LIBRO QUINTO

[1] Fra i più cari e preziosi doni fatti da Iddio a la natura umana è stato quello del parlare, il quale nella dignità e nell’eccelenza si pareggia quasi a la ragione. Però tra’ Greci ebbero l'istesso nome di λόγος, nome che significa l’uno e l’altra parimente ; e quantunque la ragione sia quella che ci distingua da gli animali bruti e ci faccia simili all’intelligenze e alle nature divine, nondimeno, per opinione di molti filosofi, fu creduto che gli animali participassero di ragione ; e Aristotele medesmo, nell'Istoria loro e ne’ libri De la generazione e De le parti, attribuisce alle fere l’ingegno e l’avvedimento e la prudenzia ; ma nel parlare esse non hanno con gli uomini alcuna convenienza, se già non vogliam credere a le favole d’Apollonio Tianeo e alla maravigliosa filosofia di Porfirio. Però par che la favella separi l’uomo principalmente da le bestie, e il faccia lor superiore e quasi re e principe degli animali. Anzi, se fu mai alcun tempo nel quale egli pacificamente a le bestie signoreggiasse, ciò solamente avenne per virtù del parlare. Taccio quel che si favoleggia d’Orfeo e d’Anfione, i quali, se crediamo a Marco Tullio, in quelli antichissimi secoli con la virtù de l'eloquenza raccolsero insieme gli uomini che prima viveano vita salvatica e bestiale ; ma non debbiam dubbitare che l’uomo non fosse colui che prima imponesse i nomi a’ bruti e, chiamandoli imperiosamente, in virtù de’ nomi gli facesse obbedienti al suo imperio, come si legge in Filone Ebreo e negli scrittori de le sacre lettere. È dunque nobilissimo dono del primo donatore il parlare, ch’altrimenti si dice elocuzione, e potentissimo ministro de l’intelletto e vero interprete dell’animo nostro. Però l’eloquenza, che prende il nome da l’elocuzione, non cede a la prudenza, se fosse possibile che l’una e l’altra si separasse, avegnaché molti uomini prudenti, privi di questo dono, furono esclusi dal governo de’ regni e de le republiche e riputati quasi infanti. Grande è stato adunque l'errore di coloro ch’esistimarono che l’elocuzione non fosse propia dell’oratore e dell’eloquente, ma parte che si concede all’istrione ; fra’ quali fu monsignor Antonio Bernardi, cognominato il Mirandulano. Si fondava questo filosofo sovra l’autorità d’Aristotele, o che gli pareva, raccogliendo da le sue parole nella sua Retorica a Teodette ch’oltre l’entimema e l’essempio, co’ quali persuade l’oratore, l’altre cose siano accessorie e quasi estrinseche da l'arte sua, come quelle che per se stesse non persuadono né fanno alcuna prova, ma servono a commover gli animi degli uditori. Aristotele nondimeno ne la Poetica assegna quattro parti di qualità a la tragedia, che sono propie di quell’arte : fra le quali numera l’elocuzione ; e a queste aggiunge le due estrinsece, che sono la musica e l'apparato. Ma se l’elocuzione è parte del poeta e non de l’istrione, tuttoché l’istrione sia ordinato a’ servigi de la poesia, è ragionevole e quasi necessario che sia parte ancora de l’oratore, il quale non ha alcun commercio con l’istrione. Aristotele medesimo conobbe quanta virtù di persuadere consista nelle parole ; laonde se la retorica è una arte la qual considera e ritrova tutto quello ch’è atto al persuadere, dee principalmente essere investigatrice e quasi giudice de l’elocuzione e di quelle forme del dire che sono più acconce alla persuasione, com’io mi sforzerò di provare quando tratterò di tutta l’eloquenza, in quanto in lei si contengono quasi egualmente gli ammaestramenti de’ poeti e de gli oratori e de gli istorici e de’ filosofi ancora che vogliono scrivere e parlare con alcuno ornamento. Ora mi basti di confermare che la poesia è una arte subordinata alla logica, o veramente una sua parte, non solamente perch’ella è arte de l’orazione, la qual cerca il diletto non altrimente che la grammatica il regolato parlare, e la retorica la persuasione, ma perché nel parlar poetico, il quale non è senza imitazione, è una tacita prova e molte volte efficacissima ; perché non si può imitare senza similitudine e senza essempio, ma ne l’essempio e in ogni cosa che paia verisimile è la prova.

[2] Seguendo adunque il trattar dell’elocuzione, io dico che la lunghezza de’ membri e de’ periodi, o delle clausule che vogliam dirle, fanno il parlar grande e magnifico non solo nella prosa, ma nel verso ancora, come in quelli :

Tu c’hai, per arricchir d’un bel tesauro,
volte l’antiche e le moderne carte,
volando al ciel con la terrena soma,
sai da l’imperio del figliuol di Marte
al grande Augusto che di verde lauro
tre volte trionfando ornò la chioma,
ne l’altrui ingiurie del suo sangue Roma
spesse fiate quanto fu cortese ;

e in quelli altri :

Quel che d’odore e di color vincea
l’odorifero e lucido oriente,
frutti, fiori, erbe e frondi, onde il ponente
d’ogni rara eccellenzia il pregio avea,
dolce mio lauro, ove abitar solea
ogni bellezza, ogni virtute ardente,
vedeva a la sua ombra onestamente
il mio signor sedersi e la mia dea ;

e in quegli altri :

Quand’io mi volgo in dietro a mirar gli anni
c’hanno, fuggendo, i miei pensieri sparsi,
e spento il foco ov’agghiacciando i’ arsi,
e finito il riposo pien d'affanni,
rotta la fé de gli amorosi inganni,
e sol due parti d’ogni mio ben farsi,
l’una nel cielo e l’altra in terra starsi,
e perduto il guadagno de’ miei danni,
io mi riscuoto.

In queste rime è cagione di grandezza ancora il senso che sta largamente sospeso : perché aviene al lettore com’a colui il qual camina per le solitudini, al quale l’albergo par più lontano quanto vede le strade più deserte e più disabitate ; ma i molti luoghi da fermarsi e da riposarsi fanno breve il camino ancora più lungo.

[3] L’asprezza ancora della composizione suol esser cagione di grandezza e di gravità, come in quel verso :

Come a noi il sol, se sua soror l’adombra ;

o ’n quelli altri:

né gran prosperità il mio stato avverso
può consolar del suo bel spirto sciolto ;

e in quelli :

ch'ogni dur rompe, ed ogni altezza inchina ;

e in quelli :

Ella si sta pur come aspr'alpe a l’aura.

Il concorso delle vocali ancora suol producere asprezza o piacevol suono, come in quel verso :

fu consumato, e ’n fiamma amorosa arse ;

e in quelli altri di Dante, ne’ quali non s’inghiottono le vocali, ma si fa quasi una apertura e una voragine :

poi è Cleopatra lussuriosa ;

e in quello :

là onde il Carro già era sparito ;

e in quelli altri :

Queste parole di colore oscuro
vidi io scritte al sommo de la porta ;
Nel ciel che più de la sua luce prende
fui io etc.,

quantunque il concorso dell’i non faccia così gran voragine o iato come quello dell’a e de l’o, per cui sogliamo più aprir la bocca. Tutte queste cose sogliono senza dubbio esser cagion de' medesimi effetti, perché la composizione molle ed eguale è forse più cara e piacevole a gli orecchi, ma non ha luoco nella magnificenza ; però fu molto schifata da monsignor della Casa, perché quel di Dante io non mi risolvo a dire se fosse o artificio o caso ; l’uno e l’altro nondimeno sono somiglianti a colui ch’intoppa e camina per vie aspre ; ma questa asprezza sente un non so che di magnifico e di grande.

[4] I versi spezzati, i quali rientrano l’uno nell’altro, per la medesima cagione fanno il parlar magnifico e sublime, come quelli :

I dì miei, più leggier che nessun cervo,
fuggir com’ombra, e non vider più bene
ch’un batter d’occhio, e poch’ore serene,
ch’amare e dolci ne la mente servo ;

e in quelli parimente :

Ora hai fatto l’estremo di tua possa,
o crudel Morte ; or hai il regno d’Amore
impoverito ; or di bellezza il fiore
e ’l lume hai spento, e chiuso in poca fossa.

In molti altri sonetti ancora del Petrarca, in molti del Bembo, in molti di monsignor della Casa si può osservar il medesimo, ma particolarmente in quello :

O sonno, o de la queta, umida, ombrosa
notte placido figlio ; o de’ mortali
egri conforto, oblio dolce de’ mali
sì gravi ond’è la vita aspra e noiosa ;
soccorri a l’alma ornai, che langue e posa
non ave, e queste membra stanche e frali
solleva ; a me te ’n vola, o sonno, e l’ali
tue brune sovra me distendi e posa.

[5] Ma oltre tutte le cose che facciano grandezza e magnificenza nelle rime toscane è il suono, o lo strepito per cosi dire, delle consonanti doppie che nell’ultimo del verso percuotono gli orecchi, come in quel sonetto lodatissimo dal Bembo :

Mentre che 'l cor da gli amorosi vermi
fu consumato, e 'n fiamma amorosa arse,
di vaga fera le vestigia sparse
cercai per poggi solitari ed ermi ;

e in quell’altro :

Al cader d’una pianta che si svelse
come quella che ferro o vento sterpe,
spargendo a terra le sue spoglie eccelse,
mostrando al sol la sua squallida sterpe,
vidi un’altra ch’Amor obietto scelse,
subietto in me Calliope ed Euterpe ;
che ’l cor m’avinse, e proprio albergo felse,
qual per tronco o per muro edera serpe ;

e in quegli altri versi d’una canzone :

A le pungenti, ardenti e lucide arme,
a la vittoriosa insegna verde,
contra cui in campo perde
Giove ed Apollo e Polifemo e Marte.

Conviene ancora ordinare i nomi in guisa che gli ultimi vadano sempre accrescendo, come si conosce nell’essempio pur ora addotto :

A le pungenti, ardenti e lucide armi ;

e in quell’altro :

Il dì s’appressa, e non potè esser lunge,
sì corre il tempo e vola.
Vergine unica e sola,
e ’l cor or conscienzia or morte punge ;

e in quel mio :

né tanto scoglio in mar, né rupe alpestra,
né pur Calpe s’inalza o ’l mauro Atlante.

E ciò conviene particolarmente osservar nell’iperbole o nello smoderamento, nel qual le cose dette in ultimo tanto deono esser accresciute che le prime ci paiano picciole, quantunque fossero grandi per se stesse, come ci mostrò Omero prima degli altri in que’ versi del Ciclope, ne' quali dice ch’egli non è pare a gli uomini c’hanno il nutrimento dalla terra, ma ad uno scoglio o a un colle selvaggio, anzi ad un alto monte che superi gli altri monti :

. . . . . . . . οὐδὲ ὲᾠκει
ἀνδρί υε σιτοφάγῳ, ἀλλὰ ρίῳ ὑλήεντι etc.

[6] Le congiunzioni ancora, essendo raddoppiate, alcuna volta accrescono forza al parlare, come in quel verso di Dante :

S’io avessi le rime ed aspre e chiocce ;

e in quell’altro del Petrarca :

fe’ mia requie a’ suoi giorni e breve e rara ;

e ’n quelli altri :

più leggiera che ’l vento,
e reggo e volvo quanto al mondo vedi ;
al tuo nome e pensieri e ’ngegno e stile.

[7] Alcuna volta ancora la dissoluzione, ch’è contraria alla congiunzione, fa il parlar grande e più magnifico, come in que’ versi :

Cercar m'ha fatto deserti paesi,
fiere e ladri rapaci, ispidi dumi,
dure genti e costumi,
ed ogni error che ’ pellegrini intrica,
monti, valli, paludi e mari e fiumi,
mille lacciuoli in ogni parte tesi ;

ne’ quali il parlar non è affatto disciolto, ma pur vi mancano molte congiunzioni. Ma con maggiore artificio la dissoluzione accresce grandezza in quelli altri :

Fammi sentir di quell’aura gentile
di fuor, s' come dentro ancor si sente ;
la qual era possente,
cantando, d’acquetar gli sdegni e l'ire,
di serenar la tempestosa mente
e sgombrar d’ogni nebbia oscura e vile,
ed alzava il mio stile etc. ;

e ne la seguente stanza :

Fa’ ch’io riveggia il bel guardo, ch’un sole
fu sopra il ghiaccio ond’io solea gir carco ;
fa’ ch'io ti trovi al varco,
onde senza tornar passò il mio core ;
prendi i dorati strali, e prendi l’arco,
e facciamisi udir, sì come sòle,
co ’l suon de le parole
ne le quali io imparai che cosa è amore ;
movi la lingua, ov’erano a tutte ore
disposti gli ami ov’io fui preso, e l’esca
ch’i’ bramai sempre ; e i tuoi lacci nascondi
fra i capei crespi e biondi,
ché ’l mio volere altrove non s’invesca ;
spargi con le tue man le chiome al vento,
ivi mi lega, e puommi far contento.

Ho detto con maggior artificio perché, numerando molte cose, è meglio raddoppiar le congiunzioni, come ci ammonisce Demetrio Falereo, perché l’istessa congiunzione replicata dimostra un non so che d’infinito. Ma questa considerazione non ebbe peraventura il Petrarca in que’ versi :

Non Tesin, Po, Varo, Arno, Adige e Tebro,
Eufrate, Tigre, Nilo, Ermo, Indo e Gange,
Tana, Istro, Alfeo, Garona e ’l mar che frange,
Rodano, Ibero, Ren, Sena, Albia, Era, Ebro.

Tutta volta al Petrarca ciò poteva lecito esser per un’altra cagione, perché il numerar senza congiunzione par che dimostri la fatica del numerare, rimovendosi le parole quasi soverchie. Anzi se la congiunzione fa una cosa di molte, come dice Aristotele, rimovendosi quel ch’è uno per sé, parrà uno esser molte cose, e maggiormente apparirà la moltitudine ; e oltre a ciò il parlar usato in questi versi è di maggior suono e di maggior pienezza. Laonde, benché si debba considerar la ragion di Demetrio, più si dee stimar quella d’Aristotele istesso.

[8] L’antipallage similmente, che si può dire mutazione de’ ca>i, può accrescer la magnificenza del parlare, come in que' versi del Petrarca nel primo Trionfo d’Amore :

Que’ duo pien di timore e di sospetto,
l’uno è Dionisio, e l’altro è Alessandro ;

e in que’ della mia tragedia :

e ’ duo Pesci lucenti il petto e ’l tergo,
l’uno al Borea inalzarsi e l'altro scendere ;

perché, secondo la diritta forma del parlar, si dovrebbe dire : « de’ duo Pesci lucenti l’uno al Borea inalzarsi ». E questa medesima figura, o simile, è forse in quegli altri del Petrarca :

Due rose fresche e colte in paradiso.
.....................................
bel dono, e d’uno amante antico e saggio etc. ;

perché il dritto uso del parlare ricercherebbe che si dicesse : « Un bel dono di due rose fresche, fra duo minori egualmente diviso, fece cangiare il viso a l’uno e all’altro ». Ma senza dubbio nella mutazione de’ casi, quanto più ci allontaniamo dall’uso commune, tanto lo stile diviene più nobile e più sublime.

Porta ancora grandezza nelle figure il non fermarsi ne’ medesimi casi, come in que’ versi del Petrarca che si leggono ne’ Trionfi :

Con questi due cercai monti diversi,
andando tutti e tre sempre ad un giogo ;
a questi le mie piaghe tutte apersi.
Da costor non mi può tempo né luogo
divider mai, si come spero e bramo,
in fin al cener del funereo rogo.
Con costor colsi il glorioso ramo,
onde forsi anzi tempo ornai le tempie.

[9] E ’l cominciar il verso da casi obliqui suole esser cagione del medesimo effetto nel parlare, il quale si può chiamar obliquo o distorto, come in que’ versi :

Del cibo ond’il signor mio sempre abonda,
lacrime e doglia, il cor lasso nudrisco ;

e in quelli altri :

La sera desiar, odiar l'aurora
soglion questi tranquilli e lieti amanti ;

e in quegli altri similmente :

A qualunque animale alberga in terra,
se non se alquanti c’hanno in odio il sole,
tempo da travagliar è quanto è ’l giorno.

[10] E ’l duplicare le parole ancora è ornamento ch’arrichisce e fa magnifica la poesia ; e possono addursi per essempio que’ versi :

Veramente siam noi polvere ed ombra,
veramente la voglia cieca e ’ngorda,
veramente fallace è la speranza.

Ma in altri modi ancora si posson replicar le parole, cioè non cominciando la replica dal principio, ad imitazione del Petrarca, il qual disse :

Nestor, che tanto seppe e tanto visse.

E si possono replicare in due versi seguenti, come io replicai in un mio sonetto al signor Pietro Antonio Caracciolo :

Ma che ? La mia Fortuna è la mia Parca ;
perché Febo m’è scarso, e secco il fonte
io ritrovo in Parnaso, e secco il lauro.

Ma particolarmente gonfia il parlare la voce raddoppiata s’ella sarà grande per significazione o per suono, come quella :

Di qua da lui, chi fece la grand’arca,
e quel che cominciò poi la gran torre.

[11] Ha del grande ancora l’allegoria ; però fra tutte le canzoni del Petrarca si può dare il principato a quella :

Nel dolce tempo della prima etate ;

ma da una stanza sola si posson conoscer l'altre :

Ella parlava sì turbata in vista
che tremar mi fea dentro a quella pietra,
udendo : « I’ non son forse chi tu credi ».
E dicea meco : « Se costei mi spetra,
......................................
a farmi lagrimar, signor mio, riedi »,

e quel che segue. E la medesima grandezza si può conoscere nell’allegoria di quell’altra canzone :

D'un bel diamante quadro, e mai non scemo,
vi si vedea nel mezzo un seggio altero
ove, sola, sedea la bella donna :
dinanzi, una colonna
cristallina, ed ivi entro ogni pensiero
scritto, e fuor tralucea sì chiaramente
che me fea lieto, e sospirar sovente.

Ma altissima, oltre tutte l’altre di questa e d’ogn’altra lingua, è quella allegoria de la statua ch’avea la testa d’oro, e il petto d’argento, e l’altre parti di ferro e rame, e ’l piè di terra cotta, quantunque Dante la prendesse dalla sacra scrittura. Simile a questa è l’altra nel Purgatorio, dopo l’invocazione :

Or convien Elicona per me versi,
ed Urania m’aiuti co ’l suo coro
forte cose a pensar mettere in versi.
Poco più oltre sette alberi d’oro etc. ;

anzi tanto maggiore quanto la dignità della Chiesa è maggior di quella dell’Imperio. E raggionevolmente fu detto che l’allegoria fosse simile alla notte e alle tenebre ; laonde ella dee esser usata ne’ misteri, e per conseguente ne’ misteriosi poemi, come è il poema eroico. Però molte cose sono scritte dell’allegoria d’Omero, e particolarmente Porfirio compose un picciol libretto dell’antro d’Omero. Aristotele non fa menzione dell’allegoria, non perch’egli non la conoscesse, ma perché questo nome allora non era in uso. La conobbe Platone similmente, ma non la chiamò con questo nome quando egli disse nel Fedro, ragionando in persona di lui e di Socrate :

FEDRO. O Socrate, pensi che questa favola sia vera ? SOCRATE. Già s’io no ’l pensassi, come pensano i savi, non sarebbe però sconvenevole la mia opinione. Dapoi, interpretando le cose, direi che ’l vento Borea gittò dalle vicine pietre Oritia mentre scherzava con Farmacia ; e però, essendo morta in tal guisa, si finge che da Borea fosse rapita. V’è un’altra fama, che non da questo luogo, ma da un altro fosse rapita ; ma io, o Fedro, stimo queste cose assai piacevoli, ma d’uomo troppo curioso e affannato e non aventuroso, non per altra cagione se non perché gli sarebbe necessario interpretar la forma de’ Centauri e delle Chimere ; vi concorre ancora una moltitudine di Gorgoni e di Pegasi e d’altre imagini mostruose ; onde s’alcuno di queste cose porterà altra opinione di quella che si narra, e vorrà ridurre ciascuna d’esse a senso conveniente, fidandosi d’una rustica sapienza, averà bisogno d’ozio soverchio.

Ma s’egli chiama «rustica sapienza» quella di coloro ch’abitano in villa, dove Socrate non volle mai abitare, dice, per mio aviso, il vero senza alcun dubbio, perché l’investigazione di sì fatte cose conviene ad uomo poco occupato ; tutta volta Platone, che non volle interpretarle, lasciò a molti altri filosofi la cura, anzi la noia, dell’interpretazione non solo di quel suo Glauco maritimo, ma del Tartaro e de’ fiumi che passano sottoterra, de’ quali abbiamo la dichiarazione in alcuno de’ suoi interpreti e nel comento d’Olimpiodoro sovra Aristotele. Da Plotino ancora è dechiarato quel che significhino le Parche e ’l fuso fatale e ’l simolacro d’Èrcole ; anzi non è favola delle sue (che sono molte), che da varii filosofi non sia ampiamente illustrata. Possiamo adunque affermare ch’egli non biasimasse l’allegoria, ma non la nominasse né si degnasse d’esser l’interprete. Fra i primi che la nominarono fu Demetrio Falereo. Plutarco dopo lui, nel libro Dell’udire i poeti, lasciò scritte queste o somiglianti parole : « Appresso Omero tacitamente è ascosa una sorte di dottrina di non inutile contemplazione, massimamente nelle favole interposte fra le narrazioni ; le quali, con l’annotazioni de gli antichi, e, come ora dicono, con allegorie, alcuni vanno torcendo e volgendo in altro sentimento, e dicono che l’adulterio di Marte e di Venere significa che, nel congiungimento del Sole con la stella di Venere, Marte sia causa dell’adultera generazione, la qual, per la presenza del Sole e per la vicinanza, non può essere occulta». Dichiara appresso la favola del cesto di Venere, e alcune altre similmente ; e non è ricusata questa difesa de’ poeti che, fra l’altre sue, o fu ricusata d’Aristotele, o, com’io stimo, non considerata ; direi non conosciuta, ma dubito alcuna volta che l’enigma e l’allegoria non siano cose diverse ; laonde, s’Aristotele parlò dell’enigma, parlò dell’allegoria, ma con altro nome. Nondimeno se l’enigma è una questione da scherzo e giocosa, come si legge appresso Ateneo, non pare che sia una cosa medesima. Ma se gli enigmi o simboli di Pitagora non sono proposti per giuoco, ma per ammaestramento della vita, potrebbe facilmente l’enigma e l’allegoria essere l’istesso di spezie, o di genere almeno. Dell’una e dell'altro si vagliono i poeti. Con l’allegoria è difeso, anzi è lodato Omero non solamente da’ già detti scrittori, ma da molti altri, come si legge in Ateneo fra’ Greci, e fra’ Latini in Macrobio nel Sogno di Scipione, ove dechiara che significhi che Giove e gli altri iddii vadano al convito dell’Oceano. Ma infinite sono l’interpretazioni date a’ sensi misteriori de gli autori delle due lingue più famose. Nella nostra toscana favella Dante, oltre tutti gli altri, accrebbe riputazione all’allegorie, perché nel suo maggior poema non è parte che non sia allegorica ; ma egli non dechiara se stesso, benché accenni alcuna volta che ’l velo sia molto sottile. Nelle canzoni egli medesimo manifesta la sua intenzione, e nel comento c’insegna che quattro sono i sensi : il literale, il morale, l’allegorico e l'anagogico ; de’ quali il primo è assai semplice e inteso senza difficultà, il secondo è per ammaestramento de' costumi, gli altri dui servono più alla parte intellettiva ; ma 'l terzo conduce alla speculazione delle cose inferiori, il quarto a quella delle superiori, e con l’uno e con l’altro si possono scusare gli errori che sono fatti dal poeta nell’imitazione ; ma se la difesa è con qualche difetto del primo senso, e congiunta con difetto nel decoro, e con qualche bruttezza o sconvenevolezza nelle cose imitate, non è buona né lodevole difesa. Però Aristotele non la numerò fra l'altre ; e se l'allegoria fosse perfezione accidentale nel poema, non sarebbe raggionevole che potesse scusare i vizii dell’arte, che sono vizii per sé. L’enigma ancora non fu rifiutato da’ poeti, come si legge in Sofocle di quello che la Sfinge propose ad Edippo ; e Teodette nella medesima tragedia, per relazione d’Ateneo, ci descrive la notte e la giornata con questo enigma :

Germanae geminae, gignit quarum altera semper
alteram, et inde parens fit filia nata vicissim.

Ma non era questo luogo di trattar dell’enigma o dell’allegoria, se non considerandoli come figure di parlare ; però soverchiamente e quasi a caso n’ho sì lungamente discorso, dovendo ciò fare in altro luogo più opportuno ; seguirò dunque il primo proponimento.

[12] Magnifica similmente è quella figura che da’ Latini è detta reticenza, perch’ella suol lasciar sospizioni di cose maggiori di quelle che son dette, bench’alcuna volta non apporti tanta magnificenza, come è quella nell’Inferno quando scende l’Angelo per aprir le porte, e Virgilio aspetta il suo venire :

Attento si fermò com’uom ch’ascolta ;
che l’occhio no ’l potea menar a lunga
per l’aer nero e per la nebbia folta.
« Pur a noi converrà vincer la punga »
cominciò ei, « se non . . . Tal ne s’offerse :
oh quanto tarda a me ch’altri qui giunga ! »
I' vidi ben si come ei ricoperse
lo cominciar con altro che poi venne,
che fur parole a le prime diverse.
Ma nondimen paura il suo dir dienne,
perch’ i’ traeva la parola tronca
forse a piggior sentenzia ch’e’ non tenne.

L'essempio ancora di questa figura è ne’ Trionfi del Petrarca in quel luogo :

Ma non si ruppe almeno ogni vel, quando
sola, i tuoi detti, te presente, accolsi,
« Dir più non osa il nostro amor » cantando ?

Ma gravissima oltre tutte l'altre è quella di Virgilio nell‘Eneide, nella quale Nettuno irato ritiene la colera e le parole insieme :

Quos ego . . . Sed motos praestat componere fluctus.

[13] Ma in somma l’epifonema (così la chiamano i Greci) par che avanzi tutte l’altre, e somiglia le pompe de’ ricchi, nelle quali è sempre qualche cosa la quale è soverchia. Laonde questa figura si può dividere in due parti, l’una delle quali serva all’intelligenza, l’altra all’ornamento. Serve all’intelligenza quel verso e ’l mezzo che segue :

di sé, nascendo, a Roma non fe’ grazia,
a Giudea sì ;

e sono gli altri per ornamento :

tanto sovra ogni stato
umiltate essaltar sempre gli piacque.

Della medesima figura la prima parte è in que’ versi :

Le stelle e 'l cielo e gli elementi a prova
tutte lor arti ed ogni estrema cura
poser nel vivo lume, in cui natura
si specchia, e ’l sol, cli’altrove par non trova.

Ma con grandissimo ornamento seguita poi l’altra :

L’opra è sì altera, sì leggiadra e nova
che mortai guardo in lei non s’assecura ;
tanta negli occhi bei for di misura
par ch’Amore e dolcezza e grazia piova.

E in quegli altri, se non bastano alla dechiarazione i primi :

poco vedete, e parvi veder molto,
ch’ in cor venale amor cercate o fede.
Qual più gente possedè,
colui è più da’ suoi nemici avolto.

Gli altri abondano nella ricchezza dello stile :

O diluvio raccolto
di che deserti strani,
per inondar i nostri dolci campi!

Può parer questa figura simile all’entimema, cioè allo sillogismo imperfetto, ma sono differenti : perché l’entimema s’usa per provare, e questo per adornare. Laonde più tosto si pone in suo luogo la sentenza la qual sia con l’esclamazione; e benché non sia questa figura, nondimeno occupa la sua sede, come quella :

O nostra vita, ch'è si bella in vista,
com perde agevolmente in un mattino
quel ch’in molti anni a gran pena s’acquista !

Anzi, se crediamo a Teone sofista, la sentenza che dopo la narrazione d'alcuna cosa insegni e adorni, parimente è sentenza e insieme epifonema.

[14] Ma non è minor cagione di grandezza e d’ornamento, a mio giudizio, la prosopopea, nella quale si danno persona e voce e parole alle cose inanimate, come il Petrarca in que’ versi a Fiorenza :

L’aspetto sacro de la terra vostra
mi fa del mal passato tragger guai,
dicendo : «Sta su, misero, che fai?»
E la via di salire al ciel mi mostra.

E l’usar la definizione in vece del nome, come fece il Petrarca che, parlando del lauro, disse :

de l’arbor che né sol cura né gelo.

E ’l salir quasi per gradi, figura che da’ Latini è detta gradatio, e da' Greci non si convien meno al magnifico ch’al grave dicitore. L’essempio l’abbiamo in Dante :

onde la vision crescer conviene,
crescer l’ardor che di quella s’accende,
crescer lo raggio che da esso viene.

Ma questa è peraventura mescolata con la repetizione, o con la replica che vogliamo dirla ; semplice è quell’altra :

Noi siamo usciti fuore
del maggior corpo al ciel ch’è pura luce :
luce intellettual, piena d’amore ;
amor di vero ben, pien di letizia ;
letizia che trascende ogni dolzore.

[15] Dice della metafora similmente molte cose Demetrio Falereo, e, seguendo il giudizio d’Aristotele, loda più quella che pone le cose in atto, com’abbiamo già conchiuso; e questa, al mio giudizio, particolarmente conviene al poeta, perciò ch’egli è imitatore; e gli convengono ancora le similitudini e le comparazioni assai più ch’all’oratore, il quale schiva le troppo lunghe, come son quelle di Dante :

un fracasso d’un suon, pien di spavento.
.................................
non altrimenti fatto che d’un vento
impetuoso per gli aversi ardori,
che fier la selva senza alcun rattento :
i rami schianta, abbatte e porta fuori ;
dinanzi polveroso va e superbo,
e fa fuggir le fere e li pastori.

E quelle del Petrarca nella battaglia tra madonna Laura e Amore :

Non sì fa grande e sì terribil suono
Etna qualor da Encelado è più scossa,
Scilla e Cariddi quando irate sono.

Il Boccaccio vide quel ch'era conveniente, come in quella della Teseide:

né saria tal, s’aggiunto ancor qui fosse
quel che Lipari fece, o Mongibello,
o Strongilo, o Vulcan, quando più scosse ;
o quando Giove più crucciato il fello
Tifeo di spavento più percosse,
tonando forte, non fu quanto quello.

E molte altre somiglianti se ne leggono in questi tre poeti toscani. Ma quelle più dell’altre si convengono al magnifico dicitore nelle quali non si ritrova solamente similitudine, ma l’ornamento e l'accrescimento.

[16] Oltre le forme assegnate dal Falereo a questa forma magnifica del dire, ve ne sono per aventura alcune altre egualmente da lei ricercate, fra le quali è la prima la conversione, come quella :

Rettor del cielo, io chieggio
che la pietà che ti condusse in terra
ti volga al tuo diletto almo paese.
Vedi, signor cortese,
di che lievi cagion che crudel guerra.

Dapoi l’esclamazione :

O mondo, o pensier vani ;
o mia forte ventura a che m’adduci !

massimamente s’ella è fatta con qualche sdegno, com’in que’ versi :

Ahi nova gente oltra misura altera,
irreverente a tanta ed a tal madre !

[17] Si può annoverar con queste il pervertimento dell’ordine, quando si dice innanzi quel che devrebbe esser detto dopo ; perché al magnifico dicitore non si conviene una esquisita diligenza. Questo usò il Petrarca in que’ versi :

di là dove Amor l’arco tira ed empie ;

e in quell’altro :

Amor con tal diletto m'unge e punge.

E quando si pone per lo tutto la parte, figura che da’ Greci e da’ Latini fu detta sineddoche, come quella :

umida gli occhi e l’una e l’altra gota,

benché alcuni vogliano che sia più tosto greca construzione. E la parentesi, o interposizione che vogliamo chiamarla, come quella :

A qualunque animale alberga in terra,
se non se alquanti c’hanno in odio il sole,
tempo è da travagliare.

E quella ch’è da’ grammatici detta endiadys, in que’ versi :

dove vanno a gran pena uomini ed arme.

E la figura detta zeugma, la qual si fa quando il verbo o ’l nome discorda nella voce da quello a cui si rende, ma concorda nel significato ; di cui si ritrovano alcuni essempi in Virgilio :

pars in frusta secant ;

e l’altro :

Hic manus ob patriam pugnando vulnera passi.

E ’l Boccaccio nella Teseide fece questa figura nel numero, ad imitazione del primo luogo :

E ’n guisa tal, la turba sì piangente
co’ fuochi i corpi morti consumaro.

E Dante nell'Inferno fece l’altra nel genere solo :

Supin giaceva in terra alcuna gente.

E la trasportazione delle parole, perch’ella s’allontana dall’uso commune, come quella :

che ’ belli, onde mi struggo, occhi mi cela.

E 'l perturbar l’ordine naturale, posponendo quelle che doveriano esser anteposte, come :

per la nebbia entro de’ miei duri sdegni.

[18] E l'hiperbaton, che si può dir distrazione o interponimento, di cui si ha l'essempio :

Quel che d’odore e di color vincea
l’odorifero e lucido oriente,
frutti, fiori, erbe e frondi, onde il ponente
d’ogni rara eccellenzia il pregio avea,
dolce mio lauro.

[19] E l’abondanza, che pleonasmo fu chiamata nell’altre lingue, a me par che mostri molta magnificenza ne’ molti aggiunti, come in quelli :

santa, saggia, leggiadra, onesta e bella ;

e in quelli altri :

A le pungenti, ardenti e lucide arme.

E alcuna particella soverchia suol far quasi il medesimo effetto ; e n’abbiamo l’essempio in quel verso :

Orso, e’ non furon mai fiumi né stagni ;

e in quel :

talché mi fece, or quando egli arde il cielo,

benché questa possa parere uso leggiadro più tosto.

[20] E quella nella qual il verbo s’accorda co ’l nome più vicino, e negli altri bisogna supplire, come :

Ivi era il curioso Dicearco,
ed in suoi magisteri assai dispari
Quintiliano e Seneca e Plutarco ;

cioè: «ivi erano».

[21] E commune ancora a questa figura, nella quale il numero singolare concepisce il plurale, è quella figura la quale attribuisce a duo quello ch’è proprio d’uno : ha similmente del magnifico, percioché dimostra un certo disprezzo della soverchia diligenza ; e questa fu usata da Omero quando egli disse nell’Iliade :

...........................................
Βορέης καὶ Ζέφυρος, τώ τε Θρῄκηζεν ἄητον

cioè : « due venti perturbano il mare piscoso, Zefiro e Borea, i quali spirano da Tracia » ; essendo proprio di Borea solamente lo spirar da Tracia, perché Zefiro soffia dall’occaso, come vogliono i gramatici, quantunque Strabone difenda questo luogo altrimenti nel primo della Geografia, mostrando che Zefiro ancora spira dalla Tracia a coloro che sono nell’isola di Lenno e nella Samotracia. Tutta volta di questa sorte de sillepsi abbiamo altri essempi ; e in questa guisa parlò figuratamente il Petrarca dicendo :

e ’n quali spine
colse le rose, e ’n quai piagge le brine,

perché l'esser colte si conviene alle rose, ma non alle brine.

[22] E l’apposizione nella quale si congiungono due nomi sostantivi, come quella :

Arbor vittoriosa e trionfale,
onor d’imperatori e de i poeti ;

e quell’altre :

rotte l'arme d’Amore, arco e saette.

[23] Oltre le quali se ne potrebbono per aventura ritrovar alcune altre conosciute da’ retori o da’ gramatici ; ma bastano quelle delle quali sin ora abbiamo ragionato, in questa forma di parlare sublime e magnifica, nella quale non abbiamo stimate le più minute divisioni e compartimenti. E perché la forma sublime e magnifica è proprio dell’eroico, e quantunque possa mescolarsi con l’altre, nondimeno il poeta eroico è detto magnifico e sublime dicitore, non sarà necessario trattar dell’altre forme così lungamente ; ma non tralasciaremo in tutto alcune figure che possono essere usate nel poema eroico, né gli altri ammaestramenti i quali deono esser da lui considerati. Nel parlar ornato e grazioso (ch'in questo modo voglio chiamar quello che di Latini è chiamato «venusto», e da’ Greciγλαφυρός) sono alcune piacevolezze e alcuni scherzi e giuochi per così dire, maggiori e più nobili, che sono propri de’ poeti lirici, altri più umili, che si convengono alla comedia. Scherzi convenienti a’ poeti lirici son quelli meravigliosi:

qual fior cadea su ’l lembo,
qual su le treccie bionde,
ch’oro forbito e perle
eran quel dì a vederle ;
qual si posava in terra, e qual su l'onde ;
qual con un vago errore
girando parea dir : « Qui regna Amore ».

A.’ comici sono convenienti quelli che mordono, e a gli scrittori della satira parimente, e quelli ancora che non son molto lontani della buffoneria. Ma Omero usò gli scherzi per acerbità, e scherzando parve terribile ne’ suoi motti, come in quel del Ciclope :

Οὖτιν ἐγὼ πύματον ἔδομαι.

E parte di questa acerbità ritenne l’Ariosto nel suo poema, come nella spelunca dove Orlando trova Isabella, sopragiungendo i malandrini, dice un di loro :

Ecco augel nuovo,
a cui non tesi, e ne la rete il trovo.

E la risposta d'Orlando muove riso con sdegno :

Sorrise amaramente, in piè salito.
Orlando, e fe’ risposta al mascalzone :
« Io ti venderò Tarme ad un partito
che non ha mercatante in sua ragione ».

[24] Ma le grazie particolarmente convengono alla poesia lirica, e all’eroica quasi prestate da lei, e gli imenei, gli amori e le liete selve e i giardini e l'altre cose somiglianti, delle quali è piena la poesia del Petrarca, e particolarmente quelle due canzoni :

Se ’l pensier che mi strugge,

e quell’altra :

Chiare, fresche e dolci acque ;

e quella ancora :

In quella parte dove Amor mi sprona,

la quale è piena di vaghissime similitudini, ma quella è meravigliosa oltre tutte l’altre :

Non vidi mai dopo notturna pioggia
gir per l’aere sereno stelle erranti,
e fiammeggiar fra la rugiada e ’l gielo,
ch'i’ non avesse i begli occhi davanti,
ove la stanca mia vita s’appoggia,
quali io gli vidi a l’ombra d’un bel velo ;
e sì come di lor bellezze il cielo
splendea quel dì, così bagnati ancora
li veggio sfavillar, ond’io sempre ardo.
Se ’l sol levarsi sguardo,
sento ’l lume apparir che m’innamora ;
se tramontarsi al tardo,
parmel veder quando si volge altrove,
lassando tenebroso onde si move.

Ne’ Trionfi ancora la casa d’Amore è descritta con la medesima vaghezza e con la medesima felicità, come si può conoscer in que’ versi :

E rimbombava tutta quella valle
d’acque e d’augelli, ed eran le sue rive
bianche, verdi, vermiglie, perse e gialle ;
rivi correnti di fontane vive
al caldo tempo su per l’erba fresca,
e l’ombra folta, e l’aure dolci estive ;

e in molti altri del medesimo Trionfo. Né si dipartì da questa imitazione il Poliziano, il quale nella descrizione della casa d’Amore versò quasi tutti i fiori e tutte le grazie della poesia. Grandissima lode ancora meritò in questa maniera di poetare il signor Bernardo Tasso, mio padre, nelle canzoni, nelle sestine, nelle ode, negli inni e ne l’epitalamio fatto nelle nozze del duca Federico (il quale fu per aventura il primo che si leggesse in questa lingua), e nel suo maggior poema e in tutte l’altre sue poesie ; ma si posson legger con meraviglia la canzone della Notte, e quella nella quale loda il giorno in cui nacque Antiniana, e l’inno a Pane, e alcun’altre ch’io tralascio per brevità.

[25] Ma in questa forma di poetare al lirico e all’eroico non dee peraventura esser conceduta la medesima licenza, perciò che in ciascuna forma, oltre il numero, sono considerate l’elocuzioni e i concetti ; e non è dubbio che maggior non sia la virtù de’ concetti della bellezza delle parole ; ma quando uno discordasse da gli altri, si conoscerebbe in loro quella disconvenevolezza la qual si vedrebbe in uom di contado vestito di robba. Per ischivarla adunque, è convenevole di vestire i concetti grandi con elocuzione magnifica, sì come fece il Petrarca ; ma Dante ne’ sonetti e nelle canzoni non ebbe sempre la medesima avertenza. Ma potrebbe forse alcuno dubitare di quel che s’è detto, perché se ciò fosse vero, usando il lirico i medesimi concetti ch’usa l’eroico, lo stile dovrebbe esser l’istesso. A questo io rispondo che ’l lirico e l’eroico alcuna volta trattano peraventura delle medesime cose, cioè degli dii e degli eroi e delle vittorie, ma non usano sempre i medesimi concetti. Laonde dalla varietà de’ concetti nasce in loro la diversità dello stile, più che da quella delle cose, quantunque questa ancora non sia picciola cagione di tal diversità ; perciò che la materia del poeta lirico non è determinata, quantunque Orazio ne la Poetica gli assegnasse qualche soggetto, ma si spazia per tutte le cose e per tutte le materie proposte, come l’oratore ; e benché alcuna volta mostri timore di cantar le cose grandi, come dimostrò Orazio, tuttavolta il suo proprio soggetto sono le lodi degli iddii e degli eroi, e quelle di Bacco particolarmente ; però la poesia ditirambica fu nobilissima parte di questa poesia che melica è detta da Marco Tullio ; comunque sia, usa alcuni concetti suoi propri, che non sono così convenienti al tragico e all’epico. Non direi dunque che la poesia lirica prendesse la forma dalla dolcezza del numero, e dalla sceltezza delle parole, e dalla pittura de' traslati, e da gli altri colori, e da gli altri lumi dell’elocuzione, come alcuno ha giudicato, ma più tosto dalla piacevolezza, dalla grazia e dalla beltà de’ concetti, da’ quali trapassa alcuna volta nell’elocuzione un non so che di lascivo e di ridente.

[26] Ma consideriamo come il lirico e l’eroico poeta nelle medesime cose usino diversi concetti. Ci dimostra Virgilio la bellezza d’una donna nella persona di Didone :

regina ad templum, forma pulcherrima Dido,
incessit magna iuvenum stipante caterva.
Qualis in Eurotae ripis aut per iuga Cynthi etc.

Simplicissimo concetto è quello : forma pulcherrima Dido ; hanno alquanto di maggior ornamento gli altri, ma non tanto che siano soverchi. Ma se questa medesima bellezza devesse descrivere il Petrarca, non si contenterebbe di questa gravità di concetti, ma direbbe che la terra si gloria d’esser tocca da’ suoi piedi, che l’erbe e i fiori desiderano d’esser calcate da lei e che hanno riposti i suoi vestigi, che ’l cielo percosso da’ suoi dolci rai s'infiamma d’onestà e che si rallegra d’esser fatto sereno da sì begli occhi, che ’l sole si specchia nel suo volto non trovando altrove paragone ; e inviterebbe Amore che si fermasse a contemplar la sua gloria. Ma paragoniamo altri luoghi dell’uno e dell’altro, acciò che questa verità si conosca di leggieri. Descrivendo Virgilio l’abito di Venere cacciatrice, disse :

dederatque comam diffunderc ventis ;

ma il Petrarca v’aggiunse :

Erano i capei d'oro a l’aura sparsi
ch’in mille dolci nodi gli avolgea ;

e l’uno e l’altro conobbe il convenevole nella sua poesia, perché Virgilio superò tutti i poeti eroici di gravità, il Petrarca tutti gli antichi lirici di vaghezza, e niuno più se gli avicinò del Tasso. Si loda ne l’eroico quello :

ambrosiaeque comae divinum vertice odorem
spiravere.

Ma forse soverchie sariano state quell'altre vaghezze :

e tutto il ciel, cantando il suo bel nome,
sparser di rose i pargoletti Amori.

Descrive Vergilio l’innamorata Didone che sempre avea fisso il pensiero nell’imaginato Enea, e dice :

illuni absens absentem auditque videtque.

Intorno all’istessa materia trova concetti meno acuti e men gravi, ma più vaghi il Petrarca :

Io l’ho più volte (or chi fia che me ’l creda ?)
ne l’acqua chiara e sopra l’erba verde
veduto viva, e nel troncon d’un faggio,
e ’n bianca nube si fatta che Leda
avria ben detto che sua figlia perde,
come stella che ’l sol copre co ’l raggio.

E di simili concetti nell’istessa materia è quasi piena tutta quella canzone :

In quella parte dove Amor mi sprona.

Or consideriamo come Vergilio descriva il pianto di Didone :

Sic effata, sinum lacrymis implevit obortis ;

bastava tanto per una vedova. Molto maggior ornamento ne’ concetti e nelle parole cerca nel duodecimo, ponendoci innanzi gli occhi il pianto di Lavinia :

Accepit vocem lacrymis Lavinia matris
flagrantes perfusa genas, cui plurimus ignem
subiecit rubor et calefacta per ora cucurrit.
Indum sanguineo veluti violaverit ostro
si quis ebur vel mixta rubent ubi lilia multa
alba rosa ; tales virgo dabat ore colores.

Fioriti concetti son questi, e quasi convenevoli al lirico ; ma più meravigliosi sono quelli altri, né si converrebbono a poeta che non fosse innamorato :

Amor, senno, valor, pietade e doglia
facean piangendo un più dolce concento
d’ogn’altro che nel mondo udir si soglia ;
ed era il cielo a l'armonia sì intento
che non si vedea in ramo mover foglia,
tanta dolcezza avea pien l’aere e ’l vento.

Semplicissimi concetti son quelli di Vergilio nel descrivere l’aurora :

humentemque Aurora polo dimoverat umbram ;
Oceanum interea surgens Aurora reliquit.

Con più ornamento fu descritto il nascer dell’aurora dal Petrarca :

Il cantar novo e ’l pianger degli augelli
in su ’l dì fanno risentir le valli,
e ’l mormorar de’ liquidi cristalli
giù per lucidi rivi freschi e snelli.

[27] Nel paragone dunque dell’eccellentissimo epico e dell’eccellentissimo lirico chiaramente si manifesta che la diversità dello stile nasce dalla diversità de’ concetti. Laonde, quando Virgilio vuol descriver le cose con grandissimo ornamento, non è agguagliato da lirico alcuno, come appare più manifestamente nella descrizione della medesima notte :

Nox erat, et placidum carpebant fessa soporem
corpora per terras, silvaeque et saeva quierant
aequora, quum medio volvuntur sydera lapsu,
quam tacet omnis ager, pecudes pictaeque volucres,
quaeque lacus late liquidos quaeque aspera dumis
rura tenent, somno positae sub nocte silenti,
lenibant curas et corda oblita laborum.

Più brevemente la descrisse il Petrarca, nondimeno usò alcuni degli istessi concetti in que’ versi :

Or che ’l cielo e la terra e ’l vento tace,
e le fere e gli augelli il sonno affrena,
notte il carro stellato in giro mena,
e nel suo letto il mar senz’onda giace.

E quinci si può raccoglier che, se l’epico e ’l lirico trattasse le medesime cose co’ medesimi concetti, adoprerebbe per poco il medesimo stile. Possiamo dunque concluder che le parole seguono i concetti, e ’l verso parimente. Ma di questa materia trattaremo nel fine del libro che segue, più lungamente.