero, e ’l concetto, o sentenza che vogliam dirla. Consideriam dunque quali parole, quai numeri e quai concetti alle forme sian più convenienti, e poi andremo ricercando quai figure sian proprie di ciascuna. Io non ho fatta menzione delle cose, perché Demetrio ancora disse che la magnificenza consisteva in queste tre : cioè nella sentenza, nella elocuzione e nella composizione delle parole conveniente, dalla quale nasce il numero. Ma dapoi considerò la quarta condizione, dicendo che la magnificenza era nelle cose, ove si tratti e descriva alcuna grande e illustre battaglia terrestre o navale, e dove si ragioni del cielo e della terra. Della qual opinione fu ancora Nicia pittore, il qual volle che l’argumento non fosse picciola parte dell’arte del dipingere, perché alcuno, dipingendo cosa somigliante, dee mostrar molte figure de cavalli, de’ quali alcuni corrano, altri caggiano, altri stiano dritti, molte ancora de cavalieri, i quali saettino o caggiano dai cavallo saettando ; ma gran fallo commetterebbe se quasi spezzasse l’arte in molte minutissime parti, dipingendo fiori e ucelletti. Ma gli essempi non si ritrovan più belli o maggiori che ne’ versi di Virgilio ; della battaglia terrestre in quelli :
anceps pugna diu, stant obnixa omnia contra ;haud aliter Troianae acies aciesque Latinaeconcurrunt : haeret pede pes, densus viro vir.At parte ex alia, qua saxa rotantia lateintulerat torrens arbustaque diruta ripis,Arcadas insuetos acies inferre pedestresut vidit Pallas Latio dare terga sequaci etc.;
e in quelli altri del medesimo poeta :
Caedicus Alcathoum obtruncat, Sacrator Hydaspem,Partheniumque Rapo et praedurum viribus Orsem,Messapus Cloniumque Licaoniumque Ericaten,illum infrenis equi lapsu tellure iacentem,hunc peditem. Pedes et Lycius processerat Agis,quem tamen haud expers Valerus virtutis avitaedeicit ; Atronium Salius Saliumque Nealces,insignis iaculo et longe fallente sagitta.Tura gravis aequabat luctus et mutua Mavorsfunera ; caedebant pariter pariterque ruebantvictores victique, neque bis fuga nota nec illis,
e quel che segue Molti altri essempi e quasi vive imagini della battaglia terrestre sono nel divin poeta ; ma la navale è figurata nello scudo, come si legge :
Haec inter tumidi late maris ibat imagoaurea, sed fluctu spumabant caerula cano ;et circum argento clan delphines in orbemaequora verrebant caudis aestumque secabant.In medio classeis aeratas, Actia bella,cernere erat, totumque instructo Marte videresfervere Leucatem, auroque effulgere fluctus.Hinc Augustus agens Italos in praelia Caesarcum patribus populoque, penatibus et magnis diisstans celsa in puppi ; geminas cui tempora flammaslaeta vomunt patriumque aperitur vertice sydus.Parte alia ventis et divis Agrippa secundisarduus agmen agens, cui, belli insigne superbum.tempora navali fulgent rostrata corona.Hinc ope barbarica variusque Antonius armis,victor ab Aurorae populis et littore rubro,Aegyptum viresque Orientis et ultima secumBactra vehit, sequiturque (nefas) Aegyptia coniux.Una omnes ruere et totum spumare reductisconvulsum remis rostrisque stridentibus aequor.Alta petunt, pelago credas innare revulsasCycladas, aut montes concurrere montibus altos,tanta mole viri turritis puppibus instant.>Stuppea fiamma manu telisque volatile ferrumspargitur.
Ma l’essempio delle cose del cielo e della natura si vede in quelli altri del medesimo poeta :
Principio caelum et terras camposque liquenteslucentemque globum lunae Titaniaque astraspiritus intus alit totamque infusa per artusmens agitat molem et magno se corpore miscet.
Ma per la medesima cagione suol esser la magnificenza ne’ versi de’ nostri poeti, come in quelli di Dante :
La gloria di colui che tutto moveper l’universo penetra e risplendein una parte più e meno altrove.
Le cose adunque possono ancora accrescer la magnificenza, quantunque Giulio Cesare Scaligero porti contraria opinione, dicendo che non è necessario che nel carattere grande sian grandi le cose, e nel sottile sottili, ma che basta nel poeta l’usar parole scelte, sonore, depinte, e la composizione delle cose numerosa. Ma in queste parole doppiamente s’inganna : prima perché lascia a dietro i concetti e le sentenze, il qual errore è insopportabile, dapoi perché esclude le cose. Ma questo errore più facilmente può esser perdonato, perciò che le cose picciole possono esser trattate con grand’ornamento, come trattò Virgilio quelle dell’api, dicendo :
Protinus aerii mellis caelestia donaexequar ; hanc etiam, Maecenas, aspice partem.Admiranda tibi levium spectacula rerummagnanimosque duces totiusque ordine gentismores et studia et populos et praelia dicam.In tenui labor, at tenuis non gloria, si quemnumina laeva sinunt auditque vocatus Apollo.
Ne’ quai versi il poeta, formandosi nell’animo il concetto o d’una città o d’un essercito ch’abbia legge, costume e studii, e popul i e duci magnanimi, agevolmente usò parole gravi e ornate. Né basta che il numero e le parole siano sonore e depinte se non corrispondono i concetti e le sentenze, perché già abbiam detto che le parole sono imagini delle passioni dell’animo ; ma le imagini deono esser simili all’imaginato. Tutta volta i concetti ancora sono imagini delle cose ; e quantunque le cose concorrano egualmente alla grandezza della forma, nondimeno Demetrio Falereo dice che le cose ampie si deono dire ampiamente, e tutte l’altre deono esporsi con parole acconcie e proprie del concetto ; e facendosi altrimenti par che si scherzi. Laonde nelle materie gravi non è lecito che le parole discordino dalle cose, benché alcuni stimassero che sia gran segno d'eloquenza il dir le cose picciole altamente. Ma ciò si concede per gioco o per altra cagione ; e perché scherzava, fu lodato il Berno quando egli disse :
Dal più profondo e tenebroso centrodove ha Dante alloggiato i Bruti e i Cassi,fa’, Florimonte mio, nascere i sassila vostra mula per urtarvi.
Di quella opinione fu Giulio Camillo, il quale scrisse nella sua orazione Dell’eloquenza queste parole : At in ìisdem libris, ut humilia mirabiliter dicantur, his verbis praecipit :
« In eloquentia autem multa sunt quae teneant ; quae si omnia summa non sunt, et pleraque tamen magna sunt, necesse est ea ipsa quae sunt, mirabilia videri»
. Ma da queste parole di Cicerone nell'Oratore io raccoglio più tosto che non solamente le cose grandissime, ma le grandi ancora, benché non sian le somme, possono ricever meraviglioso ornamento ; né Marco Tullio portò opinione lontana da questa. Lasciamo dunque co’ suoi seguaci Giulio Camillo e Giulio Cesare da la Scala, il quale più tosto dovrebbe esser seguito in un’altra opinione, estimando egli che l’umiltà di Virgilio nello stile sublime, cioè nell’Eneide, sia differente da quella della Buccolica in spezie, ma l’altezza dalla umiltà dell'Eneide sia diversa non di spezie, ma di modo. Più sicuramente nondimeno si può affermare che il temperato e ’l sublime e l'umile dell’eroico non sia il medesimo con quelli de gli altri poemi ; e se fosse pur lecito al poeta usar lo stil dimesso nell’epopeia, non dee però inchinarsi a quella bassezza ch’è propria de’ comici, come fece l’Ariosto quando egli disse :
Ch’a dir il vero, egli v'avea la gola ;......................................e riputata avria cortesia sciocca,per darla altrui, levarsela di bocca ;
e in quelli altri :
E dicea il ver ; ch’era viltade espressa,conveniente ad uom fatto di stucco,...................................che tutta via stesse a parlar con essa,tenendo l’ale basse com’un cucco.
Troppo, per dir il vero, sono vili e disonesti questi modi, e per la bruttezza della cosa che si mette avanti a gli occhi, o che s’accenna, non convengono al poeta eroico. Di questo numero sono ancora quegli altri :
e fe’ raccorre al suo destrier le penne,ma non a tal che più l’avea distese.Del destrier sceso, a pena si ritennedi salir altri.
E come c’insegna Marco Tullio nel libro Del perfetto genere dell’oratore : In tragoedia comicum vitiosum est, et in comoedia turpe tragicum. Laonde, essendo questi modi convenienti alla comedia, son disconvenevolissimi a la tragedia, e nell’epopeia o nel poema eroico parimente. E perch’è maggior conformità tra il lirico e l’epico, non s’abbassò alla mediocrità lirica senza decoro, ma seguì l’essempio di Catullo in quelli altri :
La verginella è simile a la rosa,ch’in bel giardin su la nativa spinamentre sola e sicura si riposa,né gregge né pastor se le avvicina ;l’aura soave e l’alba ruggiadosa,l’acqua, la terra al suo favor s’inchina :gioveni vaghi e donne innamoratebramano averne e seni e tempie ornate.
Il qual fu poi imitato nel suo Canzoniere con molta convenevolezza da monsignor della Casa :
Qual chiuso in orto suol purpureo fiore,cui l’aura fresca e 'l sol tepido e ’l riocorrente nutre, aprir tra l’erba fresca etc.
Lo stile eroico adunque non è lontano dalla gravità del tragico né dalla vaghezza del lirico, ma avanza l’uno e l’altro nello splendore d’una meravigliosa maestà. Non è disconvenevole nondimeno al poeta epico ch’uscendo alquanto da’ termini di quella sua illustre magnificenza, alcuna volta pieghi lo stile alla gravità del tragico, il che fa più spesso, alcun’altra al fiorito ornamento del lirico, il che fa più di rado.
[16] Ma lo stile della tragedia, quantunque descriva avenimenti illustri e persone reali, per due cagioni dee esser meno sublime e più semplice dell’eroico : l’una, perché suol trattar materie più affettuose ; e l'affetto richiede purità e semplicità, perch’in tal guisa è verisimile che ragioni uno che sia pieno d’affanno o di timore o di misericordia o d’altra simile perturbazione. L’altra cagione è che nella tragedia non parla mai il poeta, ma sempre coloro che sono introdotti agenti e operanti ; a’ quali si dee attribuire una maniera di parlare men disusata e men dissimile dall’ordinaria. Ma ’l coro per aventura dee parlar più altamente, perch’egli, come dice Aristotele ne’ Problemi, è quasi un curatore ozioso e separato ; e per l’istessa ragione parla più altamente il poeta in sua persona, e quasi ragiona con un’altra lingua, sì come colui che finge d'esser rapito da furor divino sovra se medesimo. Ma lo stile del lirico non è pieno di tanta grandezza quanta si vede nell’eroico, ma abonda di vaghezze e di leggiadria, ed è molto più fiorito: perché i fiori e gli ornamenti esquisiti sono propri della mediocrità, come c’insegna Marco Tullio nell'Oratore; e Pindaro prima di lui nominò gli ornamenti della sua poesia hymnorum flores. Le materie ancora il ricercano, e la persona del poeta. che quasi mai non si nasconde ; ma se le cose fossero piene d'affetti e di costumi, sarebbono per aventura contente di minor ornamento, o non vorrebbono i medesimi, perciò che non tutte le figure convengono a tutte le forme nella medesima composizione di parole, ma alcune sono più convenevoli all’una ch’all'altra, com’estima Demetrio. Ora seguirò questa opinione, lasciando quella del Trapezunzio, che tutte le figure siano usate in tutte le forme, non perch’io voglia imporre alcuna necessità a gli altri o a me stesso, ma perché l’ammaestramento non mi par soverchio, né degno d’essere disprezzato.
LIBRO QUINTO
[1] Fra i più cari e preziosi doni fatti da Iddio a la natura umana è stato quello del parlare, il quale nella dignità e nell’eccelenza si pareggia quasi a la ragione. Però tra’ Greci ebbero l'istesso nome di λόγος, nome che significa l’uno e l’altra parimente ; e quantunque la ragione sia quella che ci distingua da gli animali bruti e ci faccia simili all’intelligenze e alle nature divine, nondimeno, per opinione di molti filosofi, fu creduto che gli animali participassero di ragione ; e Aristotele medesmo, nell'Istoria loro e ne’ libri De la generazione e De le parti, attribuisce alle fere l’ingegno e l’avvedimento e la prudenzia ; ma nel parlare esse non hanno con gli uomini alcuna convenienza, se già non vogliam credere a le favole d’Apollonio Tianeo e alla maravigliosa filosofia di Porfirio. Però par che la favella separi l’uomo principalmente da le bestie, e il faccia lor superiore e quasi re e principe degli animali. Anzi, se fu mai alcun tempo nel quale egli pacificamente a le bestie signoreggiasse, ciò solamente avenne per virtù del parlare. Taccio quel che si favoleggia d’Orfeo e d’Anfione, i quali, se crediamo a Marco Tullio, in quelli antichissimi secoli con la virtù de l'eloquenza raccolsero insieme gli uomini che prima viveano vita salvatica e bestiale ; ma non debbiam dubbitare che l’uomo non fosse colui che prima imponesse i nomi a’ bruti e, chiamandoli imperiosamente, in virtù de’ nomi gli facesse obbedienti al suo imperio, come si legge in Filone Ebreo e negli scrittori de le sacre lettere. È dunque nobilissimo dono del primo donatore il parlare, ch’altrimenti si dice elocuzione, e potentissimo ministro de l’intelletto e vero interprete dell’animo nostro. Però l’eloquenza, che prende il nome da l’elocuzione, non cede a la prudenza, se fosse possibile che l’una e l’altra si separasse, avegnaché molti uomini prudenti, privi di questo dono, furono esclusi dal governo de’ regni e de le republiche e riputati quasi infanti. Grande è stato adunque l'errore di coloro ch’esistimarono che l’elocuzione non fosse propia dell’oratore e dell’eloquente, ma parte che si concede all’istrione ; fra’ quali fu monsignor Antonio Bernardi, cognominato il Mirandulano. Si fondava questo filosofo sovra l’autorità d’Aristotele, o che gli pareva, raccogliendo da le sue parole nella sua Retorica a Teodette ch’oltre l’entimema e l’essempio, co’ quali persuade l’oratore, l’altre cose siano accessorie e quasi estrinseche da l'arte sua, come quelle che per se stesse non persuadono né fanno alcuna prova, ma servono a commover gli animi degli uditori. Aristotele nondimeno ne la Poetica assegna quattro parti di qualità a la tragedia, che sono propie di quell’arte : fra le quali numera l’elocuzione ; e a queste aggiunge le due estrinsece, che sono la musica e l'apparato. Ma se l’elocuzione è parte del poeta e non de l’istrione, tuttoché l’istrione sia ordinato a’ servigi de la poesia, è ragionevole e quasi necessario che sia parte ancora de l’oratore, il quale non ha alcun commercio con l’istrione. Aristotele medesimo conobbe quanta virtù di persuadere consista nelle parole ; laonde se la retorica è una arte la qual considera e ritrova tutto quello ch’è atto al persuadere, dee principalmente essere investigatrice e quasi giudice de l’elocuzione e di quelle forme del dire che sono più acconce alla persuasione, com’io mi sforzerò di provare quando tratterò di tutta l’eloquenza, in quanto in lei si contengono quasi egualmente gli ammaestramenti de’ poeti e de gli oratori e de gli istorici e de’ filosofi ancora che vogliono scrivere e parlare con alcuno ornamento. Ora mi basti di confermare che la poesia è una arte subordinata alla logica, o veramente una sua parte, non solamente perch’ella è arte de l’orazione, la qual cerca il diletto non altrimente che la grammatica il regolato parlare, e la retorica la persuasione, ma perché nel parlar poetico, il quale non è senza imitazione, è una tacita prova e molte volte efficacissima ; perché non si può imitare senza similitudine e senza essempio, ma ne l’essempio e in ogni cosa che paia verisimile è la prova.
[2] Seguendo adunque il trattar dell’elocuzione, io dico che la lunghezza de’ membri e de’ periodi, o delle clausule che vogliam dirle, fanno il parlar grande e magnifico non solo nella prosa, ma nel verso ancora, come in quelli :
Tu c’hai, per arricchir d’un bel tesauro,volte l’antiche e le moderne carte,volando al ciel con la terrena soma,sai da l’imperio del figliuol di Marteal grande Augusto che di verde laurotre volte trionfando ornò la chioma,ne l’altrui ingiurie del suo sangue Romaspesse fiate quanto fu cortese ;
e in quelli altri :
Quel che d’odore e di color vinceal’odorifero e lucido oriente,frutti, fiori, erbe e frondi, onde il ponented’ogni rara eccellenzia il pregio avea,dolce mio lauro, ove abitar soleaogni bellezza, ogni virtute ardente,vedeva a la sua ombra onestamenteil mio signor sedersi e la mia dea ;
e in quegli altri :
Quand’io mi volgo in dietro a mirar gli annic’hanno, fuggendo, i miei pensieri sparsi,e spento il foco ov’agghiacciando i’ arsi,e finito il riposo pien d'affanni,rotta la fé de gli amorosi inganni,e sol due parti d’ogni mio ben farsi,l’una nel cielo e l’altra in terra starsi,e perduto il guadagno de’ miei danni,io mi riscuoto.
In queste rime è cagione di grandezza ancora il senso che sta largamente sospeso : perché aviene al lettore com’a colui il qual camina per le solitudini, al quale l’albergo par più lontano quanto vede le strade più deserte e più disabitate ; ma i molti luoghi da fermarsi e da riposarsi fanno breve il camino ancora più lungo.
[3] L’asprezza ancora della composizione suol esser cagione di grandezza e di gravità, come in quel verso :
Come a noi il sol, se sua soror l’adombra ;
o ’n quelli altri:
né gran prosperità il mio stato avversopuò consolar del suo bel spirto sciolto ;
e in quelli :
ch'ogni dur rompe, ed ogni altezza inchina ;
e in quelli :
Ella si sta pur come aspr'alpe a l’aura.
Il concorso delle vocali ancora suol producere asprezza o piacevol suono, come in quel verso :
fu consumato, e ’n fiamma amorosa arse ;
e in quelli altri di Dante, ne’ quali non s’inghiottono le vocali, ma si fa quasi una apertura e una voragine :
poi è Cleopatra lussuriosa ;
e in quello :
là onde il Carro già era sparito ;
e in quelli altri :
Queste parole di colore oscurovidi io scritte al sommo de la porta ;
Nel ciel che più de la sua luce prendefui io etc.,
quantunque il concorso dell’i non faccia così gran voragine o iato come quello dell’a e de l’o, per cui sogliamo più aprir la bocca. Tutte queste cose sogliono senza dubbio esser cagion de' medesimi effetti, perché la composizione molle ed eguale è forse più cara e piacevole a gli orecchi, ma non ha luoco nella magnificenza ; però fu molto schifata da monsignor della Casa, perché quel di Dante io non mi risolvo a dire se fosse o artificio o caso ; l’uno e l’altro nondimeno sono somiglianti a colui ch’intoppa e camina per vie aspre ; ma questa asprezza sente un non so che di magnifico e di grande.
[4] I versi spezzati, i quali rientrano l’uno nell’altro, per la medesima cagione fanno il parlar magnifico e sublime, come quelli :
I dì miei, più leggier che nessun cervo,fuggir com’ombra, e non vider più benech’un batter d’occhio, e poch’ore serene,ch’amare e dolci ne la mente servo ;
e in quelli parimente :
Ora hai fatto l’estremo di tua possa,o crudel Morte ; or hai il regno d’Amoreimpoverito ; or di bellezza il fioree ’l lume hai spento, e chiuso in poca fossa.
In molti altri sonetti ancora del Petrarca, in molti del Bembo, in molti di monsignor della Casa si può osservar il medesimo, ma particolarmente in quello :
O sonno, o de la queta, umida, ombrosanotte placido figlio ; o de’ mortaliegri conforto, oblio dolce de’ malisì gravi ond’è la vita aspra e noiosa ;soccorri a l’alma ornai, che langue e posanon ave, e queste membra stanche e fralisolleva ; a me te ’n vola, o sonno, e l’alitue brune sovra me distendi e posa.
[5] Ma oltre tutte le cose che facciano grandezza e magnificenza nelle rime toscane è il suono, o lo strepito per cosi dire, delle consonanti doppie che nell’ultimo del verso percuotono gli orecchi, come in quel sonetto lodatissimo dal Bembo :
Mentre che 'l cor da gli amorosi vermifu consumato, e 'n fiamma amorosa arse,di vaga fera le vestigia sparsecercai per poggi solitari ed ermi ;
e in quell’altro :
Al cader d’una pianta che si svelsecome quella che ferro o vento sterpe,spargendo a terra le sue spoglie eccelse,mostrando al sol la sua squallida sterpe,vidi un’altra ch’Amor obietto scelse,subietto in me Calliope ed Euterpe ;che ’l cor m’avinse, e proprio albergo felse,qual per tronco o per muro edera serpe ;
e in quegli altri versi d’una canzone :
A le pungenti, ardenti e lucide arme,a la vittoriosa insegna verde,contra cui in campo perdeGiove ed Apollo e Polifemo e Marte.
Conviene ancora ordinare i nomi in guisa che gli ultimi vadano sempre accrescendo, come si conosce nell’essempio pur ora addotto :
A le pungenti, ardenti e lucide armi ;
e in quell’altro :
Il dì s’appressa, e non potè esser lunge,sì corre il tempo e vola.Vergine unica e sola,e ’l cor or conscienzia or morte punge ;
e in quel mio :
né tanto scoglio in mar, né rupe alpestra,né pur Calpe s’inalza o ’l mauro Atlante.
E ciò conviene particolarmente osservar nell’iperbole o nello smoderamento, nel qual le cose dette in ultimo tanto deono esser accresciute che le prime ci paiano picciole, quantunque fossero grandi per se stesse, come ci mostrò Omero prima degli altri in que’ versi del Ciclope, ne' quali dice ch’egli non è pare a gli uomini c’hanno il nutrimento dalla terra, ma ad uno scoglio o a un colle selvaggio, anzi ad un alto monte che superi gli altri monti :
. . . . . . . . οὐδὲ ὲᾠκειἀνδρί υε σιτοφάγῳ, ἀλλὰ ρίῳ ὑλήεντι etc.
[6] Le congiunzioni ancora, essendo raddoppiate, alcuna volta accrescono forza al parlare, come in quel verso di Dante :
S’io avessi le rime ed aspre e chiocce ;
e in quell’altro del Petrarca :
fe’ mia requie a’ suoi giorni e breve e rara ;
e ’n quelli altri :
più leggiera che ’l vento,e reggo e volvo quanto al mondo vedi ;al tuo nome e pensieri e ’ngegno e stile.
[7] Alcuna volta ancora la dissoluzione, ch’è contraria alla congiunzione, fa il parlar grande e più magnifico, come in que’ versi :
Cercar m'ha fatto deserti paesi,fiere e ladri rapaci, ispidi dumi,dure genti e costumi,ed ogni error che ’ pellegrini intrica,monti, valli, paludi e mari e fiumi,mille lacciuoli in ogni parte tesi ;
ne’ quali il parlar non è affatto disciolto, ma pur vi mancano molte congiunzioni. Ma con maggiore artificio la dissoluzione accresce grandezza in quelli altri :
Fammi sentir di quell’aura gentiledi fuor, s' come dentro ancor si sente ;la qual era possente,cantando, d’acquetar gli sdegni e l'ire,di serenar la tempestosa mentee sgombrar d’ogni nebbia oscura e vile,ed alzava il mio stile etc. ;
e ne la seguente stanza :
Fa’ ch’io riveggia il bel guardo, ch’un solefu sopra il ghiaccio ond’io solea gir carco ;fa’ ch'io ti trovi al varco,onde senza tornar passò il mio core ;prendi i dorati strali, e prendi l’arco,e facciamisi udir, sì come sòle,co ’l suon de le parolene le quali io imparai che cosa è amore ;movi la lingua, ov’erano a tutte oredisposti gli ami ov’io fui preso, e l’escach’i’ bramai sempre ; e i tuoi lacci nascondifra i capei crespi e biondi,ché ’l mio volere altrove non s’invesca ;spargi con le tue man le chiome al vento,ivi mi lega, e puommi far contento.
Ho detto con maggior artificio perché, numerando molte cose, è meglio raddoppiar le congiunzioni, come ci ammonisce Demetrio Falereo, perché l’istessa congiunzione replicata dimostra un non so che d’infinito. Ma questa considerazione non ebbe peraventura il Petrarca in que’ versi :
Non Tesin, Po, Varo, Arno, Adige e Tebro,Eufrate, Tigre, Nilo, Ermo, Indo e Gange,Tana, Istro, Alfeo, Garona e ’l mar che frange,Rodano, Ibero, Ren, Sena, Albia, Era, Ebro.
Tutta volta al Petrarca ciò poteva lecito esser per un’altra cagione, perché il numerar senza congiunzione par che dimostri la fatica del numerare, rimovendosi le parole quasi soverchie. Anzi se la congiunzione fa una cosa di molte, come dice Aristotele, rimovendosi quel ch’è uno per sé, parrà uno esser molte cose, e maggiormente apparirà la moltitudine ; e oltre a ciò il parlar usato in questi versi è di maggior suono e di maggior pienezza. Laonde, benché si debba considerar la ragion di Demetrio, più si dee stimar quella d’Aristotele istesso.
[8] L’antipallage similmente, che si può dire mutazione de’ ca>i, può accrescer la magnificenza del parlare, come in que' versi del Petrarca nel primo Trionfo d’Amore :
Que’ duo pien di timore e di sospetto,l’uno è Dionisio, e l’altro è Alessandro ;
e in que’ della mia tragedia :
e ’ duo Pesci lucenti il petto e ’l tergo,l’uno al Borea inalzarsi e l'altro scendere ;
perché, secondo la diritta forma del parlar, si dovrebbe dire : « de’ duo Pesci lucenti l’uno al Borea inalzarsi ». E questa medesima figura, o simile, è forse in quegli altri del Petrarca :
Due rose fresche e colte in paradiso......................................bel dono, e d’uno amante antico e saggio etc. ;
perché il dritto uso del parlare ricercherebbe che si dicesse : « Un bel dono di due rose fresche, fra duo minori egualmente diviso, fece cangiare il viso a l’uno e all’altro ». Ma senza dubbio nella mutazione de’ casi, quanto più ci allontaniamo dall’uso commune, tanto lo stile diviene più nobile e più sublime.
Porta ancora grandezza nelle figure il non fermarsi ne’ medesimi casi, come in que’ versi del Petrarca che si leggono ne’ Trionfi :
Con questi due cercai monti diversi,andando tutti e tre sempre ad un giogo ;a questi le mie piaghe tutte apersi.Da costor non mi può tempo né luogodivider mai, si come spero e bramo,in fin al cener del funereo rogo.Con costor colsi il glorioso ramo,onde forsi anzi tempo ornai le tempie.
[9] E ’l cominciar il verso da casi obliqui suole esser cagione del medesimo effetto nel parlare, il quale si può chiamar obliquo o distorto, come in que’ versi :
Del cibo ond’il signor mio sempre abonda,lacrime e doglia, il cor lasso nudrisco ;
e in quelli altri :
La sera desiar, odiar l'aurorasoglion questi tranquilli e lieti amanti ;
e in quegli altri similmente :
A qualunque animale alberga in terra,se non se alquanti c’hanno in odio il sole,tempo da travagliar è quanto è ’l giorno.
[10] E ’l duplicare le parole ancora è ornamento ch’arrichisce e fa magnifica la poesia ; e possono addursi per essempio que’ versi :
Veramente siam noi polvere ed ombra,veramente la voglia cieca e ’ngorda,veramente fallace è la speranza.
Ma in altri modi ancora si posson replicar le parole, cioè non cominciando la replica dal principio, ad imitazione del Petrarca, il qual disse :
Nestor, che tanto seppe e tanto visse.
E si possono replicare in due versi seguenti, come io replicai in un mio sonetto al signor Pietro Antonio Caracciolo :
Ma che ? La mia Fortuna è la mia Parca ;perché Febo m’è scarso, e secco il fonteio ritrovo in Parnaso, e secco il lauro.
Ma particolarmente gonfia il parlare la voce raddoppiata s’ella sarà grande per significazione o per suono, come quella :
Di qua da lui, chi fece la grand’arca,e quel che cominciò poi la gran torre.
[11] Ha del grande ancora l’allegoria ; però fra tutte le canzoni del Petrarca si può dare il principato a quella :
Nel dolce tempo della prima etate ;
ma da una stanza sola si posson conoscer l'altre :
Ella parlava sì turbata in vistache tremar mi fea dentro a quella pietra,udendo : « I’ non son forse chi tu credi ».E dicea meco : « Se costei mi spetra,......................................a farmi lagrimar, signor mio, riedi »,
e quel che segue. E la medesima grandezza si può conoscere nell’allegoria di quell’altra canzone :
D'un bel diamante quadro, e mai non scemo,vi si vedea nel mezzo un seggio alteroove, sola, sedea la bella donna :dinanzi, una colonnacristallina, ed ivi entro ogni pensieroscritto, e fuor tralucea sì chiaramenteche me fea lieto, e sospirar sovente.
Ma altissima, oltre tutte l’altre di questa e d’ogn’altra lingua, è quella allegoria de la statua ch’avea la testa d’oro, e il petto d’argento, e l’altre parti di ferro e rame, e ’l piè di terra cotta, quantunque Dante la prendesse dalla sacra scrittura. Simile a questa è l’altra nel Purgatorio, dopo l’invocazione :
Or convien Elicona per me versi,ed Urania m’aiuti co ’l suo coroforte cose a pensar mettere in versi.Poco più oltre sette alberi d’oro etc. ;
anzi tanto maggiore quanto la dignità della Chiesa è maggior di quella dell’Imperio. E raggionevolmente fu detto che l’allegoria fosse simile alla notte e alle tenebre ; laonde ella dee esser usata ne’ misteri, e per conseguente ne’ misteriosi poemi, come è il poema eroico. Però molte cose sono scritte dell’allegoria d’Omero, e particolarmente Porfirio compose un picciol libretto dell’antro d’Omero. Aristotele non fa menzione dell’allegoria, non perch’egli non la conoscesse, ma perché questo nome allora non era in uso. La conobbe Platone similmente, ma non la chiamò con questo nome quando egli disse nel Fedro, ragionando in persona di lui e di Socrate :
FEDRO. O Socrate, pensi che questa favola sia vera ? SOCRATE. Già s’io no ’l pensassi, come pensano i savi, non sarebbe però sconvenevole la mia opinione. Dapoi, interpretando le cose, direi che ’l vento Borea gittò dalle vicine pietre Oritia mentre scherzava con Farmacia ; e però, essendo morta in tal guisa, si finge che da Borea fosse rapita. V’è un’altra fama, che non da questo luogo, ma da un altro fosse rapita ; ma io, o Fedro, stimo queste cose assai piacevoli, ma d’uomo troppo curioso e affannato e non aventuroso, non per altra cagione se non perché gli sarebbe necessario interpretar la forma de’ Centauri e delle Chimere ; vi concorre ancora una moltitudine di Gorgoni e di Pegasi e d’altre imagini mostruose ; onde s’alcuno di queste cose porterà altra opinione di quella che si narra, e vorrà ridurre ciascuna d’esse a senso conveniente, fidandosi d’una rustica sapienza, averà bisogno d’ozio soverchio.
Ma s’egli chiama «rustica sapienza» quella di coloro ch’abitano in villa, dove Socrate non volle mai abitare, dice, per mio aviso, il vero senza alcun dubbio, perché l’investigazione di sì fatte cose conviene ad uomo poco occupato ; tutta volta Platone, che non volle interpretarle, lasciò a molti altri filosofi la cura, anzi la noia, dell’interpretazione non solo di quel suo Glauco maritimo, ma del Tartaro e de’ fiumi che passano sottoterra, de’ quali abbiamo la dichiarazione in alcuno de’ suoi interpreti e nel comento d’Olimpiodoro sovra Aristotele. Da Plotino ancora è dechiarato quel che significhino le Parche e ’l fuso fatale e ’l simolacro d’Èrcole ; anzi non è favola delle sue (che sono molte), che da varii filosofi non sia ampiamente illustrata. Possiamo adunque affermare ch’egli non biasimasse l’allegoria, ma non la nominasse né si degnasse d’esser l’interprete. Fra i primi che la nominarono fu Demetrio Falereo. Plutarco dopo lui, nel libro Dell’udire i poeti, lasciò scritte queste o somiglianti parole : « Appresso Omero tacitamente è ascosa una sorte di dottrina di non inutile contemplazione, massimamente nelle favole interposte fra le narrazioni ; le quali, con l’annotazioni de gli antichi, e, come ora dicono, con allegorie, alcuni vanno torcendo e volgendo in altro sentimento, e dicono che l’adulterio di Marte e di Venere significa che, nel congiungimento del Sole con la stella di Venere, Marte sia causa dell’adultera generazione, la qual, per la presenza del Sole e per la vicinanza, non può essere occulta». Dichiara appresso la favola del cesto di Venere, e alcune altre similmente ; e non è ricusata questa difesa de’ poeti che, fra l’altre sue, o fu ricusata d’Aristotele, o, com’io stimo, non considerata ; direi non conosciuta, ma dubito alcuna volta che l’enigma e l’allegoria non siano cose diverse ; laonde, s’Aristotele parlò dell’enigma, parlò dell’allegoria, ma con altro nome. Nondimeno se l’enigma è una questione da scherzo e giocosa, come si legge appresso Ateneo, non pare che sia una cosa medesima. Ma se gli enigmi o simboli di Pitagora non sono proposti per giuoco, ma per ammaestramento della vita, potrebbe facilmente l’enigma e l’allegoria essere l’istesso di spezie, o di genere almeno. Dell’una e dell'altro si vagliono i poeti. Con l’allegoria è difeso, anzi è lodato Omero non solamente da’ già detti scrittori, ma da molti altri, come si legge in Ateneo fra’ Greci, e fra’ Latini in Macrobio nel Sogno di Scipione, ove dechiara che significhi che Giove e gli altri iddii vadano al convito dell’Oceano. Ma infinite sono l’interpretazioni date a’ sensi misteriori de gli autori delle due lingue più famose. Nella nostra toscana favella Dante, oltre tutti gli altri, accrebbe riputazione all’allegorie, perché nel suo maggior poema non è parte che non sia allegorica ; ma egli non dechiara se stesso, benché accenni alcuna volta che ’l velo sia molto sottile. Nelle canzoni egli medesimo manifesta la sua intenzione, e nel comento c’insegna che quattro sono i sensi : il literale, il morale, l’allegorico e l'anagogico ; de’ quali il primo è assai semplice e inteso senza difficultà, il secondo è per ammaestramento de' costumi, gli altri dui servono più alla parte intellettiva ; ma 'l terzo conduce alla speculazione delle cose inferiori, il quarto a quella delle superiori, e con l’uno e con l’altro si possono scusare gli errori che sono fatti dal poeta nell’imitazione ; ma se la difesa è con qualche difetto del primo senso, e congiunta con difetto nel decoro, e con qualche bruttezza o sconvenevolezza nelle cose imitate, non è buona né lodevole difesa. Però Aristotele non la numerò fra l'altre ; e se l'allegoria fosse perfezione accidentale nel poema, non sarebbe raggionevole che potesse scusare i vizii dell’arte, che sono vizii per sé. L’enigma ancora non fu rifiutato da’ poeti, come si legge in Sofocle di quello che la Sfinge propose ad Edippo ; e Teodette nella medesima tragedia, per relazione d’Ateneo, ci descrive la notte e la giornata con questo enigma :
Germanae geminae, gignit quarum altera semperalteram, et inde parens fit filia nata vicissim.
Ma non era questo luogo di trattar dell’enigma o dell’allegoria, se non considerandoli come figure di parlare ; però soverchiamente e quasi a caso n’ho sì lungamente discorso, dovendo ciò fare in altro luogo più opportuno ; seguirò dunque il primo proponimento.
[12] Magnifica similmente è quella figura che da’ Latini è detta reticenza, perch’ella suol lasciar sospizioni di cose maggiori di quelle che son dette, bench’alcuna volta non apporti tanta magnificenza, come è quella nell’Inferno quando scende l’Angelo per aprir le porte, e Virgilio aspetta il suo venire :
Attento si fermò com’uom ch’ascolta ;che l’occhio no ’l potea menar a lungaper l’aer nero e per la nebbia folta.« Pur a noi converrà vincer la punga »cominciò ei, « se non . . . Tal ne s’offerse :oh quanto tarda a me ch’altri qui giunga ! »I' vidi ben si come ei ricoperselo cominciar con altro che poi venne,che fur parole a le prime diverse.Ma nondimen paura il suo dir dienne,perch’ i’ traeva la parola troncaforse a piggior sentenzia ch’e’ non tenne.
L'essempio ancora di questa figura è ne’ Trionfi del Petrarca in quel luogo :
Ma non si ruppe almeno ogni vel, quandosola, i tuoi detti, te presente, accolsi,« Dir più non osa il nostro amor » cantando ?
Ma gravissima oltre tutte l'altre è quella di Virgilio nell‘Eneide, nella quale Nettuno irato ritiene la colera e le parole insieme :
Quos ego . . . Sed motos praestat componere fluctus.
[13] Ma in somma l’epifonema (così la chiamano i Greci) par che avanzi tutte l’altre, e somiglia le pompe de’ ricchi, nelle quali è sempre qualche cosa la quale è soverchia. Laonde questa figura si può dividere in due parti, l’una delle quali serva all’intelligenza, l’altra all’ornamento. Serve all’intelligenza quel verso e ’l mezzo che segue :
di sé, nascendo, a Roma non fe’ grazia,a Giudea sì ;
e sono gli altri per ornamento :
tanto sovra ogni statoumiltate essaltar sempre gli piacque.
Della medesima figura la prima parte è in que’ versi :
Le stelle e 'l cielo e gli elementi a provatutte lor arti ed ogni estrema curaposer nel vivo lume, in cui naturasi specchia, e ’l sol, cli’altrove par non trova.
Ma con grandissimo ornamento seguita poi l’altra :
L’opra è sì altera, sì leggiadra e novache mortai guardo in lei non s’assecura ;tanta negli occhi bei for di misurapar ch’Amore e dolcezza e grazia piova.
E in quegli altri, se non bastano alla dechiarazione i primi :
poco vedete, e parvi veder molto,ch’ in cor venale amor cercate o fede.Qual più gente possedè,colui è più da’ suoi nemici avolto.
Gli altri abondano nella ricchezza dello stile :
O diluvio raccoltodi che deserti strani,per inondar i nostri dolci campi!
Può parer questa figura simile all’entimema, cioè allo sillogismo imperfetto, ma sono differenti : perché l’entimema s’usa per provare, e questo per adornare. Laonde più tosto si pone in suo luogo la sentenza la qual sia con l’esclamazione; e benché non sia questa figura, nondimeno occupa la sua sede, come quella :
O nostra vita, ch'è si bella in vista,com perde agevolmente in un mattinoquel ch’in molti anni a gran pena s’acquista !
Anzi, se crediamo a Teone sofista, la sentenza che dopo la narrazione d'alcuna cosa insegni e adorni, parimente è sentenza e insieme epifonema.
[14] Ma non è minor cagione di grandezza e d’ornamento, a mio giudizio, la prosopopea, nella quale si danno persona e voce e parole alle cose inanimate, come il Petrarca in que’ versi a Fiorenza :
L’aspetto sacro de la terra vostrami fa del mal passato tragger guai,dicendo : «Sta su, misero, che fai?»E la via di salire al ciel mi mostra.
E l’usar la definizione in vece del nome, come fece il Petrarca che, parlando del lauro, disse :
de l’arbor che né sol cura né gelo.
E ’l salir quasi per gradi, figura che da’ Latini è detta gradatio, e da' Greci non si convien meno al magnifico ch’al grave dicitore. L’essempio l’abbiamo in Dante :
onde la vision crescer conviene,crescer l’ardor che di quella s’accende,crescer lo raggio che da esso viene.
Ma questa è peraventura mescolata con la repetizione, o con la replica che vogliamo dirla ; semplice è quell’altra :
Noi siamo usciti fuoredel maggior corpo al ciel ch’è pura luce :luce intellettual, piena d’amore ;amor di vero ben, pien di letizia ;letizia che trascende ogni dolzore.
[15] Dice della metafora similmente molte cose Demetrio Falereo, e, seguendo il giudizio d’Aristotele, loda più quella che pone le cose in atto, com’abbiamo già conchiuso; e questa, al mio giudizio, particolarmente conviene al poeta, perciò ch’egli è imitatore; e gli convengono ancora le similitudini e le comparazioni assai più ch’all’oratore, il quale schiva le troppo lunghe, come son quelle di Dante :
un fracasso d’un suon, pien di spavento..................................non altrimenti fatto che d’un ventoimpetuoso per gli aversi ardori,che fier la selva senza alcun rattento :i rami schianta, abbatte e porta fuori ;dinanzi polveroso va e superbo,e fa fuggir le fere e li pastori.
E quelle del Petrarca nella battaglia tra madonna Laura e Amore :
Non sì fa grande e sì terribil suonoEtna qualor da Encelado è più scossa,Scilla e Cariddi quando irate sono.
Il Boccaccio vide quel ch'era conveniente, come in quella della Teseide:
né saria tal, s’aggiunto ancor qui fossequel che Lipari fece, o Mongibello,o Strongilo, o Vulcan, quando più scosse ;o quando Giove più crucciato il felloTifeo di spavento più percosse,tonando forte, non fu quanto quello.
E molte altre somiglianti se ne leggono in questi tre poeti toscani. Ma quelle più dell’altre si convengono al magnifico dicitore nelle quali non si ritrova solamente similitudine, ma l’ornamento e l'accrescimento.
[16] Oltre le forme assegnate dal Falereo a questa forma magnifica del dire, ve ne sono per aventura alcune altre egualmente da lei ricercate, fra le quali è la prima la conversione, come quella :
Rettor del cielo, io chieggioche la pietà che ti condusse in terrati volga al tuo diletto almo paese.Vedi, signor cortese,di che lievi cagion che crudel guerra.
Dapoi l’esclamazione :
O mondo, o pensier vani ;o mia forte ventura a che m’adduci !
massimamente s’ella è fatta con qualche sdegno, com’in que’ versi :
Ahi nova gente oltra misura altera,irreverente a tanta ed a tal madre !
[17] Si può annoverar con queste il pervertimento dell’ordine, quando si dice innanzi quel che devrebbe esser detto dopo ; perché al magnifico dicitore non si conviene una esquisita diligenza. Questo usò il Petrarca in que’ versi :
di là dove Amor l’arco tira ed empie ;
e in quell’altro :
Amor con tal diletto m'unge e punge.
E quando si pone per lo tutto la parte, figura che da’ Greci e da’ Latini fu detta sineddoche, come quella :
umida gli occhi e l’una e l’altra gota,
benché alcuni vogliano che sia più tosto greca construzione. E la parentesi, o interposizione che vogliamo chiamarla, come quella :
A qualunque animale alberga in terra,se non se alquanti c’hanno in odio il sole,tempo è da travagliare.
E quella ch’è da’ grammatici detta endiadys, in que’ versi :
dove vanno a gran pena uomini ed arme.
E la figura detta zeugma, la qual si fa quando il verbo o ’l nome discorda nella voce da quello a cui si rende, ma concorda nel significato ; di cui si ritrovano alcuni essempi in Virgilio :
pars in frusta secant ;
e l’altro :
Hic manus ob patriam pugnando vulnera passi.
E ’l Boccaccio nella Teseide fece questa figura nel numero, ad imitazione del primo luogo :
E ’n guisa tal, la turba sì piangenteco’ fuochi i corpi morti consumaro.
E Dante nell'Inferno fece l’altra nel genere solo :
Supin giaceva in terra alcuna gente.
E la trasportazione delle parole, perch’ella s’allontana dall’uso commune, come quella :
che ’ belli, onde mi struggo, occhi mi cela.
E 'l perturbar l’ordine naturale, posponendo quelle che doveriano esser anteposte, come :
per la nebbia entro de’ miei duri sdegni.
[18] E l'hiperbaton, che si può dir distrazione o interponimento, di cui si ha l'essempio :
Quel che d’odore e di color vinceal’odorifero e lucido oriente,frutti, fiori, erbe e frondi, onde il ponented’ogni rara eccellenzia il pregio avea,dolce mio lauro.
[19] E l’abondanza, che pleonasmo fu chiamata nell’altre lingue, a me par che mostri molta magnificenza ne’ molti aggiunti, come in quelli :
santa, saggia, leggiadra, onesta e bella ;
e in quelli altri :
A le pungenti, ardenti e lucide arme.
E alcuna particella soverchia suol far quasi il medesimo effetto ; e n’abbiamo l’essempio in quel verso :
Orso, e’ non furon mai fiumi né stagni ;
e in quel :
talché mi fece, or quando egli arde il cielo,
benché questa possa parere uso leggiadro più tosto.
[20] E quella nella qual il verbo s’accorda co ’l nome più vicino, e negli altri bisogna supplire, come :
Ivi era il curioso Dicearco,ed in suoi magisteri assai dispariQuintiliano e Seneca e Plutarco ;
cioè: «ivi erano».
[21] E commune ancora a questa figura, nella quale il numero singolare concepisce il plurale, è quella figura la quale attribuisce a duo quello ch’è proprio d’uno : ha similmente del magnifico, percioché dimostra un certo disprezzo della soverchia diligenza ; e questa fu usata da Omero quando egli disse nell’Iliade :
...........................................Βορέης καὶ Ζέφυρος, τώ τε Θρῄκηζεν ἄητον
cioè : « due venti perturbano il mare piscoso, Zefiro e Borea, i quali spirano da Tracia » ; essendo proprio di Borea solamente lo spirar da Tracia, perché Zefiro soffia dall’occaso, come vogliono i gramatici, quantunque Strabone difenda questo luogo altrimenti nel primo della Geografia, mostrando che Zefiro ancora spira dalla Tracia a coloro che sono nell’isola di Lenno e nella Samotracia. Tutta volta di questa sorte de sillepsi abbiamo altri essempi ; e in questa guisa parlò figuratamente il Petrarca dicendo :
e ’n quali spinecolse le rose, e ’n quai piagge le brine,
perché l'esser colte si conviene alle rose, ma non alle brine.
[22] E l’apposizione nella quale si congiungono due nomi sostantivi, come quella :
Arbor vittoriosa e trionfale,onor d’imperatori e de i poeti ;
e quell’altre :
rotte l'arme d’Amore, arco e saette.
[23] Oltre le quali se ne potrebbono per aventura ritrovar alcune altre conosciute da’ retori o da’ gramatici ; ma bastano quelle delle quali sin ora abbiamo ragionato, in questa forma di parlare sublime e magnifica, nella quale non abbiamo stimate le più minute divisioni e compartimenti. E perché la forma sublime e magnifica è proprio dell’eroico, e quantunque possa mescolarsi con l’altre, nondimeno il poeta eroico è detto magnifico e sublime dicitore, non sarà necessario trattar dell’altre forme così lungamente ; ma non tralasciaremo in tutto alcune figure che possono essere usate nel poema eroico, né gli altri ammaestramenti i quali deono esser da lui considerati. Nel parlar ornato e grazioso (ch'in questo modo voglio chiamar quello che di Latini è chiamato «venusto», e da’ Greciγλαφυρός) sono alcune piacevolezze e alcuni scherzi e giuochi per così dire, maggiori e più nobili, che sono propri de’ poeti lirici, altri più umili, che si convengono alla comedia. Scherzi convenienti a’ poeti lirici son quelli meravigliosi:
qual fior cadea su ’l lembo,qual su le treccie bionde,ch’oro forbito e perleeran quel dì a vederle ;qual si posava in terra, e qual su l'onde ;qual con un vago erroregirando parea dir : « Qui regna Amore ».
A.’ comici sono convenienti quelli che mordono, e a gli scrittori della satira parimente, e quelli ancora che non son molto lontani della buffoneria. Ma Omero usò gli scherzi per acerbità, e scherzando parve terribile ne’ suoi motti, come in quel del Ciclope :
Οὖτιν ἐγὼ πύματον ἔδομαι.
E parte di questa acerbità ritenne l’Ariosto nel suo poema, come nella spelunca dove Orlando trova Isabella, sopragiungendo i malandrini, dice un di loro :
Ecco augel nuovo,a cui non tesi, e ne la rete il trovo.
E la risposta d'Orlando muove riso con sdegno :
Sorrise amaramente, in piè salito.Orlando, e fe’ risposta al mascalzone :« Io ti venderò Tarme ad un partitoche non ha mercatante in sua ragione ».
[24] Ma le grazie particolarmente convengono alla poesia lirica, e all’eroica quasi prestate da lei, e gli imenei, gli amori e le liete selve e i giardini e l'altre cose somiglianti, delle quali è piena la poesia del Petrarca, e particolarmente quelle due canzoni :
Se ’l pensier che mi strugge,
e quell’altra :
Chiare, fresche e dolci acque ;
e quella ancora :
In quella parte dove Amor mi sprona,
la quale è piena di vaghissime similitudini, ma quella è meravigliosa oltre tutte l’altre :
Non vidi mai dopo notturna pioggiagir per l’aere sereno stelle erranti,e fiammeggiar fra la rugiada e ’l gielo,ch'i’ non avesse i begli occhi davanti,ove la stanca mia vita s’appoggia,quali io gli vidi a l’ombra d’un bel velo ;e sì come di lor bellezze il cielosplendea quel dì, così bagnati ancorali veggio sfavillar, ond’io sempre ardo.Se ’l sol levarsi sguardo,sento ’l lume apparir che m’innamora ;se tramontarsi al tardo,parmel veder quando si volge altrove,lassando tenebroso onde si move.
Ne’ Trionfi ancora la casa d’Amore è descritta con la medesima vaghezza e con la medesima felicità, come si può conoscer in que’ versi :
E rimbombava tutta quella valled’acque e d’augelli, ed eran le sue rivebianche, verdi, vermiglie, perse e gialle ;rivi correnti di fontane viveal caldo tempo su per l’erba fresca,e l’ombra folta, e l’aure dolci estive ;
e in molti altri del medesimo Trionfo. Né si dipartì da questa imitazione il Poliziano, il quale nella descrizione della casa d’Amore versò quasi tutti i fiori e tutte le grazie della poesia. Grandissima lode ancora meritò in questa maniera di poetare il signor Bernardo Tasso, mio padre, nelle canzoni, nelle sestine, nelle ode, negli inni e ne l’epitalamio fatto nelle nozze del duca Federico (il quale fu per aventura il primo che si leggesse in questa lingua), e nel suo maggior poema e in tutte l’altre sue poesie ; ma si posson legger con meraviglia la canzone della Notte, e quella nella quale loda il giorno in cui nacque Antiniana, e l’inno a Pane, e alcun’altre ch’io tralascio per brevità.
[25] Ma in questa forma di poetare al lirico e all’eroico non dee peraventura esser conceduta la medesima licenza, perciò che in ciascuna forma, oltre il numero, sono considerate l’elocuzioni e i concetti ; e non è dubbio che maggior non sia la virtù de’ concetti della bellezza delle parole ; ma quando uno discordasse da gli altri, si conoscerebbe in loro quella disconvenevolezza la qual si vedrebbe in uom di contado vestito di robba. Per ischivarla adunque, è convenevole di vestire i concetti grandi con elocuzione magnifica, sì come fece il Petrarca ; ma Dante ne’ sonetti e nelle canzoni non ebbe sempre la medesima avertenza. Ma potrebbe forse alcuno dubitare di quel che s’è detto, perché se ciò fosse vero, usando il lirico i medesimi concetti ch’usa l’eroico, lo stile dovrebbe esser l’istesso. A questo io rispondo che ’l lirico e l’eroico alcuna volta trattano peraventura delle medesime cose, cioè degli dii e degli eroi e delle vittorie, ma non usano sempre i medesimi concetti. Laonde dalla varietà de’ concetti nasce in loro la diversità dello stile, più che da quella delle cose, quantunque questa ancora non sia picciola cagione di tal diversità ; perciò che la materia del poeta lirico non è determinata, quantunque Orazio ne la Poetica gli assegnasse qualche soggetto, ma si spazia per tutte le cose e per tutte le materie proposte, come l’oratore ; e benché alcuna volta mostri timore di cantar le cose grandi, come dimostrò Orazio, tuttavolta il suo proprio soggetto sono le lodi degli iddii e degli eroi, e quelle di Bacco particolarmente ; però la poesia ditirambica fu nobilissima parte di questa poesia che melica è detta da Marco Tullio ; comunque sia, usa alcuni concetti suoi propri, che non sono così convenienti al tragico e all’epico. Non direi dunque che la poesia lirica prendesse la forma dalla dolcezza del numero, e dalla sceltezza delle parole, e dalla pittura de' traslati, e da gli altri colori, e da gli altri lumi dell’elocuzione, come alcuno ha giudicato, ma più tosto dalla piacevolezza, dalla grazia e dalla beltà de’ concetti, da’ quali trapassa alcuna volta nell’elocuzione un non so che di lascivo e di ridente.
[26] Ma consideriamo come il lirico e l’eroico poeta nelle medesime cose usino diversi concetti. Ci dimostra Virgilio la bellezza d’una donna nella persona di Didone :
regina ad templum, forma pulcherrima Dido,incessit magna iuvenum stipante caterva.Qualis in Eurotae ripis aut per iuga Cynthi etc.
Simplicissimo concetto è quello : forma pulcherrima Dido ; hanno alquanto di maggior ornamento gli altri, ma non tanto che siano soverchi. Ma se questa medesima bellezza devesse descrivere il Petrarca, non si contenterebbe di questa gravità di concetti, ma direbbe che la terra si gloria d’esser tocca da’ suoi piedi, che l’erbe e i fiori desiderano d’esser calcate da lei e che hanno riposti i suoi vestigi, che ’l cielo percosso da’ suoi dolci rai s'infiamma d’onestà e che si rallegra d’esser fatto sereno da sì begli occhi, che ’l sole si specchia nel suo volto non trovando altrove paragone ; e inviterebbe Amore che si fermasse a contemplar la sua gloria. Ma paragoniamo altri luoghi dell’uno e dell’altro, acciò che questa verità si conosca di leggieri. Descrivendo Virgilio l’abito di Venere cacciatrice, disse :
dederatque comam diffunderc ventis ;
ma il Petrarca v’aggiunse :
Erano i capei d'oro a l’aura sparsich’in mille dolci nodi gli avolgea ;
e l’uno e l’altro conobbe il convenevole nella sua poesia, perché Virgilio superò tutti i poeti eroici di gravità, il Petrarca tutti gli antichi lirici di vaghezza, e niuno più se gli avicinò del Tasso. Si loda ne l’eroico quello :
ambrosiaeque comae divinum vertice odoremspiravere.
Ma forse soverchie sariano state quell'altre vaghezze :
e tutto il ciel, cantando il suo bel nome,sparser di rose i pargoletti Amori.
Descrive Vergilio l’innamorata Didone che sempre avea fisso il pensiero nell’imaginato Enea, e dice :
illuni absens absentem auditque videtque.
Intorno all’istessa materia trova concetti meno acuti e men gravi, ma più vaghi il Petrarca :
Io l’ho più volte (or chi fia che me ’l creda ?)ne l’acqua chiara e sopra l’erba verdeveduto viva, e nel troncon d’un faggio,e ’n bianca nube si fatta che Ledaavria ben detto che sua figlia perde,come stella che ’l sol copre co ’l raggio.
E di simili concetti nell’istessa materia è quasi piena tutta quella canzone :
In quella parte dove Amor mi sprona.
Or consideriamo come Vergilio descriva il pianto di Didone :
Sic effata, sinum lacrymis implevit obortis ;
bastava tanto per una vedova. Molto maggior ornamento ne’ concetti e nelle parole cerca nel duodecimo, ponendoci innanzi gli occhi il pianto di Lavinia :
Accepit vocem lacrymis Lavinia matrisflagrantes perfusa genas, cui plurimus ignemsubiecit rubor et calefacta per ora cucurrit.Indum sanguineo veluti violaverit ostrosi quis ebur vel mixta rubent ubi lilia multaalba rosa ; tales virgo dabat ore colores.
Fioriti concetti son questi, e quasi convenevoli al lirico ; ma più meravigliosi sono quelli altri, né si converrebbono a poeta che non fosse innamorato :
Amor, senno, valor, pietade e dogliafacean piangendo un più dolce concentod’ogn’altro che nel mondo udir si soglia ;ed era il cielo a l'armonia sì intentoche non si vedea in ramo mover foglia,tanta dolcezza avea pien l’aere e ’l vento.
Semplicissimi concetti son quelli di Vergilio nel descrivere l’aurora :
humentemque Aurora polo dimoverat umbram ;Oceanum interea surgens Aurora reliquit.
Con più ornamento fu descritto il nascer dell’aurora dal Petrarca :
Il cantar novo e ’l pianger degli augelliin su ’l dì fanno risentir le valli,e ’l mormorar de’ liquidi cristalligiù per lucidi rivi freschi e snelli.
[27] Nel paragone dunque dell’eccellentissimo epico e dell’eccellentissimo lirico chiaramente si manifesta che la diversità dello stile nasce dalla diversità de’ concetti. Laonde, quando Virgilio vuol descriver le cose con grandissimo ornamento, non è agguagliato da lirico alcuno, come appare più manifestamente nella descrizione della medesima notte :
Nox erat, et placidum carpebant fessa soporemcorpora per terras, silvaeque et saeva quierantaequora, quum medio volvuntur sydera lapsu,quam tacet omnis ager, pecudes pictaeque volucres,quaeque lacus late liquidos quaeque aspera dumisrura tenent, somno positae sub nocte silenti,lenibant curas et corda oblita laborum.
Più brevemente la descrisse il Petrarca, nondimeno usò alcuni degli istessi concetti in que’ versi :
Or che ’l cielo e la terra e ’l vento tace,e le fere e gli augelli il sonno affrena,notte il carro stellato in giro mena,e nel suo letto il mar senz’onda giace.
E quinci si può raccoglier che, se l’epico e ’l lirico trattasse le medesime cose co’ medesimi concetti, adoprerebbe per poco il medesimo stile. Possiamo dunque concluder che le parole seguono i concetti, e ’l verso parimente. Ma di questa materia trattaremo nel fine del libro che segue, più lungamente.
LIBRO SESTO
[1] Il trattar delle forme in tutti modi, illustrissimo Signore, apporta seco grande oscurità e gran malagevolezza : perciò che s’altri considera le forme separate, ch’idee sono state dette da' filosofi, può di leggieri esser persuaso ch’elle o non siano, o nulla giovino a’ nostri umani artefici e all’operazioni de’ mortali ; e, se non persuaso, almen dalla contraria ragione è costretto di lasciar così alta contemplazione ; ma contemplando le forme nella materia, trova ancora grandissima difficultà, percioché la materia è cagione d’incertitudine e d’oscurità, laonde alle tenebre e a gli abissi da gli antichi filosofi fu assomigliata ; ma separandole con l'imaginazione, divien quasi bugiardo e, se pur non dice menzogna, non contempla a fine d’alcun bene. Nelle parole similmente molti dubbi apporta la contemplazione delle forme, e ’l conoscerle e ’l distinguerle è così malagevole che niuna più difficile impresa si prepone all’eloquente. Tutta volta è quasi necessario, perché la natura, o l’arte sua imitatrice, ha segnate le cose tutte de’ propi caratteri, o delle proprie note che vogliam dirle, delle quali altre sono maggiori, altre minori. Talché di acutissimo intelletto fa mestiere in descerner le più minute ; e noi l’abbiam tralasciata o come fatica poco utile, o come troppo noiosa. Ma delle maggiori abbiamo discorso ne’ precedenti, e ne tratteremo ne’ seguenti ; e quantunque il contemplar l’idea del bene fosse studio più conveniente a questa età e a questa fortuna, e io potessi farlo con maggior grazia di V. S. illustrissima, nondimeno credo che non le debba esser grave di legger quel che raggionevolmente si può conchiudere dell’idea del bello, nella quale la poesia è più intenta che in tutte l’altre. Laonde alcuni hanno creduto che questa sola fosse il segno e quasi la meta de tutti i poeti, fra’ quali è il Fracastoro. Ma considerando le sue proprietà, questo inganno di leggieri ci sarà manifesto.
[2] Molti hanno creduto che 'l diletto che nasce dalle cose piene di grazia e ’l riso sia l’istesso ; però in tutte hanno cercato di muoverlo, e tutte le scritture hanno pieno di questo loro artificio : le novelle, le lettere, l’orazioni, le satire e gli altri capitoli burleschi, le comedie e ’l poema eroico ancora hanno voluto quasi sparger di questo sale, e per poco la tragedia medesima, la qual volentieri riceve le grazie, ma è nemica del riso, come dice Demetrio Falereo. E dell’istessa natura è, per mio aviso, il poema eroico, il quale mosse per aventura un riso terribile col Ciclope ; ma nell’istesso modo poteva moverlo la tragedia d’Euripide chiamata co ’l suo nome, se pur è tragedia, e non satira, come alcuni hanno creduto; ma essendo poema tragico, è de’ meno perfetti, perché ne’ perfettissimi il riso non avrebbe per aventura alcun luogo, come non l’ha nel poema eroico, se non in quel modo che s’è detto, pieno di acerbità e di spavento e lontano dalla disonestà ; anzi questo non è propriamente riso, perché il riso nasce dalle cose brutte, senza dolore. Le parole dunque che metteno inanzi agli occhi la bruttezza, possono muover a riso ; le quali, essendo quasi imagini delle cose brutte, sono brutte parole. Ma le belle parole sono cagione di quel grazioso diletto ch’ai poeta eroico e al lirico oltre tutti gli altri è conveniente ; e conviene ancora alla tragedia, ma non tanto. Da cagioni opposte dunque nascono il riso e ’l grazioso : cioè l’uno dalle belle, e l’altro dalle brutte ; e sono differenti come Tersite e Amore. Ma l’uno e l’altro nondimeno nasce con la meraviglia, perch’ella suole accompagnare l'une e l’altre. Laonde ci maravigliamo de’ nani e delle brutte vecchie c’hanno volto di bertuccia, come avea Gabrina, e ci meravigliamo ancora della bellezza giovenile : però Laura ancora fu chiamata mostro dal suo gentil poeta :
o de le donne altero e raro mostro.
Ma benché la meraviglia nasca dall’una e dall’altra poesia, cioè da quella ch’imita le cose brutte e da quella che rasomiglia le belle, nondimeno non è cosi propria dell’una come dell’altra : perché tosto suol mancare la meraviglia delle cose brutte, le quali con la novità perdono ancora l’estimazione, ma la meraviglia delle cose belle è più durevole e di maggiore estima. E bellissimo oltre tutti gli altri poemi è l’eroico, laonde questo diletto è suo proprio. E ancora il poema eroico è magnificentissimo, e per questa altra ragione ancora le si conviene. Né per altre, s’io dritto estimo, l’opere di altissima e di regale magnificenza furono chiamate miracoli del mondo. E quantunque io non biasimi il Pontano, il qual volle che l’officio di ciascuno poeta fosse muover meraviglia, nondimeno a tutti gli altri stimo assai meno convenirsi ch'ai poeta eroico ; e se di questo solo avesse inteso il Fracastoro, non avrebbe peraventura errato soverchiamente, assonandoli per fine l’idea del bello. Ma se molte sono l’idee, e quella della magnificenza e della gravità sono differenti da quella della bellezza, a molte idee rivolge gli occhi il poeta eroico, e in questa non meno che nell’altre. E già s’è detto che le parole belle e le vaghe e le graziose sono appropriatissime a questa forma ; delle quali il Petrarca e ’l Tasso e gli altri composero le loro composizioni, intessendo gli amori e i lusignuoli e i gigli e i ligustri e le rose nella meravigliosa testura delle rime toscane ; perché in niuno altro si leggono questi nomi, o gli altri sì fatti, così spesso. Ma i concetti e le cose ancora deono essere convenienti, perché ’l poeta in damo proverebbe con la forza delle parole far ch’una Furia infernale rassomigliasse una Venere, ma dee quasi dipingere co ’l suo stile la sua donna ora in forma di ninfa, or d’altra diva
che dal più chiaro fondo di Sorga esca,
o far verdeggiare il lauro e ’l ginebro, e descriverci e quasi ponere innanzi gli occhi le selve, i colli vestiti d’alberi, e le campagne e i prati ornati di fiori, e i fonti, e i fiumi
ch’avean pesci d’argento, arene d’oro ;
e le carole delle ninfe in guisa che noi reggiamo come
su le minute arene e ’n su le spondedanzava Dori, ed Aretusa a paro..................................sovra i delfini de vermiglie rosecoronati ;
e l’altre cose che seguono o che precedeno. In due modi adunque il grazioso è differente dal ridicolo : nella materia e nell’elocuzione. La materia che muove riso è quella ch’abbiamo quasi dimostrata, e oltre a ciò le favole, come quelle d’Esopo, e l’altre note nelle satire, e l’imagini come quella del tedesco dimostrata da Cicerone. Ma delle cose che ci paion graziose abbiam già detto a bastanza.
[3] Dell’elocuzione possiamo anco ragionare. Il parlare è spesse volte grazioso per la brevità, ma, dilatandosi, perde la grazia ; e di ciò abbiamo uno essempio lodatissimo appresso Senofonte, oltre molti altri che si potrebbon raccogliere del medesimo autore e da gli altri. L’essempio è quel del fiume Teleboa, addotto dal Falareo, ad imitazione del quale io dissi parlando del Metauro :
O del grande Apenninofiglio picciolo sì, ma glorioso ;
là dove s’io avessi spiegato questo concetto con più lungo giro di parole, di leggieri avrebbe perduta ogni grazia. Assai graziosi sogliono esser per la medesima cagione i piccioli poemi, e ne’ piccioli poemi i piccioli versi, come quelli di Guido Cavalcante :
Perch’io non spero di tornar già mai,ballatetta, in Toscana,va’ tu, leggiera e piana,dritto a la donna mia,che per sua cortesiati farà molto onore.
[4] Ma le figure della forma graziosa possono più agevolmente esser ricevute dal poema eroico, e mescolate con quelle della magnificenza e con l’altre. Una fra l’altre è la repetizione, o la replica che vogliam dirla, la quale, come che sia attissima ad irritar gli animi, può esser nondimeno usata per acquistar grazia, come in quella canzone del Tasso :
E cantando diceano : « Udite, uditel’aventuroso fato di costei,mortali fortunati, età beata ».
[5] Nasce ancora dalla traslazione o dalla metafora, la quale s’accommnoda ancora in questa forma, come in que’ versi del Petrarca :
tu ’l vedi, Amor, che tale arte m’insegni.Non so s’io me ne sdegni,ch'in questa età mi fai divenir ladrodel bel lume leggiadro ;
e in quelli altri :
Una chiusa bellezza è più soave.Benedetta la chiave che s’avolseal cor, e sciolse l’alma.
[6] E dalle parole basse e volgari suol nascere alcuna volta il grazioso, e da' proverbi più che dall’altre, come nella istessa canzone del Petrarca :
Un’umil donna grama un dolce amico.Mal si conosce il fico.
[7] E dalla comparazione ancora nasce la grazia, come nella canzone ch’abbiamo addotta :
e come augello in ramo,ove men teme, ivi più tosto è colto,cosi dal suo bel voltol’involo or uno ed ora un altro sguardo ;e di ciò insieme mi nutrico ed ardo.
[8] E quella è comparazione graziosissima :
che ’l poverel digiunovene ad atto talor che ’n miglior statoavria in altrui biasmato.Se le man di pietà invidia m’ha chiuse,fame amorosa, e ’l non poter, mi scuse.
[9] E 'l dire alcuna cosa soverchia, quasi per abbondanza, suol esser fatto con leggiadro artificio, o per usanza più tosto, come quello :
talché mi fece, or quando egli arde il cielo ;
e quell’altro :
Se Virgilio ed Omero avessin vistoquel sol il qual vegg’io con gli occhi miei.
[10] Gli scherzi ancora, ch’« allusion » furono dette da’ Latini, convengono a questa forma più ch’a tutte l’altre, come è quel del Petrarca :
L’aura che ’l verde lauro e l'aureo crine ;
o quell’altro, nel quale graziosamente par che scherzi della sua vecchiezza :
o non cura, o s’infinge, o non s’accorgedel fiorir queste inanzi tempo tempie ;
e quel de’ Trionfi :
Questo è colui che ’l mondo chiama Amore ;amaro, come vedi, e vedrai meglio.
[11] Ma perché in questa forma bella e ornata si ricerca principalmente il diletto, e ’l diletto nasce dalle metafore, dall’efficacia e dall’opposizione, tutte tre son proprie di questa figura ; e particolarmente mi paion belli i contraposti, come son quelli del Bembo :
Non son, se ben me stesso e te risguardo,più da gir teco : io grave e tu leggiero ;tu fanciullo e veloce, i’ vecchio e tardo.Arsi al tuo foco e dissi : « Altro non chero »,mentre fui verde e forte ; or non pur ardo,secco già e fral, ma incenerisco e pero.
[12] E ’l render a ciascuna cosa il suo proprio, suol esser cagione di grandissimo ornamento, come in quel sonetto :
Amor m’ha posto come segno a strale,come al sol neve, e come cera al foco,e come nebbia al vento ; e son già roco,donna, mercé chiamando, e voi non cale.
[13] Ma questa figura, propria dell’ornato dicitore, è talora sprezzata dal magnifico ; però a torto fu ripreso il Caro dal Castelvetro, quando egli disse :
e tu mi desta, e tu m'avivalo stil, la lingua e i sensi,perch’altamente io ne ragioni e scriva.
[14] Bellissimi ancora sono e ornatissimi gli aggiunti i quali implicano contrarietà e contradizione, come quelli :
e dannoso guadagno ed util danno,e gradi ove più scende chi più sale ;stanco riposo e riposato affanno,chiaro disnore e gloria oscura e nigra,perfida lealtate e fido inganno.
Ad imitazione de’ quali disse monsignore della Casa :
avversità secondami diede Amore, e focom’accese al cor di refrigerio pieno ;
e altrove :
Pietosa tigre il ciel ad amar diemmi,donne, e serena e pianaprocella il corso mio dubbioso face.
Ma questa figura è propria de’ Toscani, quantunque da’ Greci e da’ Latini ne siano usate altre assai simili, e alcuna volta con la negazione espressa, come son quelle ἄδωρα δῶρα, ἀγάμους γάμους,e insepulta sepultura che fu detto da Marco Tullio, e da Catullo funera nefunera, e da Ovidio iusta iniusta ; ed Ennio molto prima avea detto artem inertem.
[15] E la distribuzione o ’l componimento stimo ancora proprio di questa forma bella e ornata, come per essempio :
Amor, Fortuna e la mia mente schivadi quel che vede, e nel passato volta,m’affligon sì ch’io porto alcuna voltainvidia a quei che son su l’altra riva.Amor mi strugge il cor, Fortuna il privad’ogni conforto, onde la mente stoltas’adira e piange.
[16] Massimamente se gli è alcuna opposizione, come quella :
Io da man manca, ei tenne il camin dritto ;io tratto a forza, ed ei d'Amore scorto ;egli in Gierusalemme, ed io in Egitto.
[17] E i membri e le parole c’hanno il medesimo fine sono dolcissime in questa forma :
Non è sì duro cor che lagrimando,pregando, amando, talor non si smova,né sì freddo voler che non si scalde.
Anzi la rima stessa ha peraventura avuta origine da quella figura che ’ Latini chiamano similiter desinens o pariter cadens ; e nella rima le parole piene di vocali sono più dolci e più atte in questa forma vaga e fiorita di poesia, come quelle :
Da’ bei rami scendea(dolce ne la memoria)una pioggia di fior sovra il suo grembo ;ed ella si sedeaumile in tanta gloria,coperta già dall’amoroso nembo ;
perché l'ultima rima, piena di consonanti, ci è giunta per temperamento, avenga che la forma bella sia insieme la temperata, la quale schiva i freni dell’orazione che son fatti dal concorso d’asprissime lettere, come è il polisigma, in cui si fanno sentire molte s ; schiva ancora il metacismo e l’altre figure sì fatte, come dice Marzian Capella nelle Nozze di Mercurio. Nondimeno, per giudicio del Falereo, è amica del labdacismo, perché grandissima grazia e bellezza ancora suol nascer da quelle lettere che son dette liquide e, più che da l’altre, da l ; anzi, quando molte parole cominciano da questa lettera, se ne fa un dolcissimo composito, che da’ Greci fu chiamato melisma, o una figura che vogliam dirla, come in quelle parole di Virgilio :
quaeque lacus late liquidos;
e in quelle dolcissime del Petrarca :
e le fere, e gli augei lagnarsi, e l'acque.
[18] E in questa forma, più che in tutte l’altre, è convenevole la dolcezza e la soavità delle rime, e la composizione delle parole e de’ versi tenera, molle e delicata. Laonde tanto son più lodati i versi, quanto sono meno interrotti e perturbati nell’ordine delle sentenze e delle parole, sì veramente ch’elle sian scelte e sonore e depinte e traslate, e dall’altre figure quasi gemme intessute in un lavoro d’oro e di seta di vari colori ; sia per essempio quel sonetto del Petrarca :
Erano i capei d’oro a l’aura sparsiche ’n mille dolci nodi gli avolgea,e ’l vago lume oltra misura ardeadi que’ begli occhi, ch’or ne son sì scarsi ;e ’l viso di pietosi color farsi,non so se vero o falso, mi parea :i’ che l’esca amorosa al petto avea,qual meraviglia se di subit’arsi ?
e quel che segue. E quell’altro di monsignor della Casa, nel quale una volta sola l’un verso rientra nell’altro :
Dolci son le quadrella ond’Amor punge,dolce braccio l’aventa, e dolce e pienodi piacer, di salute è 'l suo veneno,e dolce il giogo ond’ei lega e congiunge.Quanto io, donna, da lui vissi non lunge,quanto portai suo dolce foco in seno,tanto fu 'l viver mio lieto e sereno ;e fìa, fin che la vita al suo fin giunge.Come doglia fin qui fu meco e pianto,se non quando diletto Amor mi porse,e sol fu dolce amando il viver mio ;così ha sempre ; e lode aronne e vanto,ché scriverassi al mio sepolcro forse :Questi servo d’Amor visse e morio.
[19] Ma l’usar molte parole le quali abbiano principio da l'm conviene al pianto, e peraventura in questa medesima forma è conveniente, come :
di me medesmo meco mi vergogno.
Ma s, v sono asprissime oltre l’altre, però nella magnifica avranno luogo più agevolmente, e nella grave ancora, nella quale tre cose parimente si considerano: le sentenze, le parole e la composizione. Ma alcune cose sono gravi per se stesse, ch’essendo narrate, fanno più grave il parlare ; ma non basta che le cose sian gravi, s’elle non son dette con gravità, come quelle :
Per le camere tue fanciulle e vecchivanno trescando, e Belzebù in mezzoco ’l mantice e co ’l foco e con gli specchi.Già non fosti nudrita in piume al rezzo,ma nuda e scalza al verno infra gli stecchi ;or vivi sì ch’a Dio ne venga il lezzo.
[20] La brevità in questa forma si richiede più ch'in tutte l’altre, perciò che il molto nel poco si mostra molto più grave ; però gli Spartani, ch’erano di natura gravissima, parlavano brevemente. Il comandar ancora si fa con brevi parole ; e ’l riprender le cose presenti porta seco non mediocre gravità, come si conosce in que’ versi :
né trovo chi di mal far si vergogni.Che s'aspetti non so, né che s’agogni,Italia, che suoi guai non par che senta :vecchia, oziosa e lenta,dormirà sempre, e non ha chi la svegli ?
Nondimeno è pericoloso ; e ’l lusingar è pieno d’indignità ; e tra questo e quello è quasi mezzo il reprender il vizio degli amici negli altri, facendo insieme due effetti, cioè di conservar il decoro e di por le cose in securo. Ma con molta gravità si lodano le cose passate, quando vi sia mescolata insieme alcuna riprensione delle presenti, come in que’ versi :
L’antiche mura, ch’ancor teme ed amae trema il mondo, quando si rimembradel tempo andato e ’n dietro si rivolve,....................................di ta’ che non saranno senza fama,se l’universo pria non si dissolve,e tutto quel ch’una ruina involve,per te spera saldar ogni suo vizio.
I simboli ancor sono gravi, e l’allegoria, come quelli :
ed or siam giunte a taleche costei batte l’aleper tornare a l’antico suo ricetto ;io per me sono un’ombra.
[21] Ma niuna cosa par più grave che ’l por nel fine quello ch’oltre tutte l’altre cose è gravissimo, come è quello :
Ira è breve furore, e chi no ’l frena,è furor lungo, che ’l suo possessorespesso a vergogna, e talor mena a morte ;
là dove, rivolgendosi l’ordine delle parole, molto perderebbe la sentenza della sua gravità. In questo modo è quello del Bembo :
questo è le mani aver tinte di sangue ;
assai parrebbe men grave, tramutandosi :
questo è le mani aver di sangue tinte.
E quello altro di monsignor della Casa
crudele, or non è questo a Dio far guerra ?
in qualunque modo si trasmutasse, ponendo nel fine quel ch’è nel mezzo, diverrebbe più languido per la mutazione.
[22] L’oscurità suole ancor in molti luoghi esser cagione della gravità, perciò che tutto quello ch’è piano e aperto suole esser sprezzato. Alcuna volta ancora lo spiacevol suono fa gravità, come quello :
Però, al mio parer, non gli fu onoreferir me di saetta in quello stato,e a voi armata non mostrar pur l’arco.
E quell’altro :
e per viver ancor venti anni o trenta,parrà a te troppo, e non fia però molto.
[23] La dolcezza del suono all’incontra, o più tosto la tenerezza, per così dire, e l’egualità suole esser nemica della gravità ; nemici ancora della gravità son i contraposti e le sentenze contrarie fatte con affettata diligenza e con arte viziosa ; e, s’io non m’inganno, di questo vizio possono esser biasimati molti moderni dicitori. Tutta volta i contraposti soglion gonfiare il verso, laonde, mescolati con la figura della gravità, fanno il parlar più riguardevole e più magnifico e più bello ; e noi cerchiamo la bellezza e la magnificenza oltre tutte l’altre cose. Laonde lodiamo quelle orazioni e que’ poemi i quali sono essattissimi e insieme magnificentissimi, e somigliano le statue di Fidia, ch’erano fatte con politissima arte, e aveano insieme dell’esquisito e del grande ; e possiamo in ciò securamente approvar il giudizio di Demetrio e d’Aristotele più tosto che l’essempio o l’autorità de’ poeti antichi.
[24] Ma tra le figure delle sentenze che fanno la gravità, principalissima è la prosopopeia, la qual si fa introducendo a parlare la patria, come abbiamo detto, o Italia o Roma, ch’abbia presa la forma feminile, come fece il Petrarca nella canzone a Cola di Rienzo, della quale abbiam già fatta menzione :
Di costor piange quella gentil donnache t’ha chiamato accioché da lei sterpile male piante, che fiorir non sanno.
Si posson introdurre ancora i padri e gli avi e quelli che son morti, come nell’istessa canzone :
E se cosa di qua nel ciel si cura,l’anime che là su son cittadineed hanno i corpi abbandonati in terra,del lungo odio civil ti pregan fine ;
perché quelle parole saran più gravi e più illustri che fien dette non in propria persona, ma in persona de’ trapassati, come c’insegnò a fare Platone nel suo Epitafio.
[25] E la reticenza e l’omissione, che noi possiam dir tralasciamento, sono usate acconciamente in questa forma del parlare, come quella :
Cesare taccio, che per ogni piaggiafece l’erbe sanguignedi lor vene, ove il nostro ferro mise ;
e quell’altre :
Passo qui cose gloriose e magnech’io vidi e dir non oso ; a la mia donnavengo etc. ;
quantunque possono esser fatte per altra cagione che per quella che c’insegna il Falereo.
[26] Io numerarei ancora tra le figure le quali convengono a questa forma l’ironia, della quale son pieni i ragionamenti di Socrate ; e n'abbiamo ancora l’essempio in Dante :
tu grande, tu con pace, tu con senno !
E quella la qual, benché non sia ironia, ha similitudine con l’ironia, e lascia dubbio s'ella sia fatta con disprezzo o meraviglia. E la dimostrazione, come quella :
Questo fu il fel, questo gli sdegni e l'ire,più dolce assai che di nulla altra il tutto.
[27] Le parole in questa forma deono esser le istesse che nella magnificenza sono scelte. Ma tra le figure del parlare, il raddoppiar le parole si fa acconciamente e con molta gravità, come fece Dante :
Ahi, Fiorenza, Fiorenza, ché non stanzi.
[28] Gravissima ancora è quella figura detta da’ Greci ἐπαναφορά, perché non solo comincia nella medesima parola, ma finisce nell’istessa, e i membri sono senza congiunzione ; e bisogna sapere che la dissoluzione, o ’l discioglimento che vogliamo chiamarlo, è buon maestro della gravità ; laonde non conviene meno a questa forma ch’alla magnifica, fra le quali sono comuni molte figure.
[29] Grave ancora è l’interrogazione, perché più dimanda che non dice, e richiama in dubbio l’uditore, quasi egli non sappia rispondere e sia confuso, come in quelle che già sono state addotte :
vecchia, oziosa e lenta,dormirà sempre, e non fìa chi la svegli ?
E in quell’altra :
Voi, cui Fortuna ha posto in mano il frenodelle belle contrade,di che nulla pietà par che vi stringa,che fan qui tante pellegrine spade ?
E ’l moderarsi e ’l correggersi, come :
Vergine saggia, e del bel numero unade le beate vergini prudenti,anzi la prima.
E l’affermar certamente, in quel modo :
Fammi (che puoi) de la sua grazia degno.
E ’l fermarsi molto in una cosa, e farci quasi fondamento, giova molto alla gravità, come in que’ versi del Petrarca :
E per dir a l'estremo il gran servigio,da mille atti inonesti l’ho ritratto.....................................Ancora (e questo è quel che tutto avanza)da volar sopra il ciel gli avea dat'ali,per le cose mortali.
Ma le comparazioni non son convenienti a questa forma, perché sono troppo lunghe.
[30] Ritiene ancora qualche parte di gravità colui il quale dice le cose odiose come piacevoli; s’ascondano alcune volte con parole pietose, come, volendo persuadere un prencipe vittorioso alla crudeltà, il consigliero li disse che doveva usar la vittoria, e un altro, che doveva assicurarsi del nemico. Molte altre cose son dette della gravità, le quali noi tralasciaremo perché sono più appartenenti all’oratore che al poeta.
[31] Ora consideriamo l’umil forma di parlare, se non la vogliamo chiamar più tosto tenue o sottile, della quale diremo poche cose, perché le molte non son necessarie al nostro proponimento. Le cose picciole sono accommodate a questa maniera, e le parole deono esser proprie e usate, perché tutto quello che s’allontana dalla consuetudine è magnifico. Non si convengono dunque i nomi trasportati, o finti, o i peregrini, o gli altri detti di sopra ; e l’elocuzione dovrebbe esser piana e chiara. Ma quella ch’è senza congiunzioni è oscura, come erano gli scritti d'Eraclito ; però non le si conviene. Non è disdicevole nondimeno nella comedia, perché la dissoluzione è propria dell’azione dell’istrione ; laonde riesce molto meglio disciolta che legata. Ma nelle scritture dee aver le congiunzioni, quasi nodi e legami che la ritengano, accioché non si dissolva a guisa di scopa dislegata o d’altro fascio. Deve ancora la piana scrittura fuggir tutte l’ambiguità, e usar quella figura che da’ Greci si dice epanalepsi, nella quale si replica la medesima copula o la medesima parola dove temiamo che l’uditore per lunghezza non se ne sia dimenticato, come in quello essempio :
Ma pur quanto l’istoria trovo scrittain mezzo il cor, che sì spesso rincorro,con la sua propria man, de’ miei martiri,dirò, perché i sospiriparlando han tregua, ed al dolor soccorro.Dico che, perch'io mirimille cose diverse attento e fiso,sol una donna veggio, e ’l suo bel viso.
Si deono fuggire ancora quelle maniere di parlare che si fanno con li obliqui, perché sono oscure, e si dee usare l’ordine naturale di parlar, e nelle narrazioni si dee cominciare dal caso retto, o dal quarto caso almeno, perché gli altri sogliono apportar oscurità. Non convengono ancora a questa forma né ’ membri lunghi né i versi spezzati, e si deono fuggire i concorsi delle vocali lunghe e de’ dittongi, e le figure troppo riguardevoli e l’illustri, e tutto quello che s’allontana dall’uso commune. Ma la repetizione si può usare in questa forma ; e oltre tutte cose è in lei richiesta quella probabilità e quella che da’ Latini è detta « evidenzia », da’ Greci « energia » ; da noi si direbbe « chiarezza » o « espressione » non men propriamente ; ma è quella virtù che ci fa quasi veder le cose che si narrano, la quale nasce da una diligentissima narrazione, in cui niuna cosa sia tralasciata, come si vede nelle narrazioni del conte Ugolino :
La bocca sollevò dal fero pastoquel peccator, forbendola a’ capellidel capo ch’egli avea di retro guasto ;
e nell’altre cose ch’ivi sono narrate. E quella comparazione ancora è piena di grande evidenza :
Come le pecorelle escon dal chiusoad una, a due, a tre, e l’altre stannotimidette atterrando l’occhio e ’l muso ;e quel che fa la prima, e l'altre fanno,addossandosi a lei, s’ella s’arresta,semplici e quete, e lo perché non sanno.
Nasce ancora questa virtù quando, essendo alcuno introdotto a parlare, non solamente si descrivono le parole, ma si dipingono gli atti e i movimenti, come nel ragionamento di Farinata :
mi guardò un poco, e poi, quasi sdegnoso ;
e in quel di Massinissa :
Mirommi, e disse : « Volentier sapreichi tu se’ innanzi » ;
e appresso :
In tanto il nostro e suo amico si mise,sorridendo, con lei ne la gran calca,e fur da lui le mie luci divise.
E ne’ medesimi Trionfi, parlando d’Antioco :
Ed egli al suon del ragionar latinoturbato in vista, si ritenne un poco ;e poi, del mio voler quasi indovino ;
e appresso :
Poi che dagli occhi miei l’ombra si tolse,rimasi grave, e sospirando andai.
Suol nascer ancor questa evidenza quando si dicono cose consequenti alle cose narrate ; così nel descrivere il viaggio della nave si dirà che l’onda rotta diviene spumante e le fa rumore intorno. E descrivendo il suono della tromba, acconciamente Ennio finse il nome di taratantara in quel verso :
At tuba terribili sonitu taratantara dixit ;
ad imitazion del quale disse poi il Tasso nel suo Amadigi :
La tromba ostil co ’l suo taratantara.
E l’asprezza del suono ne’ nomi finti :
che Giove irato per vendetta croscia ;
o quell’altro :
Io sentia già da la man destra il gorgofar sotto noi un orribile stroscio.
E la dolcezza, come quel del Petrarca :
ed acque fresche e dolcispargea, soavemente mormorando.
E tutti i nomi finti, come rombo, rimbombo, susurro, mormorio, sibilo, fischio, e gli altri sì fatti, perché in tutti è imitazione, e ogni imitazione ha seco l’evidenza.
[32] Ma perché l’imitazione è propria del poeta, è necessario che in questa parte consideriamo l’eccellenza d'Omero e di Virgilio, a' quali i poeti toscani non si possono paragonare di leggieri. L’arte de’ poeti, come disse Dion Crisostomo, è molto licenziosa, e quella d’Omero massimamente, il quale usò grandissima libertà, e non elesse una lingua, o con un carattere solamente, ma tutte volle adoperare, e tutte insieme le mescolò. Laonde niun tintore tinse mai sete di tanti colori di quante egli fece l’opere sue ; né contento d’usar le parole del suo tempo e di tutta la Grecia, usò Cantiche a guisa di vecchia moneta cavata da’ tesori di qualche ricchissimo signore ; molte ancora ne ricevè de’ barbari, e non s’astenne da alcuna, sol che gli paresse aver in sé qualche piacevolezza o qualche veemenza. Né trasporta solamente i nomi vicini da’ vicini, ma i lontani da’ lontani, purché adolcisca l’auditore e, rempiendolo di stupore, l’incanti con la meraviglia ; né però gli lascia nel proprio paese o nella propria natura, ma questi allunga, altri accorcia, altri trasmuta e quasi volta sottosopra ; e in somma si dimostra non sol facitor de’ versi, ma di parole, o ponendo semplicemente nomi alle cose, o sopra i propri imponendone altri di nuovo, quasi imprimendo sigillo sovra sigillo. Né si guardò da suono o da strepito alcuno di parole, ma, per dirlo brevemente, imitò le voci de’ fiumi, delle selve, de’ venti, del fuoco e del mare e, oltre a ciò, de’ metalli e delle pietre e delle fiere, degli uccelli, delle piume, e in universale di tutti gli istrumenti e di tutti gli animali ; e primo ritrovò καναχάς e βόμβους e altre sì fatte cose, e nominò i fiumi μορμύροντα, e le saette κλάζοντας, e l'onde βοῶντα, e i venti χαλεπαίνοντας, e disse molte altre cose somiglianti ch’in vero paiono meraviglie e riempiono gli animi di tumulto e di perturbazione. Ma Virgilio, bench’usasse alcuni nomi antichi raccolti da Ennio e da gli altri poeti, e alcune terminazioni similmente e alcune poche cose de’ barbari, l’usò nondimeno con arte e con giudizio grandissimo e maturo, e rade volte ; e mescolò le forme e i caratteri, ma gli dispose in guisa che ne ’l suo poema sono molti quasi gradi d’un teatro «onde si scende poetando e poggia », ma non si trova alcun precipizio o alcuno intoppo soverchiamente spiacevole, il quale offenda il lettore, e, quasi stanco, l’astringa a fermarsi mal suo grado. Nell’espressione delle cose nondimeno, e in quella che ’ Greci chiamano « energia », fu meraviglioso ed eguale ad Omero, e co ’l suono e col numero l’imita in guisa che ce le pone innanzi a gli occhi, e ce le fa quasi vedere e udire. Veggiamo quasi cader il bue e precipitar la notte in quelle parole :
procumbit humi bos ;ruit Oceano nox.
Vedi quasi la furia de’ cavalli che s’urtano insieme, e odi lo strepito in quelle altre :
perfractaque quadrupedantumpectora pectoribus rumpunt.
Né meno in quelle odi il rumor delle onde, e le vedi quasi rotte e biancheggianti :
spumas salis aere ruebant ;convulsum remis, rostris stridentibus aequor.
E odi il suono parimente in quelli altri :
longe sale saxa sonant ;atque refracta remurmurat unda.
E s'appresenta inanzi a gli occhi un ruvinoso monte d’acqua in quell’altro :
insequitur praeruptus aquae mons.
La tardanza e la gravità in quello :
Olii sedato respondet corde Latinus.
E la tardanza parimente in quell’altro :
proximus huic, longo sed proximus intervallo.
Ma la velocità in queste :
radit iter liquidimi, celeres neque commovet alas;Eia age, rumpe moras ;
e in questo :
turbine corripuit scopuloque iniìxit acuto.
La tardanza con lo strepito dell’armi :
Quod votis optastis adest perstringere dextra etc. ;in clipeum assurgat, quo turbine torqueat hastam.
Ma questo ti fa quasi sentir la debolezza :
telum imbelle sine ictu ;
e in quelle :
languent effractae in corpore vires.
Ma chi è che, leggendo quest’altra, non gli paia di vedere e d’udire un furioso ?
Arma amens fremit, arma toro tectisque requirit ;
e ’n quelle non senta la percossa della caduta e ’l rimbombo dell’arme ?
collapsa ruunt immania membra ;dat tellus gemitum, et clypeus super intonat ingens.
[33] Ma di queste cose hanno scritto più lungamente il Trapezunzio nella sua Retorica e ’l Vida nella sua Poetica. Dante è quasi terzo fra costoro, come dice egli stesso « fra cotanto senno » : è più simile ad Omero nell’ardire e nella licenza e nel mescolamento delle parole antiche e barbare ch’a Virgilio, e il somiglia ancora in quella che da’ Latini è stata detta « evidenzia » ; ma egli dice d’esser imitatore e discepolo di Virgilio, e peraventura il somigliò nella brevità. Ma paragonando le virtù de’ duo maestri insieme, si può dubitare qual sia maggiore : perché l’uno mette più le cose innanzi a gli occhi e le particolareggia, come disse il Castelvetro ; l’altro, cioè Virgilio, sta più su l’universale e, come pare al Castelvetro, per difetto d’arte, ma, come io stimo, per dir le cose più magnificamente o più gravemente : perché il discriverle minutissimamente non porta seco l’una né l’altra virtù. Ma la virtù d’Omero è virtù propria del poeta e d’ogni poeta, quella di Virgilio propria del poeta eroico, a cui si conviene servar il decoro e sostener la grandezza oltre tutte l’altre cose. L’uno e l’altro nondimeno mescolò tutti i caratteri, ma questo con maggior temperamento ; e perché sì come alla fortezza è vicina l’audacia, alla parsimonia l’avarizia, così ancora alle virtù d’elocuzioni è sempre vicino alcun vizio. Virgilio fu cauto sopra ciascuno in guardarsi dalle forme viziose, le quali con diversi nomi furono chiamate da’ Greci e da’ Latini ; ma Demetrio c’insegna che ’l parlar freddo è vicino al magnifico, il cacozelo, che noi, seguendo Quintiliano, possiam dire « male affettato», al venusto o grazioso, l’asciutto al tenue, l’invenusto o ’l disgraziato al grave. Il freddo, come il diffinisce Teofrasto, è quel ch’eccede la propria esposizione, perch’una cosa picciola e minuta s’espone con parole troppo grandi, le quali, ove siano senza sale, sogliono alcune volte riuscire fredde e insipide molto, come quel che si racconta del sasso che ’l Ciclope gittò nella nave d’Ulisse, nel quale pascean le capre. Ma volle per aventura Luciano far prova del suo ingegno nelle vere narrazioni, descrivendo alcune cose da scherzo in guisa che paiano graziose, quantunque superino la propria esposizione ; e fu imitato graziosamente nell’orca la quale aveva i molini nella gola che macinavano ; e altre sì fatte meraviglie si leggono nel medesimo poeta non senza grazia ; alcune nondimeno sono fredde, come pare al Vittorio ; ma questo difetto è proprio di coloro che scrissero romanzi in questa lingua, i quali dicono cotali cose sciocche che posson mover riso, e con la sciocchezza solamente. Nasce il freddo, come il magnifico, nella sentenza, nelle parole e nella composizione ; e nelle parole, per opinione d’Aristotele, in quattro modi : perché sono mal composte, come usavano i ditirambi, o sono di molte lingue mescolate insieme, o sono aggiunti troppo lunghi e troppo spessi, o sconvenevoli metafore. Delle parole composte viziosamente a pena possiamo darne essempio in questa lingua ; ma fra le poche è quella ch’usò il Boccaccio : melliflue; la qual riuscirebbe in altro modo assai fredda, come sarebbe quella Soaviloqua Musa anacreontica, se ’l poeta non parlasse da scherzo ; e si caderebbe di leggieri in questo vizio componendo le parole ad imitazione de’ Latini, e dicendo Diana boschicultrice, o la cerva boschivaga, o la prima età floricoma, o altri somiglianti. Negli aggiunti, quando dicono il latte bianco, la neve fredda, il foco ardente, peccano più tosto i prosatori che i poeti ; e questo è vizio non sol del Polifilo, ma del Boccaccio istesso in alcune dell’opere da lui composte. Nella varietà delle lingue spesso meritano d’esser ripresi i moderni dicitori ; ma n’abbiamo un essempio non lodevole in quella canzone di Dante :
.............................oculos meos ? et quid tibi feci,che fatto m’hai cosi spietata fraude ?
Il quale non avrebbe, per mio aviso, meritato lode alcuna da Aristotele o da Demetrio, bench’essi riprendessero più tosto coloro ch’usavano la varietà delle lingue in quel modo ch’oggi è usato da molti. Ma nelle metafore sconvenevoli peccano molti non se ne avvedendo ; laonde non fu detto con tanta grazia :
altero occhio de’ fiumi, o bel Metauro,
con quanta Catullo avea detto :
ocelle fluminum.
Ed errò alcun altro che chiamò le stelle chiodi del cielo, e che disse alla sua donna :
Son gli occhi vostri archibugetti a ruota,e le ciglia inarcate archi turcheschi ;
se pur egli non parlò da scherzo ; e quell’altro il qual finse che Caronte avesse fatta la barca de gli strali lanciatili d’Amore, e 'l fiume delle sue lagrime ; e colui che chiamò il velo della sua donna vela della sua fortuna. Altri vi fu che, leggendo nel Petrarca quel leggiadrissimo verso :
umana carne al tuo virginal chiostro,
intendendo del ventre, disse carnal chiostro, e volle intendere di tutto il corpo ; e similmente carnal nido. Ma l’artifìcio di Dante ancora è sospetto in alcune traslazioni, come quella :
da la vagina de le membra sue ;
e ’n quell’altra :
Dentro vi nacque l’amoroso drudode la fede cristiana.
Né lodo que’ traslati :
Ben se’ tu manto che tosto raccorce ;sì che, se non s’appon de die in die,il tempo va intorno con le force ;
né quella :
La luce in che rideva il mio tesoro ;
né mi piace quella :
e ’n su le vecchie cuoia ;
né alcune altre sì fatte. In somma il parlar freddo, come dice Demetrio, è simile alla vanità, perché sì come il vano si vanta d’aver quel che non ha, così il picciolo dicitore fa troppa ambiziosa mostra delle cose picciole e minute.
[34] L’altre forme viziose, cioè il cacozelo e la invenustà e l’aridità, nascono nelle medesime cose. Ma noi chiamiamo i vizii con altro nome : perch’al sublime facciamo vicino il gonfio, all’omato l’affettato, al piano il basso ; e gli essempi di tutti questi vizii si ritrovano in molti. Ma essendosi conosciute le virtù, si conoscono i vizii di leggieri, i quali tutti dee fuggire il poeta eroico, ora costeggiando gli amenissimi lidi della poesia, ora spiegando le vele nell’altissimo mare dell'eloquenza ; ma schifi Scilla e Cariddi, e le Sirti, e le Sirene, oltre tutti gli altri mostri di questo mare, perch’elle incantano chi ascolta troppo attentamente e l’armonia de l’amorose parole e de’ numeri, che possono addormentar gli animi e intenerirli co ’l piacere.
[35] Laonde nell’eleggere il verso ancora dee mostrarsi giudiziosissimo il poeta eroico. I Greci e i Latini non hanno alcun dubbio nell’elezione, perché il verso di sei piedi è attissimo oltre tutti gli altri a trattar questa materia ; ma la difficoltà è in questa lingua, nella quale egli è quasi straniero, sì còme sono tutti gli altri i quali caminano sovra i piedi usati da’ Greci e da’ Latini, e non hanno la rima, la quale è naturale di questa lingua, e quasi nata con esso lei, né potrebbe farsi nella lingua latina così acconciamente, o così a lungo, senza generar fastidio, tutto che si senta in que’ quattro versi di Virgilio :
Sic vos non vobis nidificate, aves,sic vos non vobis veliera fertis, oves,sic vos non vobis mellificate, apes,sic vos non vobis fertis aratra, boves ;
e in alcuni versi d'Adriano imperatore e in molti inni de gli scrittori sacri. Il medesimo non converrebbe nell'altre lingue, le cui parole finiscono in consonanti, perché la consonanza non sarebbe così dolce e così grata a gli orecchi. Dall’altra parte la nostra lingua non è avezza a caminar sovra i piedi, che non sono suoi propri, né conosce così bene la brevità e la lunghezza delle sillabe, come faceva la latina, la quale pronunziava diversamente e quasi cantando. Laonde s’ella pur volesse ricever i versi stranieri, non dee lasciare il proprio, ma, o ritener questo solamente, o usar gli uni e gli altri a guisa di coltore il quale con la diligenza e con artificio faccia più belle non solamente le piante del paese e le domestiche, ma le selvagge e le peregrine, perché tutte crescono per la coltura e tutte acquistano bellezza e perfezione. Ma fra i versi nostri quel d’undici sillabe è atto al parlar magnifico, ed è quello che riceve maggiore ornamento. Il terzetto ha troppo stretto seno per rinchiudere le sentenze dell’eroico, il quale ha bisogno di maggior spazio per spiegare i concetti, e oltre a ciò non ricerca una catena perpetua, né i riposi così lontani, come sono nel capitolo, ma, spiegando i suoi concetti in più largo e più ampio giro, spesso desidera dove acquetarsi. Nel sonetto e nelle canzoni è troppo varietà di modi, o de mutazioni che vogliam dirle; laonde quella maniera di verso è più atta a le mutazioni del canto e de l'armonia conveniente al teatro. Ma ne la stanza d’otto versi d’undici sillabe è maggiore uniformità e maggior gravità e maggior costanza e stabilità ; la quale non è propia de la scena, ma conviene a’ poemi eroici, come dice Aristotele medesimo ne’ Problemi, e può assai acconciamente esser cantata con armonia dorica o con alcuna simile, s’in questa età n’abbiamo simigliante, la qual non riceva molte mutazioni, e somigli quella lodatissima non solo da Socrate e da Platone ne’ dialogi de la Republica e de le Leggi, ma da Aristotele ancora ne’ suoi Problemi e ne l’ottavo de la Politica, e da Plutarco e da Massimo Tirio e da altri gravissimi scrittori. Ma la musica frigia e la lidia, e quella che di queste è mescolata, sono più ricercate ne le tragedie e ne le canzoni, sì come in quelle che possono commover gli animi e quasi trarli di se stessi, ma non sono atte ad ammaestrarli, benché sino a’ tempi di Plutarco la tragedia non avesse ricevuto la maniera del canto cromatico e l’enarmonia, ma la cetera, assai più antica, da principio gli aveva cominciato ad usare. E perché la musica non fu trovata solamente per trattenimento de l’ozio o per medicina e quasi purgazione de l’animo, ma per ammaestramento ancora, come piace ad Aristotele ne l’ottavo de la Politica, potrà la musica grave e stabile e simile a la dorica servire meglio d’alcun’altra al poema eroico ; però ne’ primi tempi furono i medesimi i musici e i poeti, come Lino, Orfeo, Olimpo, Femio. Dapoi queste arti fur divise per l’umana imperfezione, per la quale non bastiamo a molte cose. E Omero istesso ne l'Iliade, introducendo Achille a cantare i fatti degli eroi a la cetera, c’insegna chiaramente che l’azioni degli eroi deono esser cantate. Il medesimo ci dà a dividere ne l'Odissea con l’essempio di Femio, ceteratore antichissimo fra’ Greci, il quale cantava a la tavola del re de’ Feaci. Poi Terpandro, come racconta Plutarco, aggiungendo i modi a’ suoi versi e a quelli d’Omero, diede le leggi a l’armonia, e fu quasi legislatore de la musica, e fu il primo ancora che ponesse il nome e desse le leggi a le corde de la cetera. Nondimeno il canto ritrovato da Terpandro fu quasi semplice sino a l’età di Frinide, famosa cortigiana, la quale adulterò e quasi contaminò la musica facendo lecito quel ch’era piacevole. F quantunque i canti di Terpandro e quelli d’Olimpo fosser cantati a la cetera di poche corde, nondimeno coloro che poi seguirono ve n’aggiunsero molte, ma non potevano agguagliare né pur imitare la perfezione di que’ primi. Sacada poi, essendo tre toni, il dorio, il frigio e ’l lidio, in ciascun d’essi fece un coro con le sue strofe, overo una canzona che vogliam dirla, con le sue conversioni, e a ciascuna ancora diede le sue leggi. Laonde le leggi furono, per così dire, tripartite, e ciascuno usò quelle che più gli erano a grado. Gli Spartani nondimeno amavano più le doriche, lor propie e naturali ; e Platone, benché fosse ateniese, l’antepone a l’altre, e ne la composizione de l'anima, ne la qual dimostrò grande studio de la musica, loda più la dorica. E Aristotele, dopo lui, conferma ne l'ottavo de la Politica che l’anima nostra è armonia, o non senza armonia. E l’istessa opinione ebbe un altro Aristotele, cognominato il Platonico, il quale non solamente ne la composizione de l’animo, ma in quella del corpo dimostra la sua musica. Ma lunga opera farebbe chi volesse referire quel che n'è scritto non solamente da Platone e da l’uno e da l’altro Aristotele e da Plutarco, ma da Aristosseno ancora e da Tolomeo e da Boezio e da Marzian Capella e da Pietro d’Abano e da altri più moderni. Bastici adunque d’avertire che nel poema eroico si richiede principalmente la musica la qual conservi il decoro de’ costumi e la maestà, come faceva la dorica, e si schivino quelle soverchie perfezioni o imperfezioni per le quali Timoteo, ch’a le sette corde aggiunse molte altre, è biasimato da Ferecrate comico, da cui fu introdutta in scena la Musica a lamentarsi con la Giustizia di essere stata lacerata da Timoteo. Ne’ versi latini essametri, oltre tutti gli altri è gravissimo il verso spondaico, nel quale lo spondeo occupa il luogo del dattilo ; e con questa sorte di versi o di piedi, s’io non m’inganno, soleva l’istesso Timoteo frenare il furore d’Alessandro, che da l’altra maniera di musica era concitato a l’armi, come si legge in Dion Crisostomo. Numerosissimo nondimeno è quel verso essametro nel quale il dattilo ha la penultima sede e l’ultima lo spondeo ; e a questa similitudine sono numerosissimi ancora i nostri endecassilabi, come quel del Petrarca :
battendo l’ale inverso l’aurea fronde;
e quelli altri :
fiere e ladri rapaci, ispidi dumi;ella avea indosso sì candida gonna ;
e gli altri sì fatti, i quali ne le stanze del poema eroico potranno essere usati con gran convenevolezza, avendosi nondimeno risguardo al variare del numero. Oltre acciò la testura d’otto versi è capacissima, perch’il numero ottonario, come dicono gli aritmetici, è primo fra i numeri solidi e cubi c’hanno pienezza e gravità ; è perfetto ancora e attissimo all’azione, perch’egli è composto de la dualità, ch’è il primo moto o il primo mobile. E perché la musica è composta da’ pari numeri e dagli impari, e dal finito e da l’infinito, per questa cagione ancora è perfetto l’ottonario, sì come quello che si compone dal quaternario duplicato, onde si forma una tessera saldissima, e dal binario quadruplicato, e oltre acciò dal ternario e dal quinario, che sono i primi fra’ numeri impari. E se non bastasse alcuna volta una stanza sola al concetto, si può trapassar dall’una nell’altra. Laonde il poeta eroico può elegger questa inanzi ad ogn’altra testura di rime. E ’l Boccaccio, che prima trattò dell’armi e degli amori in questa lingua, fece di lei giudiziosa elezione ; e ben che ella nel suo nascimento fosse bassetta anzi che no, nondimeno può avenir di lei quel che del sonetto è avenuto, il quale con la coltura acquistò grandezza e magnificenza. Scelgasi dunque la stanza, o l'ottava che vogliam dirla, per attissima al poema eroico oltre tutti gli altri modi di rimare che son propri e naturali della favella toscana, e seguasi non sol la ragione, ma l’autorità di coloro che l’hanno adoperata in materia d’amore e d’arme : perché, doppo il Boccaccio, in questo verso Luigi Pulci scrisse il Morgante ; e ’l fratello il Ciriffo Calvaneo; e Angelo Poliziano (uomo di gran dottrina e di gran giudizio in que’ tempi) l’amore e le giostre di Giuliano de’ Medici ; e ’l Boiardo Orlando innamorato ; e l’Ariosto Orlando furioso ; Pietro Aretino Angelica innamorata ; e Luigi Alemanni Giron Cortese e l'Avarchide ; e ’l Tasso l'Amadigi e ’l Floridante, oltre il Guidon selvaggio che fu da lui prima cominciato ; e ’l Dolce il Sacripante, Achille e gli altri poemi ; e ’l Giraldo cantò d’Èrcole in questo medesimo modo ; e ’l Danese di Marfisa ; e ’l Bolognetto del Costante ; e ’l Pigna scrisse col medesimo gli Eroici; oltra tanti altri nobilissimi ingegni che hanno trattate le favole e le materie d’amore : io dico Lorenzo de’ Medici, il Benvieni, il Bembo, il Molza, il Guarino, Egidio Romano, il Martello, gli Academici Intronati di Siena, il Veniero, l’Anguillara, il Guarnello, il Verdizzotto, il Bonfadio e altri c’hanno avuta qualche fama nella lingua toscana.
[36] Ora potrebbe alcuno dubitare qual sia più eccellente, l’epico o ’l tragico ; perché dell’una opinione è difensor Platone, dell’altra Aristotele ; e io con gli altri tra l’autorità d’ambeduo sono quasi irresoluto ; e benché quella d'Aristotele potesse terminar la questione, nondimeno in questa materia tanto si deono considerar l’autorità quanto le ragioni. Dice Platone che l’epopeia è più perfetta perch’ella ha minor bisogno d’aiuti estrinseci, come quella che si contenta di pochi uditori, e de’ più gravò e giudiziosi ; là dove alla tragedia, dovendo essere rappresentata in scena, sono necessarii gli istrioni, i quali alcuna volta troppo trapassano il verisimile nel contrafare e ne’ movimenti, onde sono somiglianti alle simie ; e la tragedia viene in qualche modo a participar de’ lor difetti ; però dee men nobile esser riputata. A questa ragione risponde Aristotele che l'opposizione non si fa all’arte poetica, ma a quella degli istrioni, potendo avenire che l’epopeia ancora sia recitata con simili movimenti, come fu da Sosistrato, o cantata, come fu da Mnasiteo ; e soggiunge poi che la tragedia ancora senza sì fatti movimenti conseguisce il suo fine, come fa l’epopeia, potendo per la lettura mostrar quale ella sia : laonde per l’altre cose migliore, e per questo difetto non è peggiore, non essendo necessario che si trovi nella tragedia. Dice ancora Aristotele che la tragedia ha le cose le quali sono nell’epopeia, potendo ella ancora servirsi del verso essametro, e oltre a ciò ha la musica e l’apparato per la vista ; ha maggior evidenza, e in minor tempo conduce la sua favola a fine, laonde il piacer è più unito e più ristretto ; ma quella dell’epopeia è simile al vino troppo inacquato. Ultimamente dice che la favola della tragedia è più semplice e più una, ed eccede ancora nell’offizio e nel fine dell’arte, ch'è il dilettare; laonde si può conchiudere che sia megliore, perché meglio asseguisce il suo fine. Queste sono le ragioni d’Aristotele, le quali combattono molte contra una, laonde sarebbe necessario che la ragione di Platone fosse quasi un altro Achille, che non si sgomentasse per la moltitudine de gli avversari. Ma considerisi il valor di ciascuno. L’opposizione di Platone non è fatta all’arte de gli istrioni solamente, ma alla poetica, o a quella parte d’essa alla quale è necessario l’istrionica : per ciò che non è vero che tutte le poesie e la tragedia particolarmente possano aver la sua perfezione senza gli istrioni, avegna che ella sia poema dramatico, o rappresentativo che vogliam dirlo, nel quale non appare la persona del poeta ; laonde ha bisogno d’alcuno che la rappresenti ; e s’ella non avesse bisogno di chi la rappresentasse, non sarebbe drammatica ; ma nell’epopeia, la qual è poema narrativo, molte volte il poeta parla in sua persona, onde la rappresentazione o non è necessaria, o è soverchia e viziosa. Oltre a ciò, se la tragedia non avesse bisogno della musica e de l’apparato per conseguire il suo fine, Aristotele non avrebbe comprese l’una e l’altra parte nella diffinizione ; ma, avendole raccolte nella diffinizione, sono necessarie almeno per conseguire l’ultima e propria perfezione, la quale consiste nell’esser rappresentata. Si può aggiungere a questa un’altra ragione : che l’elocuzione dell’epopeia è fatta per esser letta, ma quella della tragedia per esser recitata, laonde ha bisogno della pronunzia degli istrioni, come si può raccorre non solo da Demetrio Falereo, ma d’Aristotele medesimo nel terzo della Retorica, il quale conobbe manifesta la differenza fra quella elocuzione che doveva essere scritta, e quella che ricercava l’aiuto dell’azione, chiamata « disciolta » e « pendente » nell’istesso libro della Retorica. È dunque la tragedia in questa parte gravosa, come dice Platone, e non senza carico. A quello poi, che dice che la tragedia ha tutto quello che ha l’epopeia e alcune cose di più, si può rispondere che quelle cose non sono sue proprie, ma quasi prestate dall’epopeia, come l’essametro, laonde non può usarlo se non rade volte ; ma ordinariamente adopera l’iambo e altri versi che sono minori, e di minor suono, e meno atti alla grandezza e alla magnificenza ; e le cose ch’ella ha di più sono più tosto impedimenti che perfezioni ; e se perfezione è la musica, è perfezione estrinseca ; può nondimeno esser ricevuta dal poeta eroico senza alcuna difficoltà dell’apparato e del teatro e delle machine, come abbiano già detto ; anzi possono i poemi eroici esser cantati con quella sorte di musica ch’è perfettissima, come furono cantati i poemi d’Omero ; e nella nostra lingua particolarmente il poema eroico ha la rima, la quale è una propria e naturale armonia. Non è anche vero che la tragedia abbia maggiore evidenza, se noi vogliam parlare dell’evidenza propria dell’arte poetica, la quale nasce da una accurata narrazione e dagli aggiunti e da’ consequenti, come è quello :
fractaque immurmurat unda ;
anzi questa evidenza è fatta dal poeta mentre egli parla nella propria persona ; laonde la tragedia, nella quale non appare mai la persona del poeta, n’è quasi a fatto priva. Ma l’evidenza della tragedia nasce dall’azione degli istrioni, senza la quale l’elocuzione è oscura, perch’ella non è fatta con alcuna diligenza, come dice Aristotele medesimo, ma è agonistica, cioè conveniente alle contese le quali fanno gli istrioni nel teatro ; però senza l’aiuto dell’azione non fa la propria operazione, e par quasi frivola. Ma questa medesima imitazione o simulazione fatta con l’azione e co’ movimenti degli istrioni non è in modo alcuno necessaria al poema eroico, il quale ha la sua chiarezza per se stesso ; e s’alcune volte sono stati recitati i poemi d’Omero, de’ quali fu istrione Ermodoto, come racconta Ateneo, furono ancora rappresentate l’istorie d’Erodoto, e l’istrione fu Egesia comico. Ma la rappresentazione non conveniva più all’uno che all’altro ; e mi perdoni Demetrio Falereo, il quale fu il primo ch’introducesse nel teatro gli omeristi. Anzi se fosse imperfezione alcuna nella poesia d’Omero, ch’alcuni versi fossero troppo deboli, altri senza capo, altri quasi tronchi nel fine, questa imperfezione egli participò dalla musica, alla quale accomodò i suoi versi, come dice il medesimo Ateneo ; ma più tosto fu artificio eccellentissimo dell’imitazione, nella quale il musico e ’l poeta deono esser conformi. Non posso già negare che la tragedia in minor tempo non conduca la sua favola a fine, e che quel piacere non sia più ristretto ; ma aviene del diletto il quale è nella tragedia e nella epopeia, come della virtù de’ corpi piccioli e de’ grandi : perché niuno è ch’elegesse d’esser picciolo, quantunque la virtù sia più unita, e più dispersa quella de’ grandi ; ma all’incontro è maggior virtù quella d’un corpo grande ; così anco è maggiore il piacere dell’epopeia, anzi è vero piacere, là dove quello della tragedia è mescolato co ’l pianto e con le lagrime, e pieno tutto d'amaritudine. Concedo parimente che la tragedia sia più semplice e più una ; ma non ha potuto però schivare ogni composizione e ogni doppiezza, laonde è composta e doppia in qualche modo ; e sì come, fra i corpi composti, quelli sono perfetti i quali sono misti e temperati di tutti gli elementi e di tutte le qualità, così aviene peraventura, tra le favole, che le più composte siano le migliori. Ma non voglio già concedere che la tragedia meglio conseguisca il fine ; anzi si move a quello per obliqua e distorta strada ; ma l’epopeia per diritta, percioché, essendo duo modi del giovar con l’essempio, l’uno d’incitarci alle buone operazioni mostrandoci il premio dell’eccellentissima virtù e del valor quasi divino, l’altro di spaventarci dalle ree con la pena, il primo è proprio dell’epopeia, l’altro della tragedia, la qual giova meno per questa cagione, e porta ancora minor diletto, perché l’uomo non è di così fiera e scelerata natura che riponga il suo sommo piacere nel dolore e nell’infelicità di coloro che per qualche errore umano sono caduti in miseria. Concedamisi dunque ch’in questa e in alcune altre poche opinioni lasci Aristotele, per non l’abbandonare in cosa di maggiore importanza, cioè nel desiderio di ritrovar la verità e nell’amore della filosofia ; percioché in questa diversità di parere io imiterò coloro i quali nella divisione delle strade sogliono dividersi per breve spazio, e poi tornano a congiungersi nell’amplissima strada la qual conduce a qualche altissima meta o ad alcuna nobilissima città, piena di magnifiche e di reali abitazioni, e ornata di templi e di palazzi e d’altre fabriche reali e maravigliose.