LIBRO TERZO

[1] Credono molti, illustrissimo Signore, che delle scienze e dell'arti più nobili sia avenuto come de’ popoli e delle provincie e delle terre e de’ mari, molti de’ quali non erano ben conosciuti da gli antichi, ma di nuovo son ritrovati oltre le Colonne d’Ercole verso occidente, o vero di là da gli altari che pose Alessandro nell’oriente ; e rassimigliano costoro gli ammaestramenti dell’arte poetica e della retorica alle mete e a’ segni i quali son posti per termini a’ timidi naviganti. Ma sì come io non biasimo l’ardire guidato dalla ragione, così non lodo l’audacia senza consiglio, parendomi pazzia ch’altri voglia fare arte del caso, virtù del vizio e prudenza della temerità, e tutto concedere alla fortuna, la qual ha minor parte nell’operazioni dell’ingegno che nelle fatiche del corpo ; tutta volta in quelle medesime che si fanno con la parte men nobile, cerchiamo di moderare i fortunosi avenimenti e di restringerli quasi sotto alcuna legge. Laonde molto più debbiamo considerare l’operazioni dell’intelletto, a cui sempre è proposto a guisa di segno un obietto medesimo nel quale ei rimira : e questo è il vero, il quale non si muta giamai né sparisce a gli occhi della mente. Ma l’Orse si celano a coloro ch’avendo passato Abila e Calpe, navigano nell’ampissimo Oceano ; nondimeno altre stelle sono in quello emispero con le quali essi deono reggere il corso (altrimente non avrebbono arte alcuna del navigare), e possono in qualche modo schifare l’incostanza delle maritime cose con la costanza delle celesti. Ma quanto sono più stabili, quanto più vere, quanto più certe le cose intellettuali, alle quali drizziamo l’intelletto ! E se pur tal volta consideriamo le cose verisimili, non possiamo aver altra notizia di loro se non quella che ci dà la cognizione del vero. Però andiamo formando l’idee delle cose artificiali ; nella quale operazione ci pare d'esser quasi divini e d’imitare il primo Artefice. Ma qualunque sia questo nostro artificio, da niuno altro può esser meglio estimato. Legga dunque V. S. illusstrissima quel ch’io discorro con lei quasi in un ragionamento, perché s’egli è gran difficoltà il ritrovare il vero fra le cose verisimili, il giudicarlo non è minor lode, o alla filosofia men conveniente.

[2] Scelta ch’averà il poeta materia per se stessa capace d’ogni perfezione, gli rimane l’altra assai più difficile fatica, che è di darle forma e disposizion poetica ; intorno al quale officio, come intorno a proprio soggetto, quasi tutta la virtù dell’arte si manifesta. Ma però che quello che principalmente constituisce e determina la natura della poesia, e la fa dall’istoria differente, non è il verso, come dice Aristotele (perché facendosi in versi l’istoria d’Erodoto non sarebbe meno istoria), ma è il considerare le cose non come sono state, ma in quella guisa che dovrebbono essere state, avendo riguardo più tosto all’universale che alla verità de’ particolari, prima d’ogn’altra cosa dee il poeta avertire se nella materia, ch’egli prende a trattare, sia avvenimento alcuno il quale, altrimente essendo succeduto, fosse più meraviglioso o verisimile, o per qualsivoglia altra cagione portasse maggior diletto ; e tutti i successi che si fatti troverà, cioè che meglio in un altro modo potessero essere avvenuti, senza rispetto alcuno di vero o d’istoria a sua voglia muti e rimuti, ordini e riordini, e riduca gli accidenti delle cose a quel modo ch’egli giudica migliore, mescolando il vero col finto, ma in guisa che 'l vero sia fondamento della favola, come insegna Aristotele nella Retorica e Alessandro Piccolomini nel suo libro Delle stelle.

[3] Questo essempio ci diede Omero, il quale ci ammaestra con la favola e con l'istoria (come disse Dion Crisostomo, e prima di lui Strabone scrisse) che i poeti interpongono la falsità nelle cose vere e le favole nelle vere contemplazioni, come fa colui che fonde l’oro intorno all’argento. Ebbe opinione il medesimo autore che la licenza de’ poeti abbia queste tre parti : l’istoria, la favola e la disposizione ; e che ’l fine dell’istoria sia la verità, della disposizione l'espressione, della favola il piacere ; ma che ’l fingere tutte le cose non convenga, né paresse ad Omero conveniente. Virgilio ancora negli errori d’Enea e nella guerra fatta fra lui e Latino non scrisse solamente le cose che vere estimò, ma quelle che giudicò migliori e più eccellenti : perché non solo è falso l'amore e la morte di Didone, e favoloso quello che scrive di Polifemo e dello scender d’Enea all’inferno, ma le battaglie fra lui e i popoli del Lazio descrive altrimente di quelle ch’avennero secondo la verità, come si conosce chiaramente paragonando il suo poema con l’istoria di Dionigio Allicarnasseo e d’altri greci e latini c'hanno scritto davanti e dopo lui. Egli in Didone confuse di tanto spazio d’ordine de’ tempi con quella figura che da’ Greci è detta ἀναχρονισμός;, o più tosto con quella licenza che fu prima di Platone e de’ poeti greci, ch’introdussero insieme a ragionare persone vissute in secoli differenti, come nota Ateneo nel Convito de' dinosofisti. Questa licenza fu parimente d’Ovidio nelle sue Trasformazioni, nel fine delle quali Pitagora, italiano filosofo, ammaestra Numa re de’ Romani, quantunque sia più certa opinione che Pitagora nascesse doppo qualche centinaio di anni. La medesima dottrina o ’l medesimo artificio del mescolare il vero co ’l falso o co ’l finto si può raccogliere da Orazio, e da Plutarco nel principio della Vita di Teseo, da Macrobio nel Sogno di Scipione e da Servio sovra Virgilio, e molto prima da’ platonici scrittori e da Platone medesimo e da Senofonte nel suo Ciro ; e quantunque egli non fosse poeta, ma filosofo e istorico, nondimeno, nell’aver risguardo all’universale e all’idea, fu più somigliante a’ poeti ch’agli istorici ; ma di questa mescolanza non fu lodato « Erodoto di greca istoria padre », e ne gli oratori fu biasimata. Laonde Isocrate riprende Policrate dell’errore e della confusione de’ tempi, nella quale, seguendo la favolosa licenza de’ poeti, finge che fussero in un medesimo tempo Ercole e Busiride, avvenga che molto prima nascesse Busiride, sì come colui che fu anteriore a Perseo di anni più di ducento ; e Perseo nacque avanti ad Ercole quattro secoli intieri, talché tra il primo e l’ultimo furono interposte sei età. Con queste autorità e de’ nuovi e de’ vecchi scrittori può esser difeso Virgilio ; ma egli forse cercò occasione di mescolare tra la severità dell’altre materie i piacevoli raggionamenti d’amore, quantunque seguisse la morte di Didone, fiero e infelice avvenimento ; o più tosto volle assignare un’alta ed ereditaria cagione delle inimicizie tra Romani e Cartaginesi, nella quale fu poi imitato da Silio Italico, ch’introduce Annibaie giovanetto, anzi fanciullo, a giurare perpetua inimicizia contra i Romani, così persuaso da Amilcare suo padre. Ma con l’artificiosa narrazione della rovina e dell’incendio di Troia rimosse Virgilio da gli animi quella suspizione che s’ebbe d’Enea : perché egli fu sospetto di tradimento, come dice Servio ; e con le parole dette da Diomede agli ambasciatori de’ Latini l’onorò più che non avea fatto Omero nella sua Iliade ; e v’aggiunse la favola di Polifemo, della Sibilla, e la conversione delle navi in ninfe per accoppiare il maraviglioso col verisimile ; e raccontò diversamente la morte di Turno, non volle far menzione di quella d’Enea, se non accennando ch'egli al fine accrescerebbe il numero de gl’iddii, v’aggiunse quella d’Amata, mutò gli avvenimenti e l’ordine delle battaglie per accrescer la gloria d’Enea e terminar con un fine più perfetto il suo nobilissimo poema. A queste finzioni fu molto favorevole l’antichità de’ tempi.

[4] Ma non dee peraventura la licenza de’ poeti stendersi tanto oltre ch’ardisca di mutar l’ultimo fine dell’imprese ch’egli prende a trattare, o pur narrare al contrario di quello che sono avenuti alcun degli avvenimenti principali e più noti, che già sono ricevuti per veri nella notizia del mondo. Simile audacia mostrarebbe colui che descrivesse Roma vanta e Cartagine vincitrice, o Annibaie vincitore in campo aperto di Fabio Massimo, non con arte tenuto a bada, quantunque si legga ne’ Paralelli di Plutarco che Fabio nella guerra africana fusse mandato da’ Romani con cinquecento soldati contra Annibaie, e che, spronando furiosamente il cavallo, gli cavasse il diadema e poi gli morisse appresso, avendo prima ricevuta una mortalissima ferita. Simile sarebbe stato l’ardire d’Omero, se fosse vero quel che falsamente da alcuni si dice, benché a proposito della loro intenzione :

che’ Greci rotti, e che Troia vittrice,
e che Penelopea fu meretrice.

Alle quali parole prestando peraventura credenza il Bolognetto, e’ si propose per fine della favola la liberazione di Valeriano imperatore, il quale se ne morì nella prigione di Sapore, re di Persia ; ma non tanto era felice il suo poema per due nobilissime guerriere celebrate nell’istorie, dico Zenobia e Vittorina (ch’egli chiama Vittoria), quanto infelice per il suo fine ; pur egli volea mutarlo, ma questo era un privare affatto la poesia e l’istoria della sua autorità. Dalla qual ragione mosso, io conclusi che l’argomento dell’epopeia dovea esser fondato sovra qualche istoria o sovra qualche verità. E quantunque Dion Crisostomo, in una orazione che scrive a quelli d’Ilio, si sforza di provare che Troia non fusse presa, non fu peraventura sua intenzione di biasimare Omero, ma di mostrare il modo col quale i poeti dicono le menzogne per ingannare, mutando e rimutando l’ordine delle cose, come a loro pare il meglio. Tanta emulazione era della gloria tra gli scrittori di prosa e ’ poeti ! Ma Tessalo, figliuolo d’Ippocrate, scrisse che le guerre di Troia non furono favolose, e molti istorici fanno testimonianza del medesimo, e fra gli altri « Erodoto di greca istoria padre ». Lasci dunque il nostro epico l’origine e il fine dell’impresa, e alcune cose più illustri e ricevute per fama, nella loro verità o poco o nulla alterata ; muti poi, se così gli pare, i mezzi e le circostanze, confonda i tempi e l’ordine dell’altre cose, e in somma si dimostri più tosto artificioso poeta che verace istorico, ricordandosi spesso di quel detto di Plutarco nel libro Della fortuna de’ Romani, cioè che l’uomo il qual nasconde la bugia nell’antichità de’ tempi, è simile a colui che ricovera da’ luoghi chiari e luminosi negli opachi e tenebrosi. Ma se ne la materia, ch'egli s’avrà proposta, saranno alcuni avvenimenti a punto come dovrebbon essere succeduti, che deve fare il poeta ? Può forse narrarli, sì veramente che poetica sia la narrazione, non spogliandosi della persona del poeta per vestirsi quella dell’istorico ; perché può alle volte avvenire ch’altri come poeta, altri come istorico tratti le medesime cose, ma saranno da loro considerate con diverso rispetto, perché l’istorico le narra come vere, e ’l poeta l’imita come verisimili. E se io non credessi che Lucano fosse poeta, a ciò non mi moverebbe quella ragione che persuade gli altri, cioè ch’egli abbia perduto questo nome per la narrazione delle cose veramente avvenute. Questo solo non basta, per giudizio d’Aristotele, il quale dice: κἂν ἂρα συμβῇ γενόμενα ποιεῖν, ούδὲν ἧττον ποιητής ἐστι etc. etc.; cioè, se ’l poeta s’avverrà ad alcune di quelle cose che sono state veramente, non riman d’esser poeta, perché non si vieta che delle cose fatte alcune sieno com’è verisimile che fossero fatte, o possibile; secondo le quali è poeta. Ma se Lucano non è poeta, ciò aviene perché s’obliga alla verità de' particolari, e non ha tanto risguardo all’universale: come pare a Quintiliano, è più simile all’oratore ch’ai poeta. Oltre a ciò, l’ordine osservato da Lucano non è l’ordine proprio de’ poeti, ma l’ordine dritto e naturale in cui si narran le cose prima avvenute ; e questo è commune all’istorico. Ma nell’ordine artificioso, che perturbato chiama il Castelvetro, alcune delle prime deono esser dette primieramente, altre posposte, altre nel tempo presente deono esser tralasciate e riserbate a miglior occasione, come insegna Orazio. Prima deono esser dette quelle senza le quali non s’avrebbe alcuna cognizione dello stato delle cose presenti ; ma se ne posson tacer molte, le quali scemano l'espettazione e la meraviglia, avenga che il poeta debba tenere sempre l’auditore sospeso e desideroso di legger più oltre. Ma non voglio già ostinatamente affermare che l’ordine artificioso sia nell’uno e nell’altro poema d’Omero; ma se nell’uno è il naturale, nell’altro è l’artificioso senza fallo, perché, secondo l’ordine della natura, le cose prima succedute, o siano parte della favola o non siano, dovrebbono esser prima raccontate. Ma nell’ordine naturale ancora non dee cominciar il poeta da principio troppo remoto e, come dice Orazio, ab ovo. Però in questa parte merita maggior lode e minor riprensione Lucano di Stazio, perché l’uno, volendo cantar delle guerre civili, mette Cesare su ’l passo del Rubicone, dove, giudicato nemico dal senato, fu costretto a far la guerra, l’altro comincia dalle furie e dalle maledizioni d’Edippo, che furono prima e fatal cagione della discordia fra Eteocle e Polinice. Nondimeno Lucano ancora avrebbe fatto meglio s’avesse posto Cesare in Tessaglia e collocatolo a fronte a Pompeo, e l’altre cose prima contenute avesse fatto raccontare. Simile nell’ordine a Stazio e a Lucano è Silio Italico; però prepongo a tutti il Petrarca in quanto alla disposizione della favola e all'ordine ch’egli tenne nell'Africa, lasciando a gli altri il giudizio della lingua e dell’elocuzione ; ma ne gli affetti amorosi ancora è maraviglioso, come ho detto nell’altro libro. Ma seguitiamo in questo a parlar dell’altre cose necessarie.

[5] Poi che avrà il poeta ridutto il vero e i particolari dell’istoria al verisimile e all’universale, che è proprio dell’arte sua, procuri che la favola (favola chiamo la forma del poema che difinir si può testura, o composizione de gli avvenimenti o delle cose), procuri, dico, che la favola ch’indi vuol formare sia intiera, o tutta che vogliam dire, sia di convenevol grandezza, e sia una. E sovra queste tre condizioni distintamente e con quell’ordine che le ho proposte discorrerò.

[6] Tutta o intiera dee esser la favola, perché in lei la perfezione si ricerca ; ma perfetta non può esser quella cosa ch’intiera non sia. La perfezione e l’integrità si trovarà nella favola s’ella avrà il principio, il mezzo e l’ultimo. Principio è quello che necessariamente non è dopo altra cosa, e l'altre cose son dopo lui. Il fine è quello che è dopo l’altre cose, né altra cosa ha dopo sé. Il mezzo è posto fra l’uno e l’altro, ed egli è dopo alcune cose, e alcune n’ha dopo sé. Ma per uscire alquanto dalla brevità delle difinizioni, dico che intiera è quella favola che in se stessa ogni cosa contiene ch’alia sua intelligenza sia necessaria, e le cagioni e l’origine di quella impresa che si prende a trattare vi sono espresse, e per li debiti mezzi si conduce ad un fine il quale niuna cosa lassi o non ben conclusa o non ben risoluta : come veggiam aver fatto Omero nell’Odissea, il quale, prima con le peregrinazioni di Telemaco a Nestore e a Menelao, e poi con le narrazioni d’Ulisse fatte ad Alcinoo, dechiara perfettamente lo stato delle cose e quel che fusse avvenuto dopo che Ulisse partì da Troia ; Virgilio parimente col racconto d’Enea a Didone. E quantunque il poeta rapisca l’auditore nel mezzo delle cose come le fossero note, nondimeno a poco a poco lo va poi informando di quello che prima è succeduto. Ma l’Orlando inamorato e ’l Furioso non sono intieri, e sono difettosi nella cognizione di quel che loro appartiene : manca al Furioso il principio, manca all’Inamorato il fine ; ma nell’uno non fu difetto d’arte, ma colpa di morte, nell’altro non ignoranza, ma elezione di finire ciò che dal primo fu cominciato. Che l'Inamorato sia imperfetto non vi fa mestieri prova alcuna ; che non sia intiero il Furioso è parimente manifesto, però che se noi vorremo che l’azione principale di quel poema sia l’amor di Ruggiero, vi manca il principio, se vorremo che sia la guerra di Carlo e d’Agramante, parimente il principio è desiderato: perché quando o come fosse preso Ruggiero dall’amor di Bradamante non vi si legge, né meno quando o in che modo gli Africani movessero guerra a’ Francesi, se non forse in uno o in due versi accennato; e molte volte i lettori nella cognizione di queste favole andarebbono al buio se dall’Inamorato non togliessero ciò ch’alla lor cognizione è necessario. Ma si dee, come ho detto, considerare l'Orlando innamorato e ’l Furioso non come due libri distinti, ma come un poema solo, cominciato dall’uno e con le medesime fila, benché meglio annodate e meglio colorite, dall’altro poeta condotto al fine ; e in questa maniera riguardandolo, sarà intiero poema, a cui nulla manchi per intelligenza delle sue favole. Questa condizione dell’integrità mancarebbe parimente nell'Iliade d’Omero, se vero fosse ch’avesse preso la guerra troiana per argomento del suo poema ; ma questa opinione è falsa, benché sia da molti antichi approvata, e da Orazio medesimo, il quale chiamò Omero «scrittore della guerra troiana» ; e se Omero istesso è buon testimonio della propria intenzione, non la guerra troiana, ma l’ira d’Achille si canta nell 'Iliade:

Μῆνιν ἄειδε, ζεά, Πηληιάδεω Ἀχιλῆος
οὐλομένην, ἥ μυρίˋ Ἀχαιοῖς ἄλγεʾ ἔζηκε,
πολλὰς δʼἰφζιμους ψυχὰς Ἄιδι προΐαψεν
ἡρώων.

E tutto ciò che della guerra troiana si dice, propone di dirlo come dipenda dall’ira d’Achille, e come azione ch’accresca la grandezza della favola e l’ira dell’offeso figliuolo di Peleo ; ma le sue cagioni e l’origini si narrano compiutamente nella venuta di Crisa sacerdote e nella concessione di Criseide e di Briseide, talché la favola con perpetuo filo sino al fine è condotta, cioè sino alla pace fra Achille e Agamennone, cagionata dalla morte di Patroclo. Laonde perfettissima è quella favola, la quale contiene tutto ciò ch’è necessario per la cognizione di se stessa, né le conviene accattare altronde cose estrinseche. Si può peraventura riprendere alcun moderno poema nel quale è necessario ricorrere a quella prosa che dinanzi per sua dichiarazione porta scritta, però che questa tal chiarezza che si ha dagli argomenti e da altri sì fatti aiuti, non è né artificiosa né propria del poeta, ma estrinseca e mendicata.

[7] Ma essendosi trattato a bastanza della prima condizione richiesta alla favola, passiamo alla seconda, cioè alla grandezza, né paia o soverchio o disconvenevole se, essendosi già ragionato della grandezza in quel luogo ove della elezione della materia si tratta, ora se ne parli ove l’artificio della forma si dee considerare : perch’ivi a quella grandezza s’ebbe riguardo che portava seco nel poema la materia nuda, qui a quella grandezza s’avrà considerazione che viene nel poema dall’arte del poeta co ’l mezzo de gli episodii.

[8] Ricercano le forme naturali, come insegna Aristotele ne’ libri Della natura, una determinata grandezza, e sono circonscritte dentro a certi termini del più e del meno, da i quali né con l’eccesso né co ’l difetto è lor concesso d’uscire. Ricercano similmente le forme artificiali una quantità determinata : né potrà la forma della nave introdursi in un grano di miglio, né meno nella grandezza del monte Olimpo; però ch’allora si dice esservi introdutta la forma non in vano che l’operazione propria e naturale di quella tal forma vi s’introduce ; ma non potrà già trovarsi l’operazione della nave, ch’è di solcare il mare e di condurre gli uomini e le merci dall’uno all’altro lido, in quantità ch’ecceda di tanto o di tanto manchi. Tale ancora è forse la natura de’ poemi ; ma non voglio però che si consideri sino a quanta grandezza possa crescer la forma del poema eroico, ma insino a quanta grandezza sia convenevole che s’accresca. Senza alcun dubbio maggior dee essere la favola epica della comica e della tragica, la quale aveva due termini, l’uno artificioso, l’altro privo d’arte : senza artificio era il tempo assegnatole dalla clepsidra, ma prendeva artificiosamente il suo termine dalla mutazione della fortuna felice nell’infelice, o dall’avversa alla prospera ; e questo termine istesso legitimo e naturale è chiamato d’Aristotele, d’Averroè e da gli altri commentatori, esponendo quelle parole : κατ᾿αὐτὴν τὴν φύσιν τοῦ πράγματος ὅρος; quasi l’arte abbia non solamente le sue leggi, ma la sua natura medesima. Ma non so che l’epopeia avesse alcuna misura o termine estrinseco, quantunque io abbia letto in Ateneo e ne gli altri che l'Iliade e l'Odissea soleano essere recitate nella scena. Ma senza fallo dee avere il suo termine naturale e artificioso, il quale nelle favole doppie può esser constituito e quasi fisso ne' duo contrari estremi della mutazione di fortuna ; ma nelle favole simplici non so dove questo termine si possa fermare, se pure non vogliamo che la memoria sia giusta estimatrice della grandezza del poema. Grande senza fallo conviene che sia quel del poema che dee esser bello, perché sì come ne’ corpi piccioli può esser leggiadria, ma beltà e perfezione non mai), così nelle picciole poesie si loda più tosto la grazia e l’acume che la bellezza o la perfezione. È necessaria dunque la grandezza, ma non dee eccedere il convenevole in guisa che si rappresenti Tizio «lo qual disteso nove campi ingombra » ; percioché le cose troppo smoderate danno sospizione di non esser una, come dice Aristotele ne’ Problemi ; ma l’unità nella favola è necessaria, come appresso proveremo. Sia dunque grande a bastanza, ma non soverchiamente. Ma sì come l’occhio è dritto giudice della grandezza del corpo, così il giudicare la quantità de' poemi s'appartiene alla memoria. Grande dunque sarà convenevolmente quella poesia in cui la memoria non si perda né si smarisca, ma, tutta unitamente comprendendola, possa considerare come l’una cosa con l’altra sia congiunta e dall’altra dependente. Ma viziosi senza dubbio sono quei poemi che sono simili a i corpi che non possono esser rimirati in un’occhiata, e in buona parte perduta è l’opera che vi si spende; ne’ quali di poco ha il lettore passato il mezzo che del principio si è dimenticato; però che vi si perde quel diletto che dal poeta, come principale perfezione, dee esser con ogni studio ricercato. Questo è come l’uno avvenimento dopo l’altro necessariamente o verisimilmente succeda, come l’uno con l’altro sia legato e dall'altro inseparabile, e come da una artificiosa testura de’ nodi nasca una intrinseca e verisimile e inespettata soluzione. E per aventura chi l'Innamorato e ’l Furioso come un solo poema considerasse, gli potria parere la sua lunghezza soverchia anzi che no, e non atta ad esser contenuta in una simplice lezione da una mediocre memoria.

[9] Dopo la grandezza siegue l’unità, che fu l’ultima condizione da noi alla favola attribuita. Questa è quella parte, cortesissimo Signor, la quale ha data a i nostri tempi occasione di varie e lunghe contese a coloro «che ’l furor literato in guerra mena». Però che alcuni necessaria l’hanno giudicata, altri all’incontra hanno creduto la moltitudine delle azioni al poema eroico più convenirsi ; et magno iudice se quisque tuetur : facendosi i defenson della unità scudo dell’autorità d'Aristotele, della maestà de gli antichi greci e latini poeti, né mancando loro quelle armi che dalla ragione sono concedute, hanno per avversarii l’uso de’ presenti secoli, il consenso universale delle donne e cavalieri e delle corti, e, sì come pare, l’esperienza ancora, infallibile paragone della verità : veggendosi che l’Ariosto, il quale, lasciando le vestigia de gli antichi scrittori e le regole d’Aristotele, ha molte e diverse azioni nel suo poema abbracciate, è letto e riletto da tutte l’età, da tutti i sessi, noto a tutte le lingue, piace a tutti, tutti il lodano, vive e ringiovenisce sempre nella sua fama, e vola glorioso per le lingue de’ mortali ; ove il Trissino all’incontro, che i poemi d’Omero religiosamente si pensò d’imitare, e d’osservare i precetti d’Aristotele, mentovato da pochi, letto da pochissimi, muto nel teatro del mondo e morto alla luce, sepolto a pena nelle librarie e nello studio d’alcun letterato si ritrova. Né mancano in favor di questa parte, oltre l’esperienza, saldi e gagliardi argomenti, però che alcuni uomini dotti e ingegnosi, o perché così veramente credessero, o pur per mostrar la forza dell'ingegno loro e farsi graziosi al mondo, lusingando a guisa di tiranno (ché tale è veramente) questo consentimento universale, sono andati investigando nove e sottili ragioni, con le quali l’hanno confermato e fatto più forte. Ma come che abbia costoro in somma riverenza per dottrina e per eloquenza, e l’Ariosto per le medesime cagioni e per felicità d’ingegno e di stile, dico nondimeno che non dee esser seguito nella moltitudine dell’azioni, la quale può bene essere scusabile nell’epopeia rivolgendo la colpa a comandamento de’ signori o ad altra ragione sì fatta ; ma la scusa sarà più tosto della fortuna che dell’arte, e fia scompagnata d’ogni lode.

[10] Né per temerità o a caso mi muovo a così dire, ma per molte ragioni, le quali, o vere o verisimili che siano, possono in me confermare questa opinione. Perché se la pittura e l’altre arti imitatrici ricercano che d’uno una sia l’imitazione ; se i filosofi, che vogliono sempre l’esatto e ’l perfetto, fra le principali condizioni richieste ne’ lor libri vi cercano l’unità del soggetto, la qual cosa mancandovi, imperfetto lo stimano ; se nella tragedia e nella comedia è da tutti giudicata necessaria, dee esser necessaria ancora nel poema eroico, non apparendo niuna causa per la qual questa unità, cercata da’ filosofi, seguita da’ pittori e da’ scultori, ritenuta da' comici e da’ tragici, debba esser dall’epico fuggita e disprezzata. E se l’unità porta in sua natura perfezione, e imperfezione la moltitudine, se i pitagorici numerano l’una fra’ beni e l’altra fra’ mali, se questa alla materia s’attribuisce e quella alla forma, perché nella buona favola ancora dell’epopeia non sarà ricercata l’unità ? Oltre a ciò, presupponendo che la favola sia il fine del poeta (come afferma Aristotele, e niuno ha sin qui negato), s’una sarà la favola, uno sarà il fine, se più e diverse saranno le favole, più e diversi saranno i fini; ma quanto meglio opera quel che riguarda ad un sol fine di colui il qual diversi fini si propone, tanto ancora sarà più lodato l’imitatore d’una sola favola e d'una sola azione. Aggiungo che dalla moltitudine nasce l’indeterminazione, e questo progresso potrebbe andare in infinito, senza che le sia dall’arte prefisso o circonscritto termine alcuno. Laonde dice Aristotele ne' Problemi che noi più volentieri sogliamo udire quelle istorie ch’espongono una cosa solamente, dell’altre dalle quali più ne sono raccontate, perché siamo più attenti alle cose e possiam meglio intendere le più note. Ma l’uno è più noto perch’è definito ; all’incontro le cose che son molte participano dell’infinito. Il poeta ch’una favola tratta, finita quella, è giunto al suo fine ; chi più ne tesse, o quattro o sei o dieci ne potrà tessere, né più a questo numero che a quello è obligato. Non potrà aver dunque determinata certezza qual sia quel segno ove convenga fermarsi. Ultimamente, la favola è la forma essenziale del poema ; laonde, se più saranno le favole, l'una delle quali dall’altra non dependa, più saranno conseguentemente i poemi. Essendo dunque questo, che chiamiamo un poema di più azioni, non un poema, ma una moltitudine di poemi insieme congiunta, o quei poemi saranno perfetti, o imperfetti ; se perfetti, bisognerà ch’abbiano la debita grandezza ; e avendola, ne risulterà una mole più grande assai che non sono i volumi de’ legisti ; s’imperfetti, è meglio a far un solo poema perfetto che molti imperfetti. Lascio da parte che se questi poemi son molti e distinti di natura, come si prova per la moltitudine e distinzion delle favole, avranno molto del confuso col mescolare le membra dell’uno con quelle dell’altro. Ma perché io ho detto che il poema di più azioni è una confusione di molti poemi, e prima dissi che l'Orlando innamorato e ’l Furioso erano un sol poema, non si noti contrarietà nella mia opinione, però che qui intendo la voce esattamente secondo il suo proprio e vero significato, e ivi la presi come comunemente s’usa : un sol poema, cioè una sola composizione d’azioni ; come si direbbe, una sola istoria e un sol libro. Da queste ragioni mosso peraventura Aristotele, o d’altre ch’egli vide e a me non sovengono, determinò ch’una fosse la favola del poema. Ma a questa quasi legge della Poetica (la qual fu come buona accettata da Orazio là dove egli disse : «Ciò che si tratta, sia semplice e uno») varii con varie ragioni hanno ripugnato, escludendo da que’ poemi eroici che romanzi si chiamano l’unità della favola, non solo come non necessaria, ma come dannosa eziandio. Ma non voglio referir già tutto ciò ch’intorno a questa materia è detto da loro, perché alcune cose si leggono in alcuni assai leggiere e indegne di risposta. Solo addurrò quelle ragioni che con maggior similitudine di verità confermano questa opinione, le quali in somma a quattro si riducono, e sono queste.

[11] Il romanzo (così chiamano il Furioso e gli altri simili) è specie di poesia diversa dalla epopeia, e non conosciuta da Aristotele ; per questo non è obligata a quelle regole che dà Aristotele della epopeia. E se dice Aristotele che l’unità della favola è necessaria nell’epopeia, non dice però che si convenga a questa poesia di romanzi, non conosciuta da lui. Aggiungono la seconda ragione. Ogni lingua ha dalla natura alcune condizioni proprie e naturali di lei, ch’a gli altri idiomi per niun modo convengono ; il che apparirà manifesto a chi andrà minutamente considerando quante cose nella greca favella hanno grazia ed efficacia meravigliosa, della quale son prive nella latina, e quante ve ne sono, ch’avendo forza e virtù grandissima nella latina, la perdono nella toscana, e riescono fredde e quasi sciocche. Ma fra l’altre condizioni che porta seco la nostra favella italiana, una è questa, cioè la moltitudine delle azioni ; e sì come a’ Greci e Latini disconvenevole sarebbe la moltitudine delle azioni, così a’ Toscani l’unità della favola non si conviene. Oltre a ciò, quelle poesie sono migliori che dall’uso sono più approvate, appo il quale è l’arbitrio e la podestà così sovra la poesia come sovra l’altre cose ; e di ciò fa testimonianza Orazio ove dice :

quem penes arbitrium est et ius et norma loquendi.

Ma questa maniera di poesia che romanzo si chiama, è più approvata dall’uso ; migliore dunque dee esser giudicata. Ultimamente così concludono : quello è più perfetto poema che meglio conseguisce il fine della poesia ; ma molto meglio è conseguito dal romanzo che dalla epopeia, cioè dalla moltitudine che dalla unità delle azioni ; si deve dunque il romanzo all’epopeia preporre. Ma che ’l romanzo meglio conseguisca il fine è così noto che non vi fa quasi mestiero prova alcuna, però che, essendo il fine della poesia il dilettare, maggior diletto ci recano i poemi di più favole che d’una sola, come l’esperienza ci dimostra.

[12] Questi sono i fondamenti sovra i quali si sostiene l’opinione di coloro che la moltitudine delle azioni hanno giudicata ne’ romanzi conveniente : saldi sì, come a lor pare, ma non tanto che dalle machine della ragione non possano esser espugnati (se pur la ragione sta dalla parte contraria, come a me giova di credere); contra i quali la debolezza del mio ingegno non resterò d’adoperare.

[13] Ma vegnamo al primo fondamento, ove si dice : è il romanzo spezie distinta dall’epopeia, non conosciuta d’Aristotele ; per questo non dee cadere sotto quelle regole alle quali egli obliga l’epopeia. Se il romanzo è spezie distinta dall’epopeia, chiara cosa è che per qualche differenza essenziale è distinto, perché le differenze accidentali non possono fare diversità di spezie ; ma non trovandosi fra il romanzo e l’epopeia differenza alcuna specifica, ne segue chiaramente che distinzione alcuna di spezie fra loro non si trovi. Che non si trovi fra loro distinzione alcuna essenziale, a ciascuno agevolmente può esser manifesto. Tre solamente sono le differenze specifiche nella poesia, come nel precedente discorso dicemmo : la diversità delle cose imitate, la diversità d’imitare e la diversità de gl’istromenti co’ quali s’imita. Per queste sole gli epici, i comici, i tragici sono differenti; da queste, se pur vi fosse, nascerebbe la diversità della spezie fra ’l romanzo e l’epopeia. Ma il romanzo imita le medesime azioni, imita col medesimo modo, imita con gli stessi istrumenti ; è dunque della medesima spezie. Imitano il romanzo e l’epopeia le medesime azioni, cioè l’illustri; né solo è fra loro quella convenienza, d’imitar l’illustri in genere, che è fra l’epico e ’l tragico, ma ancora una più particolare e più stretta d’imitare il medesimo illustre: quello, dico, che non è fondato sovra la grandezza de’ fatti orribili e compassionevoli, ma sovra le generose e magnanime azioni degli eroi, e non si determina con le persone di mezzo fra ’l vizio e la virtù, ma elegge le valorose in supremo grado di eccellenza; la qual convenienza d’imitare chiaramente si vede fra’ nostri romanzi e gli epici de’ Latini e de’ Greci. Imita il romanzo e l’epopeia con l’istessa maniera: nell’uno e nell’altro poema vi appare la persona del poeta; vi si narrano le cose, non si rappresentano; né ha per fine la scena e l’azioni degli istrioni, come la tragedia e la comedia. Imitano co’ medesimi istrumenti: l’uno e l’altro usa il verso nudo, al qual non paion necessarii il ritmo e l’armonia, che son ricercati quasi necessariamente da’ versi tragici e da’ comici.

[14] Dalla convenienza, dunque, delle azioni imitate e degli istrumenti e del modo d’imitare si conclude esser la medesima spezie di poesia quella che epica vien detta e quella che romanzo si chiama. Onde poi questo nome di romanzo sia derivato, varie sono l’opinioni, ch’ora non fa mestieri di raccontare ; ma non è inconveniente che sotto la medesima spezie alcuni poemi si trovino diversi per diversità accidentali, i quali con diverso nome siano chiamati; sì come fra le comedie, alcune sono vecchie, altre nuove, altre di mezza età; altre fur dette palliate (le quali furono de’ Greci), altre togate (che furon de’ Romani), e quelle ch’introducevano persone più nobili si dimandorono pretestate ; altre atellane, da Atella, città della Campania ; alcune tabernarie ; alcune altre per l’umiltà dell’argumento fur dette planipedie ; alcune mimi e rintonice. Se dunque il romanzo e l’epopeia sono d’una medesima spezie, agli oblighi delle stesse leggi deono esser ristretti, massimamente parlando di quelle che non solo in ogni poema eroico, ma in ogni poema assolutamente sono necessarie. Tale è l’unità della favola, la quale Aristotele ricerca in ogni spezie di poema, non più nell’eroico che nel tragico o nel comico; onde, se fosse vero ciò che si dice del romanzo, non però ne seguirebbe che l’unità della favola non fosse in lui, secondo il parer d’Aristotele, necessaria. Ma che ciò non sia vero, a bastanza mi pare dimostrato : perché se pur volevano affermare che ’l romanzo è spezie distinta dall’epopeia, conveniva lor dimostrare eh’Aristotele è manco e difettoso nell’assegnare le differenze), come ha creduto alcuno che, dopoi ch’io ebbi scritte alcune di queste cose, commentò la Poetica d’Aristotele, la quale a lui pare un di que’ libri che son detti memoriali, e ciò prova con l’autorità d’Ammonio, forse ingannato della memoria, perché non Ammonio, ma Simplicio sovra i Predicamenti fa menzione de' libri memoriali d'Aristotele; ma perché quelli contenevano varie cose che non erano drizzate ad un fine e ad una intenzione, e nella Poetica tutte sono drizzate ad un medesimo segno, è necessario che quel libro non sia memoriale. E chi ben considera quelle differenze dalle quali par che proceda diversità di spezie fra ’l romanzo e l’epopeia, sono in guisa accidentali che non è più nell’uomo l’esser essercitato nel corso e nella lotta, o saper l’arte dello schermo. Tale è quella che l’argomento del romanzo sia finto, e quello dell’epopeia preso dalla istoria ; che se questa fosse differenza specifica, necessariamente sarebbono diversi di spezie tutti que’ poemi fra’ quali questa differenza si ritrovasse. Diversi dunque di spezie sarebbono il Fior d’Agatone e l’Edippo di Sofocle, e in somma quelle tragedie il cui argumento fosse finto, da quelle che l’avessero dall’istoria; e, secondo la ragione usata da loro, la tragedia d’argomento finto non avrebbe l'obligo di quelle medesime regole che ha la tragedia d’argomento vero. Onde né l’unità della favola sarebbe in lei necessaria, né ’l movere il terrore e la compassione sarebbe il suo fine. Ma questo, senza alcun dubbio, è inconveniente ; inconveniente dunque sarebbe ancora che la finzione o verità dell’argomento fosse differenza specifica.

[15] Del medesimo valore sono l’altre differenze ch’assegnano, e co’ fondamenti dell’istessa ragione si possono confutare. E perché molti hanno creduto che ’l romanzo sia spezie di poesia non conosciuta d’Aristotele, non voglio tacer questo, che spezie di poesia non è oggi in uso, né fu in uso ne gli antichi tempi, né per un lungo volger de’ secoli di novo sorgerà, nella cui cognizione non si debba credere che penetrasse Aristotele con quella medesima sottigliezza d’ingegno con la quale tutte le cose, ch’in questa gran machina Dio e la natura rinchiuse, sotto dieci capi dispose, e con la quale, tanti e sì varii sillogismi ad alcune poche forme riducendo, breve e perfetta arte ne compose. Vide Aristotele che la natura della poesia non era altro che imitare ; vide conseguentemente che la diversità delle sue spezie non poteva in lei altronde derivare che da qualche diversità dell’imitazione, e che questa varietà solo in tre guise potea nascere : o dalle cose, o dal modo, o da gli istromenti. Vide dunque quante potevano essere le differenze essenziali della poesia, e, avendo viste le differenze, vide in conseguenza quante potevano essere le sue spezie; perché, essendo determinate le differenze che costituiscono le spezie, determinate conviene che sian le spezie, e tante solamente quanti sono i modi ne’ quali possono congiungersi le differenze.

[16] Era la seconda ragione ch’ogni lingua ha alcune particolari proprietà, e che la moltitudine delle azioni è propria de’ poemi toscani, come è l’unità de’ latini e de’ greci. Non nego io che ciascuno idioma non abbia alcune forme proprie di lui, però che alcune elocuzioni veggiamo così proprie d’una lingua che ’n altra favella dicevolmente non possono esser trasportate ; però disse Iamblico nel suo trattato De' misteri che ciascuna gente ha alcune cose proprie, le quali non possono esser significate all’altre nazioni, e che le proprietà delle significazioni, interpretate per altra lingua, non conservano l’istessa mente. Avevano i nomi de’ barbari molta efficacia e una concisa brevità, e nella significazione delle cose divine erano a tutti gli altri anteposti, e fu usata gran perseveranza nel conservarli ; ma i Greci furono amatori di cose nuove, e per l’instabilità trasformarono la pura elocuzione. È nondimeno la lingua greca molto atta alla espressione d’ogni minuta cosa ; a questa istessa espressione inetta è la latina, ma molto più capace di grandezza e di maestà ; e la nostra lingua toscana, se bene con egual suono nella descrizione delle guerre non ci riempie gli orecchi, con maggior dolcezza nondimeno ci lusinga nel trattare le passioni amorose. Quello dunque ch’è proprio d’una lingua, o è elocuzione, e ciò nulla importa al nostro proposito, parlando noi d’azioni e non di parole, o pur diremo proprio d’una lingua quelle materie le quali meglio da lei che da altra sono trattate, com’è la guerra della latina e l’amore della toscana. Ma chiara cosa è che, se la toscana favella sarà atta ad esprimere molti accidenti amorosi, sarà parimente atta ad esprimerne uno; e se la lingua latina sarà disposta a trattare un successo di guerra, sarà parimente disposta a trattarne molti; sì ch’io per me non posso conoscere la cagione che l’unità delle azioni sia propria de’ latini poemi e la moltitudine de’ vulgari. Né peraventura cagione alcuna se ne può rendere: perché se costoro a me chiederanno per qual cagione le materie della guerra sono stimate più proprie della latina, e l’amorose della toscana, risponderei che ciò si dice avvenire per le molte consonanti della latina e per la lunghezza del suo essametro, più atte allo strepito delle armi e alla guerra, e per le vocali della toscana e per l’armonia delle rime, più convenevole alla piacevolezza degli affetti amorosi ; ma non però queste materie sono in guisa proprie di questi idiomi che l’arme nella toscana e gli amori nella latina non possano convenevolmente essere cantate da eccellente poeta. Concludendo dunque dico che, se ben è vero ch’ogni lingua abbia le sue proprietà, è detto nondimeno senza ragione alcuna che la moltitudine delle azioni sia propria de’ volgari poemi, e l’unità de’ latini e de’ greci.

[17] Né più malagevole è il rispondere alla terza ragione, la quale era che quelle poesie sono più eccellenti che più sono dall’uso approvate ; onde più eccellente è il romanzo dell’epopeia, essendo più dall’uso approvato. A questa ragione volendo io contradire, conviene che, per maggior intelligenza e chiarezza della verità, derivi da più alto principio il mio ragionamento.

[18] Si ritrovano alcune cose che in sua natura non sono né buone né ree, ma, dependendo dall’uso, buone e ree sono secondo che l’uso le determina. Tale è il vestire, che tanto è lodevole quanto dalla consuetudine viene accettato; tale è forse il parlare, e per ciò fu convenevolmente risposto a colui : «Vivi come vissero gli uomini antichi, e parla come oggidì si ragiona». Quinci avviene che molte parole, che già scelte e pellegrine furono, or, trite dalle bocche degli uomini, comuni, vili e popolaresche sono divenute ; molte all’incontra, che prima come barbare e orride erano schivate, or come vaghe e cittadine si ricevono; molte ne invecchiano, molte ne muoiono, e rinascono e rinasceranno molte altre, come piace all’uso, che con pieno e libero arbitrio le governa; e questa mutazion delle voci fu con la comparazion delle foglie mirabilmente espressa da Orazio :

Ut sylvae foliis pronos mutantur in annos,
prima cadunt, ita verborum vetus interit aetas,
et iuvenum ritu florent modo nata vigentque.

E soggiunge :

Multa renascentur quae iam cecidere, cadentque
quae nunc sunt in honore vocabula, si volet usus,
quem penes arbitrium est et ius et norma loquendi.

Per questa ragione concludono i peripatetici, contra quello che alcuni filosofi credettero, che le parole non siano opere dalla natura composte, né più in lor natura significhino una cosa che un’altra (perché se tali fossero, dall’uso non dependerebbono), ma che siano fattura degli uomini, onde, come a lor piace, può or questo or quel concetto esser da esse significato ; e non avendo bruttezza o bellezza alcuna che sia lor propria e naturale, belle e brutte paiono secondo l’uso le giudica ; il quale mutabilissimo essendo, è necessario che mutabili sieno tutte le cose che dependono dalla consuetudine. Tali in somma sono non solo il vestire e ’l parlare, ma tutte quelle che, con un nome comune, si chiamano usanze e foggie. Queste, come il lor nome dimostra, dalla consuetudine al biasimo e alla lode sono determinate. E sotto questa considerazione caggiono molte di quelle opposizioni che si fanno ad Omero intorno al decoro delle persone, come alcuni dicono, mal conosciuto da lui.

[19] Alcune altre cose si ritrovano poi, che tali determinatamente sono in sua natura : cioè o buone o ree sono per se stesse, e non ha l’uso sovra loro imperio o autorità niuna. Di questa sorte è il vizio e la virtù : per se stesso è malvagio il vizio, per se stessa è onesta la virtù, e l’opere virtuose e viziose sono per se stesse e lodevoli e degne di biasimo. E quel che per se stesso è tale, bench’i costumi si variino, sempre nondimeno è sì fatto ; laonde il pascersi di carne umana sempre sarà riputato ferità, benché appresso alcune nazioni fosse in uso; sempre fu e sarà virtù la pudicizia, quantunque le donne spartane fossero riputate men caste; s’una volta meritò lode colui che rifiutò l’oro de’ Sanniti, o colui che «legò sé vivo, e ’l padre morto sciolse», non saran mai biasmati di sì nobile operazione. Di questa sorte sono parimente l’opere della natura ; laonde quel ch’una volta fu eccellente, mal grado della instabilità dell’uso, sarà sempre eccellente. È la natura stabilissima nelle sue operazioni, e procede sempre con un tenore certo e perpetuo (se non quanto per difetto e inconstanza della materia si vede talor variare), perché, guidata da un lume e da una scorta infallibile, riguarda sempre il buono e ’l perfetto ; ed essendo il buono e ’l perfetto sempre il medesimo, conviene che ’l suo modo di operare sia sempre l’istesso. Opera della natura è la bellezza, la qual consistendo in certa proporzion di membra con grandezza convenevole e con vaga soavità di colori, queste condizioni, che belle per se stesse una volta furono, belle sempre saranno, né potrebbe l’uso fare ch’altrimente paressero; sì come all’incontra non può far l’uso sì che belli paiano i capi aguzzi o i gosi fra quelle nazioni ove si veggiano nella maggior parte degli uomini e delle donne. Ma tali in se stesse essendo l’opere della natura, tali in se stesse conviene che siano l’opere di quell’arte che, senza alcun mezzo, della natura è imitatrice. Laonde ragionevolmente da Cicerone nella Topica la natura e l’arte sono annoverate fra le cagioni le quali hanno costanza, perché non sogliono variare i loro effetti, come in quel luogo medesimo dechiara Boezio. E per fermarsi su l’essempio dato, se la proporzion delle membra per se stessa è bella, questa medesima, imitata dal pittore e dallo scultore, per se stessa sarà bella ; e se lodevole è il naturale, lodevole sarà sempre l’artificioso che al naturale s’assomiglia. Quinci avviene che quelle statue di Prassitele o di Fidia che salve dalla malignità de’ tempi ci sono rimaste, cosi belle paiono a i nostri uomini come belle a gli antichi solevano parere ; né il corso di tanti secoli o l’alterazione di tante usanze cosa alcuna ha potuto scemare della loro degnità.

[20] Avendo io in questo modo distinto, facilmente a quella ragione si può rispondere ne la quale si dice che più eccellenti sono quelle poesie che più approva l’uso : perché ogni poesia è composta di parole e di cose. In quanto alle parole ora concedasi (poiché nulla rileva al nostro proposito) che quelle migliori siano che più dall’uso sono commendate, però che in se stesse né belle sono né brutte, ma quali paiono, tali la consuetudine le fa parere ; onde alcune voci che appresso l’imperator Federico e il re Enzo e appo gli altri antichi dicitori furono in prezzo, suonano all’orecchie nostre un non so che di spiacevole. Le cose poi, che dall’usanza dependono, come la maniera dell'armeggiare, i modi dell’aventure, i costumi de’ sacrifìci e de’ conviti, le cerimonie, il decoro e la maestà delle persone, queste, dico, come piace all’usanza che oggi vive e signoreggia il mondo, si possono accomodare. Però disconvenevole sarebbe nella maestà de’ nostri tempi ch’una figliuola di re, insieme con le vergini sue compagne, andasse a lavare i panni al fiume ; e questo in Nausicaa, introdotta da Omero, non era in que’ tempi degno di riprensione. Parimente chi ’n cambio della giostra descrivesse il combatter su i carri, meriterebbe picciola lode ; e molte altre cose simili, che per brevità trapasso. In questa parte non fu lodato il Trissino, ch’imitò in Omero quelle cose ancora che avea rendute men lodevoli la mutazione de’ costumi. Ma quelle che per se stesse sono buone, non hanno riguardo alcuno alla consuetudine, né la tirannide dell’uso sovra loro in parte alcuna si estende. Tale è l’unità della favola, che porta in sua natura bontà e perfezione nel poema, sì come in ogni secolo passato e futuro ha recato e recherà. Tali sono i costumi, non quelli che con nome d’usanze sono chiamati, ma quelli de’ quali formiamo gli abiti, che si possono aggiungere fra le cause costanti, come parve a Boezio, anzi ad Aristotele istesso ; e di loro parla Orazio in que’ versi :

Reddere qui voces iam scit puer et pede certo
signat humum, gestit paribus colludere et iram
colligit et ponit temere : mutatur in horas;

e Aristotele lungamente nella Retorica. A questi costumi del fanciullo, del vecchio, del ricco, del possente, del povero, del nobile e dell’ignobile, quel che in un secolo è convenevole, in ogni secolo è convenevole ; che se ciò non fosse, non n’avrebbe parlato Aristotele, però ch’egli di sole quelle cose fa professione di ammaestrarci che sotto l’arte possono cadere ; e l’arte essendo costante e determinata, non può comprendere sotto le sue regole ciò che, dependendo dalla instabilità dell’uso, è mutabile e incerto. Sì come anco non avrebbe ragionato dell’unità della favola, s’egli non avesse giudicata questa condizione essere in ogni secolo necessaria. Ma mentre vogliono alcuni nova arte sovra nuovo uso fondare, la natura dell’arte distruggono, e quella dell’uso mostrano di non conoscere.

[21] Questa è, Signor mio, la distinzione senza la quale non si può rispondere a coloro che dimandassero quali poemi debbono esser più tosto imitati, o quelli degli antichi epici o quelli di moderni romanzatori ; perché in alcune cose a gli antichi, in alcune a' moderni debbiamo assomigliarci. Questa distinzione, mal conosciuta dal vulgo, che suol più rimirare gli accidenti che la sostanza delle cose, è cagione ch’egli, credendo di conoscer poca convenevolezza di costumi e poca leggiadria d’invenzioni in que’ poemi ne’ quali la favola è una, crede che l’unità della favola sia parimente biasimevole. Questa medesima distinzione, mal conosciuta da alcuni dotti, gli indusse a sprezzar la piacevolezza delle aventure e delle cavallerie de’ romanzi, e il decoro de’ costumi moderni, lodando negli antichi, insieme con l’unità della favola, l’altre parti ancora che ci sono men care e non gradite. Questa, ben conosciuta e ben usata, fia cagione che con diletto non meno degli uomini volgari che de gli intelligenti i precetti dell’arte siano osservati, prendendosi dall’un lato, con quella vaghezza d’invenzioni che ci rendono si grati i romanzi, il decoro de’ nostri tempi, dall’altro, con l’unità della favola, la gravità e la verisimilitudine che si vede ne' poemi d’Omero e di Virgilio.

[22] Resta l’ultima ragione, la qual era ch'essendo il fine della poesia il diletto, quelle poesie sono più eccellenti che meglio questo fine conseguiscono ; ma meglio il conseguisce il romanzo che l’epopeia, come l’esperienza dimostra. Concedasi quel che si può negare, cioè che ’l diletto sia il fine della poesia ; concedo parimente quel che l’esperienza ci dimostra, cioè che maggior diletto rechi a’ nostri uomini il Furioso che l’Italia liberata o pur l’Iliade o l’Odissea. Ma nego però quel ch’è principale e che importa tutto nel nostro proposito, cioè che la moltitudine delle azioni sia più atta a dilettare che l’unità, perché il contrario si prova con l’autorità d’Aristotele e con la ragione ch’egli adduce ne’ Problemi; e benché più diletta il Furioso, il quale molte favole contiene, che altro poema toscano o pur i poemi d’Omero, non avviene per rispetto della unità o della moltitudine, ma per due ragioni, le quali nulla rilevano nel nostro proposito. L’una, perché nel Furioso si leggono amori, cavallerie, venture e incanti, e in somma invenzioni più vaghe e più accomodate alle nostre orecchie; l’altra, perché nella convenevolezza delle usanze e nel decoro attribuito alle persone l’Ariosto è più eccellente de molti altri. Queste cagioni sono accidentali alla moltitudine e all’unità della favola, e non in guisa proprie di quella che a questa non siano convenevoli. Laonde non si dee concludere che più diletti la moltitudine che l’unità. Ma per un’altra cagione peraventura si potrebbe provare : perciò che, essendo la nostra umanità composta di nature assai fra loro diverse, è necessario che d’una istessa cosa sempre non si compiaccia, ma con la diversità procuri or all’una or all’altra delle sue parti sodisfare; essendo dunque la varietà dilettevolissima alla nostra natura, potranno dire ch’assai maggior diletto si trovi nella moltitudine che nella unità della favola. Né già io niego che la varietà non rechi piacere, perché il negar ciò sarebbe un contradire alla esperienza e a’ sentimenti, veggendo noi che quelle cose ancora che per se stesse sono spiacevoli, per la varietà nondimeno care ci divengono, e che la vista de’ deserti e l’orrore e la rigidezza delle alpi ci piace doppo l’amenità de’ laghi e de’ giardini. Dico bene che la varietà è lodevole sino a quel termine che non passi in confusione, e per poco l’unità n’è capace sino a questo termine istesso, perché all’unità, che non è la prima, è accidentale, come dice Boezio, la moltitudine; e la diversità, se sì fatta non si vede in poema d’una azione, si dee credere che sia più tosto imperizia degli artefici che difetto dell’arte ; i quali, per iscusare forse la loro insofficienza, questa lor propria colpa attribuiscono all’arteficio.

[23] Non era per aventura così necessaria questa varietà a’ tempi di Virgilio e d’Omero, essendo gli uomini di quel secolo di gusto non così isvogliato ; però non tanto v’attesero ; maggiore nondimeno in Virgilio che in Omero si ritrova. Gratissima era a’ nostri tempi, e perciò devevano i nostri poeti co’ sapori di questa varietà condire i loro poemi, volendo che da questi gusti sì delicati non fossero schivati ; e s’alcuni non tentaro d’introdurlavi, o non conobbero il bisogno, o il disperare come impossibile. Io e soavissima nel poema eroico la stimo, e possibile a conseguire ; peroché, sì come in questo mirabile magisterio di Dio, che mondo si chiama, e ’l cielo si vede sparso o distinto di tanta varietà di stelle, e, discendendo poi giù di regione in regione, l’aria e ’l mare pieni di ucelli e di pesci, e la terra albergatrice di tanti animali così feroci come mansueti, nella quale e ruscelli e fonti e laghi e prati e campagne e selve e monti sogliamo rimirare, e qui frutti e fiori, là ghiacci e nevi, qui abitazioni e culture, là solitudine e orrori ; con tutto ciò uno è il mondo che tante e sì diverse cose nel suo grembo rinchiude, una la forma e l’essenza sua, uno il nodo dal quale sono le sue parti con discorde concordia insieme congiunte e collegate ; e non mancando nulla in lui, nulla però vi è che non serva alla necessità o aH'ornamento ; cosi parimente giudico che da eccellente poeta (il quale non per altro è detto divino se non perché, al supremo Artefice nelle sue operazioni assomigliandosi, della sua divinità viene a partecipare) un poema formar si possa nel quale, quasi in un picciolo mondo, qui si leggano ordinanze di esserciti, qui battaglie terrestri e navali, qui espugnazioni di città, scaramucce e duelli, qui giostre, qui descrizioni di fame e di sete, qui tempeste, qui incendii, qui prodigii ; là si trovino concilii celesti e infernali, là si veggiano sedizioni, là discordie, là errori, là venture, là incanti, là opere di crudeltà, di audacia, di cortesia, di generosità, là avvenimenti d’amore or felici, or infelici, or lieti, or compassionevoli ; ma che nondimeno uno sia il poema che tanta varietà di materie contegna, una la forma e l’anima sua, e che tutte queste cose sieno di maniera composte che l’una l’altra riguardi, l’una all’altra corrisponda, l’una dall’altra o necessariamente o verisimilmente dependa, sì che una sola parte o tolta via o mutata di sito, il tutto si distrugga. E se ciò fosse vero, l’arte del comporre il poema sarebbe simile alla ragion dell’universo, la qual è composta de’ contrarii, come la ragion musica ; perché s’ella non fosse moltiplice, non sarebbe tutta, né sarebbe ragione, come dice Plotino.

[24] Ma questa varietà si fatta tanto sarà più meravigliosa quanto recherà seco più di malagevolezza e quasi d’impossibilità, non potendo le qualità contrarie ritrovarsi insieme, se non eminentemente come nel cielo, o almeno rintuzzate come ne gli elementi. Nel poema dunque nel quale si congiungesse la tragedia con la comedia, il riso non dovrebbe esser riso se non rintuzzato. È certo assai agevol cosa e di niuna industria il far che ’n molte e separate azioni nasca gran varietà di accidenti ; ma che la istessa varietà in una sola azione si trovi, hoc opus, hic labor est. In quella che nasce dalla moltitudine delle favole per se stessa, arte o ingegno alcuno del poeta non si conosce, e può esser a’ dotti e a gl’indotti comune ; questa in tutto dall’artificio del poeta depende, e conseguita da lui solo si riconosce, né può da mediocre ingegno essere conseguita. Quella tanto meno diletterà quanto sarà più confusa e meno intelligibile ; questa, per l'ordine e per la legatura delle sue parti, non solo sarà più chiara e più distinta, ma porterà molto maggior novità e meraviglia. Una dunque dee esser la favola e la forma, come in ogni altro poema cosi in quelli che trattano l’armi e gli amori de gli eroi e de' cavallieri erranti ; i quali con nome comune son chiamati poemi eroici. Ma una si dice la forma in più guise. Una si dice la forma de gli elementi, la quale è semplicissima e di semplice virtù e di semplice operazione; una si dice parimente la forma delle piante e degli animali : questa mista e composta risulta dalle forme degli elementi insieme raccolte e rintuzzate e alterate, della virtù e della qualità di ciascuna di loro participando. E una si dice la lettera e la parola ; e una, per composizione di molte lettere e di molte parole, è detta l’orazione, sì come insegna Aristotele ne’ libri Dell'interpretazione. E nella poesia l’unità si considera in molti modi, e le favole son dette simplici, o doppie o miste in varii significati. Doppie chiama Aristotele alcune favole nelle quali altre persone passano di felicità in miseria, altre di miseria in felicità ; e la composizione di queste egli biasima nella tragedia, come conveniente all’epopeia. In altra significazione simplici sono le favole di quelle tragedie che non hanno agnizione, né mutamento di felice fortuna in misera, o al contrario ; doppie quelle nelle quali con l’agnizione sono gran rivolgimenti di fortuna. Patetiche o affettuose si dicono quelle in cui è la perturbazione, che fu posta per terza parte della favola. E quelle, all'incontra, le quali sono senza questa parte, ma che più manifestano il costume, sono dette morate o costumate.

[25] Ma questo è luogo senza fallo di dechiarar più minutamente quel che sia la peripezia, l’agnizione e la perturbazione, che son le parti della favola. La peripezia è mutazione delle cose, che si fanno, in contrario ; la qual, come dice Aristotele, si fa o verisimilmente o di necessità ; in contrario, intendiamo dalla prospera nell’avversa fortuna, o dall’avversa nella prospera. Questo secondo modo si conviene all’epopeia, alla comedia o ad alcune tragedie le quali da’ moderni impropriamente son dette tragicomedie ; il primo è proprio della tragedia. Ma alcuna volta la mutazione è doppia, perché altri passa da miseria in felicità, altri da felicità in miseria, come si vede in Carlo e Agramante ; e questa doppia mutazione conviene più all’epopeia ch’a gli altri poemi.

[26] L’agnizione è delle cose inanimate o del fatto o delle persone ; delle cose inanimate, come quella d’Edipo il quale riconosce il bosco sacro alle Furie, e di messer Torello che riconosce la chiesa dov’egli fu portato per arte magica ; ma questa il più volte par che abbia per fine l’altra delle persone. L’agnizione del fatto è più propria degli oratori che de’ poeti, de’ quali è propriissima l’agnizione della persona, la quale è una mutazione dell’ignoranza nella notizia, affine d’amicizia o di nemicizia fra coloro che divengono felici o infelici. Per questa cagione bellissima è l’agnizione s’è congiunta con la mutazione della fortuna, com’è nell'Edipo tiranno. Di queste alcuna è semplice agnizione, altra mutua o vicendevole. Semplice agnizione è quella, nell’Odissea, nella quale Ulisse non conosciuto conosce Eumeo, Euriclea, Telemaco, Penelope, da’ quali al fine è riconosciuto. Doppia o scambievole è nell'Ifigenia in Tauris quando ella riconosce Oreste e da lui è riconosciuta ; o quella di Filotete nella tragedia che fece Sofocle di questo nome, in cui egli riconosce Neottolemo e Ulisse essendo prima conosciuto da loro. Una nondimeno può esser l’agnizione, come appare in alcuni degli essempi già detti ; e alcuna volta l’agnizione è non solamente delle persone vive, ma delle morte, come quella d’Edipo che riconosce Iocasta, sua madre, viva, e Laio, suo padre, morto ; o quella di Tieste che riconosce morti i figliuoli. Ma in sei modi si fa l’agnizione. Nel primo, meno di tutti artificioso, si fa per segni : e questi o sono infissi e colorati nella pelle, come la lancia ne’ figliuoli della Terra nati da’ denti seminati da Cadmo e ne’ loro descendenti, e la stella o la spalla d’avorio ne’ figliuoli e nepoti di Pelope, o le lettere nel petto di Splandiano, come si legge nell’Amadigi ; altri sono accidentali, come la cicatrice d'Ulisse nella gamba, per la qual fu riconosciuto nel bagno, o quella che Beltenebroso avea nel volto fatta dalla lancia d’Archeloro, per cui fu raffigurato dalla donzella di Davismara ; altri sono estrinseci, come la spada per la quale Teseo fu riconosciuto da Egeo suo padre, e la scafa in cui furono esposti Romolo e Remo, ch’essendo portata da Faustulo sotto la vesta, fu cagione che Numitore loro avolo si certificasse de’ nepoti ; e questi ancora possono usarsi più o meno artificiosamente. La seconda maniera d’agnizione non è tanto priva d’artificio, perch’è fatta per le cose finte dal poeta : come, appresso Euripide, Oreste è conosciuto da Ifigenia sua sorella da lor lettera, ed egli riconosce lei ad altri indizii. Ma perché questa nasce più tosto dalla volontà del poeta che dalla composizione della favola, agevolmente incorre nel medesimo errore ; e tale nell’Inferno è peraventura l’agnizione di Cianfa (il quale fu nominato e conosciuto per lo suo nome non perché la favola il ricercasse, ma perché il poeta così volle), e il riconoscimento di Geri del Bello. Il terzo modo di riconoscimento si fa ricordandosi d’alcuna cosa per la quale egli si manifesti e sia riconosciuto : come Ulisse, nel racconto che si fa appresso Alcinoo, pianse per la memoria delle cose udite, e dal pianto fu riconosciuto. Il quarto è per sillogismo : nel qual modo Oreste fu riconosciuto da Elettra in una tragedia d’Eschilo, perché ella in questa guisa argumentò : « Niuno ha le vestigia pari alle mie, se non Oreste ; ma queste vestigia sono eguali a quelle de' miei piedi ; dunque Oreste è qui venuto » ; e nell’Ifigenia di Polide il sofista, Oreste sillogizzò ch’a lui si convenisse d’esser sacrificato, perché la sorella ancora fu offerta al sacrificio ; e fu per questo suo sillogismo riconosciuto dalla sorella con questo altro argumentò : « Se questo è fratello di cui fu offerta al sacrifìcio, è mio fratello ». In questa medesima maniera Agricane riconobbe Orlando, quando gli disse :

Se tu sei cristiano, Orlando sei ;

però ch’egli stimava che niun altro cristiano avesse potuto combatter seco del pari. L’altra spezie d’agnizione si fa nel teatro per paralogismo, o per falso sillogismo, il quale si fa delle cose non conosciute, come s’elle fosser conosciute : in questa guisa nel Falso messaggiero colui che non aveva mai veduto l’arco d’Ulisse disse di riconoscer l’arco, e cercò d’acquistar fede alle cose ch'egli narrava della sua morte. Ma ottima agnizione e bellissima oltre tutte l’altre è quella che nasce dalla composizione della favola stessa ed è congiunta col mutamento della fortuna, com’è quella d’Edipo, e quella d’Alvida nel Torrismondo.

[27] La terza parte della favola è la passione, o la perturbazione che vogliamo dirla, la qual consiste nelle morti che si fanno in publico, e nelle ferite e ne’ lamenti e nell’altre cose ch’apportano dolore ; e, come ad alcuni parve, nell’Iliade d’Omero questa è quella parte nella quale sovra il corpo d’Ettore già morto si lamentarono Priamo, Ecuba, Andromache, Elena.

[28] Ma sì come queste parti variamente si compongono co ’l costume, ne risultano varii generi di favola. Sì che quattro sono i generi, o le maniere o le forme che vogliam dir, di favola : il simplice e ’l doppio, l’affettuoso e ’l morale. E sin ora sono accoppiate, come piace ad Aristotele, in due guise : nell’una s’accoppia il simplice e l’affettuoso, nell’altra il doppio e ’l costumato. Simplice e compassionevole è l'Iliade, morata e doppia è l’Odissea. Ma peraventura si possono congiungere in due altre guise : nell’una potrà stare il scempio e ’l costumato, nell’altra il doppio e ’l perturbato. Anzi, se la peripezia o ’l rivolgimento è cagione di perturbazione, non veggio come questa coppia potesse meglio congiungersi insieme ; e s’ella si congiunge nella tragedia, non so perché non si possa congiungere e accoppiare nell’epopeia. Ma in un altro modo ancora s’intende la favola esser doppia o mista : cioè quando ella contenga in sé molti argomenti e quasi molte favole ; la qual mescolanza si può trovare ancora in quelle favole che non hanno mutazione di fortuna congiunta co ’l riconoscimento, come non ha l’Iliade, in cui, benché vi sia gran mutazione, non procede però dall’agnizione. Laonde Aristotele la volle chiamar semplice anzi che no.

[29] Di questa mescolanza si fece accorto Aristotele quando, disputando qual dovesse esser preposto, il poema tragico o l’epico, disse molto più semplici esser le favole della tragedia che quelle dell’epopeia ; e di ciò è segno che da una sola epopeia si posson cavar molte tragedie. Ma questa maniera di composizione è cosi biasimevole nella tragedia com’è lodevole quell'altra che si fa con la peripezia e con l’agnizione ; perché, quantunque la tragedia ami la sùbita e inaspettata mutazione delle cose, le desidera nondimeno simplici e uniformi, e schiva la varietà de gli episodii, i quali fanno grande e bella l’epopeia. Che cosa sia episodio non è deffinito d’Aristotele, ma Suida gli chiama πράγματα ἐξαγώνια, cioè azioni fuor della cosa di cui si tratta, le quali si pigliano d’altra parte e sono estrinsiche. Ma non si loda nelle tragedie, come s’è detto, ch’alcuni passino di felicità in miseria, altri di miseria in felicità, se non per ignoranza del teatro ; perché questo fine lassa più consolati gli uditori là dove questa mutazione sia accompagnata dalla amicizia o almeno dalla giustizia.

[30] Ma questa composizione è più tosto conveniente all’epopeia, purché non sia simile a quella del Pulci, il quale, cominciando dalle feste di Carlo e de’ paladini, finisce nella rotta dolorosa nella quale « Carlo Magno perdé alla santa gesta ». Plotino nondimeno pare che porti contraria opinione, dicendo ch’una è la ragione de la favola tragica, o vero comica : la quale contenga in sé molte battaglie ; ma si dee intendere che ciascuna di loro sia una per sé, non che l’una e l’altra sia l’istessa. Nondimeno io sin ora non ho letta alcuna favola comica simigliante, né tragica, se tragica non si chiama quella d’Omero ; ma si nominiam quella tragedia, altri consideri qual si possa nominar comedia. Debbiam dunque in ciò seguir l'opinion d’Aristotele, che discorda da Plotino nel nome solamente, chiamando con nome specifico epopeia quella che Plotino nominò tragedia. Si potrebbe nondimeno aver qualche considerazione alle Fenisse d'Euripide, nelle quali è raccontata la battaglia seguita fra Tebani e Argivi, quantunque, seguendo l’opinion d’Aristotele, non possiam laudare le favole episodiche, le quali da lui sono biasimate ; anzi, se l’arte è imitazione della natura, non facendo la natura cosa alcuna per episodio, come dice Aristotele nella Metafisica, l’arte ancora non dovrebbe farla ; e certo, se ’l fare episodio è operar oltre il primo proposito, né l’arte né la natura fanno alcuna cosa per episodio, perché l’una e l’altra opera ad un fine determinato. Ma ciò appare chiaramente nell’opere della natura ; in quelle dell’arte non tanto, perché l’arte alcuna volta finge d’operare a caso e impensatamente, e molte volte si spazia in altre cose oltre quelle ch’aveva proposte di narrare. Laonde elle paiono straniere, o avventizie come si dice.

[31] Ma discorriamo con qual arte il poeta introduca nella favola questa varietà così piacevole e così desiderata da coloro c’hanno avezzi gli orecchi a’ poeti moderni. Ma niuna cosa si dee considerare senza l’essempio de’ principi della poesia greca e latina, però che il ricercar nuove strade porta seco maggior riprensione che lode, e si potrebbe incorrere di leggieri in quel vizio manifestatoci da Orazio :

qui variare cupit rem prodigialiter unam,
delphinum sylvis appingit, fluctibus aprum.

Dico adunque ch’alcuno potrebbe stimar agevolmente che Omero non cercasse la varietà, come colui il quale a’ nomi stessi dà spesse volte il medesimo aggiunto, chiamando Giove αἰγίοχος, Giunone λεθκώλενος, Minerva γλαυκῶπις, Achille ὠκύς, Ulisse πτολίπορζος, πολυμήχανος ; e oltre a ciò spesso dice le medesime cose con le parole istesse. Dall’altra parte, avendo egli mescolate nel suo poema tutte le lingue usate da’ Greci, si può affermar il contrario. Oltre a ciò da lui furon usati tutti tre gli stili : io dico il grande, il mediocre e l’umile : perché, sì come nota Aulo Gelio, il sublime è attribuito ad Ulisse, il temperato a Nestore, il tenue a Menelao, il quale, essendo spartano, dovea parlare più acutamente de gli altri. E se ciò è vero, il sommo poeta nell’usare tutti gli stili non è dissimile al sommo oratore ; ma l’uno e l’altro può conseguire nel suo genere l’ultima perfezione, quantunque paia che Cicerone, nel libro Del perfetto genere de gli oratori, già dicesse altrimenti. Omero descrisse ancora con diversi modi le morti de’ Greci e de’ Troiani, e fece diverse comparazioni per rassomigliarli e quasi per metterceli davanti a gli occhi ; laonde si può credere ch’egli prima d’ogn’altro insegnasse ad usar la varietà delle cose, non solo quella delle parole, meravigliosa nell’Odissea, perché la sua favola è assai breve, come possiam conoscere da queste parole d’Aristotele : « Essendo andato molt’anni un cavaliero errando per diverse parti del mondo, rimase senza alcuno de’ compagni ; e aveva lasciate le cose della sua casa in modo che le sue ricchezze dall’insolenza de’ drudi eran dissipate, e al suo medesimo figliuolo si tendevano insidie ; egli finalmente pervenne nella sua patria, spinto dalla tempesta del mare, e dandosi a conoscere ad alcuni, e congiungendosi con essi loro, al fine gli oppresse». Nondimeno Omero la variò con molti episodi e con la narrazione di molte cose meravigliose. Né gli bastando che la narrazione de gli errori d’Ulisse, fatta da lui medesimo ad Alcinoo re de’ Feaci, tenesse gli uditori per molti libri occupati e pieni di meraviglia, descrisse prima la peregrinazione di Telemaco, il quale, desideroso di trovare il padre, andò in Pilo a Nestore e in Sparta a Menelao, e da lui udì le favolose trasmutazioni di Proteo, e gli altri suoi errori parimente per l’Africa e per l’Egitto, assai più brevi nondimeno di quelli del padre. Ma d’Ulisse, sì come racconta Strabone, è dubbio s’egli andasse vagando per il mare Meditarraneo o fuori delle Colonne d’Èrcole per l’Oceano. Laonde per la diversità de’ paesi descritti in tre peregrinazioni, e per la moltitudine e novità delle cose vedute, grandissima conviene che sia la varietà ; e par questo poema composto d’errori e de' viaggi di tre persone diverse. Maggior varietà nondimeno si trova nell'Eneide, perché non congiunge gli errori con li errori, come avea fatto Omero, ma gli errori con le battaglie. Dell’uno e dell’altro poema nondimeno è proprio il dirizzar tutte le cose ad un medesimo fine : perciò che, avendosi proposto Omero per oggetto il ritorno d’Ulisse alla patria, e Virgilio la venuta d’Enea in Italia, tutte le cose sono dirizzate a questo segno, perché sono mezzi di questo fine, e agevolezze, per così dire, o impedimenti e disturbi, eccettuatene alcune poche che servono per introduzione della favola. Fra i mezzi numero Minerva e Mercurio, Nausicaa, i Feaci e le cose avenute fra loro e Ulisse, e, dopo, quel ch’egli trattò col porcaro, col capraro e con la nutrice medesima prima ch’egli uccidesse i drudi ; tra gl’impedimenti annovero Calipso, Circe, Scilla, Caribdi, i Lestrigoni, i Lotofagi, i Ciclopi e l’altre cose sì fatte. Parimente in Virgilio chiamo impedimenti Didone, Turno, Mezenzio, Camilla ; e mezzi Aceste, che li diede aiuto per venire in Italia, ed Evandro e Pallante e i Toscani e gli altri che l’aiutarono a vincere, non solo a guerreggiare. Tutta dunque la varietà nel poema nascerà da’ mezzi e da gli impedimenti, i quali possono esser diversi e di molte maniere e quasi di molte nature, e non distruggeranno l’unità della favola, nondimeno, s’uno sarà il principio dal quale i mezzi dependeranno, e uno il fine a cui sono dirizzati ; dopo il quale è soverchio tutto quel che s’aggiunge, come da molti è giudicata l’opera di Quinto Calabro delle cose tralasciate da Omero, e quella di Maffeo Vegio che segue Virgilio : perché l’uno volle finir con la morte di Ettore, l’altro con quella di Turno. Ma gli impedimenti, benché possono dependere da vari principi, ad una cosa riguardano, cioè ad impedire il ritorno d'Ulisse in Itaca, e ’l regno d’Enea in Italia.

[32] A bastanza abbiamo ragionato della diversità, mostrando com’ella possa esser accresciuta con gli episodi, e come gli episodi vi debbano esser introdotti, o secondo il verisimile o secondo il necessario, perché altrimenti la favola sarebbe episodica. Favola episodica Aristotele chiama quella in cui gli episodii non sono congiunti οὔτε κατʼεἰκός, οὔτε κατʼἀνάγκην, cioè né verisimilmente, né per necessità. L’episodio è dunque o verisimile o necessario ; ma non considero il necessario corn’è considerato dal Robertello, il quale vuole che in duo modi sia lecito al poeta di mentire : o nelle cose secondo la natura, o ’n quelle che sono contra natura. Se finge le cose che sono naturali, può servare τὸ εἰκός e ἀνάγκην, se contra natura, c’inganna col paralogismo. Ma io stimo ch’in tutti i modi possa osservare il verisimile o ’l necessario, ma non intendo di quello ch’è necessario simpliciter, ma di quello ch'è necessario di conseguenza, e nelle cose ancora contra natura, come sono i Ciclopi e l’Arpie e gli altri mostri. Per essempio, s’Ulisse e i compagni si salvano dal Ciclope divenuto cieco, è necessario che ’l Ciclope fosse prima accecato; s'Enea intende le cose future da Celeno, è necessario che Celeno possa predirle ; e in altre favole sì fatte la dipendenza e la congiunzione degli episodi può esser necessaria, benché le favole siano impossibili.

[33] Ora si deono dire alcune cose del costume, perché, quantunque la poesia principalmente sia imitazione d’una azione, nondimeno l’azione non può esser fatta se non v’è chi la faccia, e l’agente, per cosi dire, o l’operante convien ch’abbia alcune qualità, cioè ch’egli sia buono o reo, o participi dell’uno e dell’altro. Il poeta dee esprimer i costumi come fanno i buoni pittori, fra’ quali Polignoto imitò i migliori, Pausone i peggiori, e Dionigi i simili. Omero espresse questa diversità de’ costumi meglio di tutti gli altri ; perciò che la poesia fu tirata in diverse parti e quasi distratta secondo i propi costumi de’ poeti : e i più magnifici imitarono l’azioni più belle e de’ più simili a loro, ma i più dimessi quelle de’ più vili, componendo da prima villanie e ingiurie, come gli altri laudi e celebrazioni. Ma Omero, come dice Aristotele, fu nella magnificenza tra gli altri massimamente poeta, e fu ancora il primo che fece vedere l’imitazione della comedia, avendo rappresentata non villania, ma cosa da far ridere ; e quantunque il mover riso e il dir villania non sia il medesimo, nondimeno spesso, dicendo villania, si muove riso, sì come, lodando, si genera meraviglia. Laonde errò senza dubbio il Castelvetro quando egli disse che al poeta eroico non si conveniva il lodare, perciò che se il poeta eroico celebra la virtù eroica, dee inalzarla con le lodi sino al cielo. Però san Basilio dice che l’Iliade d’Omero altro non è che una lode della virtù, e Averroè, sopra il comento della poesia, porta la medesima opinione, e Plutarco nel libro ch’egli scrisse del modo d’intendere i poeti ; nel quale ancora c’insegna ch’al poeta è lecito di biasmare e d’interporre il suo giudizio, il qual prima accusa la malvagità, mostrando in questo mezzo quel che sia utile ; altrimente ci potrebbe nocere con l’essempio delle cose imitate ; e pericolosa molto sarebbe la lezione de’ poeti se ne’ passi dubbii non ci mostrassero il camino della virtù e non ci servissero quasi di guida. Ultimamente, s'all’istorico è lecito a lodare, come parve a Polibio, a Dionisio Alicarnasseo e a molti altri scrittori dell’istorie, molto più dovrebbe esser lecito al poeta. Lasciando dunque i seguaci del Castelvetro nella loro opinione, or noi seguiam quella di Polibio, di Dionisio, di san Basilio, d’Averroè, di Plutarco e d’Aristotele medesimo. Ma si ricerca appresso Aristotele ne’ costumi quattro condizioni : che sian buoni, che sian convenienti, che sian simili e che sian eguali ; perché molte fiate i costumi sono buoni, ma non sono convenienti, come la fortezza alla donna. Essempio di reo costume ci diede peraventura Sulmone, il quale nell’Orbecche è reo senza necessità ; e nel Furioso il dottore che vende la sua onestà al brutto etiopo, e Olimpia che troppo crudelmente taglia la gola all’amante condotto per lei all’insidie. Di non convenevol costume è essempio Rodomonte, che, dopo l’esser stato abbattuto, cede troppo agevolmente alla nemica ; e in un ferocissimo il non stare a’ patti sarebbe stata convenevolezza. Non convenevole ancora nella presa di Napoli è la lunga disputa d'amore tra Belisario e Massenzio mentre ancora erano con l’arme indosso. L’inequalità del costume si conosce per Rodomonte, il qual, dopo la prima rotta ricevuta da Carlo, troppo cortesemente prende commiato da Bradamante, e in Ruggiero, il qual nell’altro poema non si mostrò molto constante in amarla ; e la dissimilitudine in Marfisa, o in Patino e ne gli altri Romani, i quali sono formati assai dissimiglianti da quel che sono o furono i cavalieri romani. Ma i costumi si manifestano con le parole, nelle quali appaia buona o malvagia elezione, e con l’operazioni, e alcuna volta sogliono esser manifesti con gli atti e con sembianti ; però Dante disse:

se vo’ credere a i sembianti etc.,

e nell'Inferno, volendo dipingere un ladro scelerato, disse :

le mani alzò con ambedue le fiche,
dicendo : «Togli, Dio, ch’a te le squadro!»

e altrove :

e di trista vergogna si dipinse ;

e nel Purgatorio ci descrive la magnanimità di Sordello in que’ versi :

Ella non ne diceva alcuna cosa,
ma lasciavan’ andar, solo guardando
a guisa di leon quando si posa;

e nel Purgatorio ci pone avanti gli occhi la leggiadria e l’onestà di Matelda :

Come si volge con le piante strette
a terra ed intra sé donna che balli,
che piede inanzi piede a pena mette,
volsesi in su’ vermigli ed in su’ gialli
fioretti verso me non altrimenti
che vergine che gli occhi onesti avalli.

Ma il costume de’ forti nel gravissimo dolore delle ferite è da’ poeti espresso nelle tragedie greche e latine. E perch’il dolore è cosa aspra, amara, difficile a tolerarsi e inimica della natura, si concede, per opinione di Marco Tullio nelle Questioni tusculane, a Filotete il gemere, sì come a colui che prima avea veduto Ercole nel monte Età per la grandezza del dolore stridere e lamentarsi : ltaque exclamabat auxilium expetens, mori cupiens:

« Heu ! qui salsis fluctibus mandet
me ex sublimi vertice saxi ?
Iam iam absumor ; conficit animam
vis vulneris, ulceris aestus ».

Ma veggiamo Ercole medesimo, il quale allora fu vinto e quasi dirotto dal dolore quando con la morte cercava l’immortalità, come si lamenti e con quai voci appresso Sofocle nelle Trachine:

O multa dictu gravia, perpessu aspera,
quae corpore exanclato atque animo pertuli!
Nec mihi Iunonis terror implacabilis,
nec tantum invexit tristis Eurystheus mali,
quantum una vecors Oenei partu edita.
Haec me irretivit veste furiali inscium,
quae lateri inhaerens morsu lacerat viscera,
urgensque graviter pulmonum haurit spiritus ;
iam decolorem sanguinem omnem exorbuit.
Sic corpus clade horribili absumptum extabuit.
.............................................
Perge, aude, nate, illachryma patris pestibus,
miserere ! Gentes nostras flebunt miserias.
Heu ! virginalem me ore ploratimi edere,
quem vidit nemo ulli ingemiscentem malo !
Sic foeminata virtus afflicta occidit.
Accede, nate, assiste, miserandum aspice
evisceratum corpus lacerati patris.

Non altrimenti si duole Prometeo affisso al monte Caucaso nella tragedia d’Eschilo, con molte parole oltre queste :

Luctifica clades nostro infixa est corpori,
ex quo liquatae solis ardore excidunt
guttae, quae saxa assidue instillant Caucasi.

Ma con maggior gravità è descritto Enea da Virgilio, e con maggior fortezza d’animo, inentr’è medicato della ferita della gamba. I versi del medesimo son questi :

Saevit et infracta luctatur arundine telum
eripere auxilioque viam, quae proxima, poscit:
ense seccnt lato vulnus telique latebram
rescindant penitus seseque in bella remittant.

E poco appresso :

Stabat acerba fremens, ingentem nixus in hastam
Aeneas, magno iuvenum et maerentis Iuli
concursu, lachrymisque immobilis.

Somigliante è il costume d’Euripilo medicato da Patroclo nell’Iliade, come il medesimo Cicerone insegna ne’ medesimi libri delle Tusculane. In somma, sì come nelle pitture non basta il disegno s’insieme non si veggiano i costumi, così nel poema non è bastevole la favola senza l’espressione di quest'altra parte. E possiamo paragonare le poesie c’hanno il costume alle pitture di Polignoto ; ma quelle che ne sono prive all’imagini depinte da Zeusi, sì veramente che la favola fusse eccellentissima e senza costumi.

[34] La terza parte di qualità è la sentenza. Ma ne’ costumi si dimostran più tosto gli abiti morali, nella sentenza quelli dell’intelletto e la prudenza particolarmente, la quale è una delle virtù intellettuali. Sentenzia chiamo in questo luogo quella che da Aristotele nella Poetica è detta διάνοια, di cui son parti il dimostrar, il solvere, il mover gli affetti (come sono la misericordia, l’ira, il timore), raggrandire e il diminuire, o il farci conoscer la grandezza e la picciolezza delle cose. Laonde in questa sola parte della poesia si contengono quasi tutte le cose di cui si tratta nella retorica, tanto la poesia, o l’arte poetica, è più ampia della retorica. Ma a questa parte si conviene di far ciò con la forza del parlare, il quale è indizio di questa potenza dell’animo ; perché ’l far queste medesime operazioni con le cose istesse è più tosto officio della favola. E quantunque questa parte, che da’ Greci è detta διάνοια, non sia quella che nel secondo della Retorica d’Aristotele è chiamata γνώμη, nondimeno l’uso della γνώμη (che nella nostra lingua si dice similmente « sentenzia ») s’appartiene a questa parte che si disse διάνοια: perch’essendo officio della διάνοια (che noi possiam chiamar con altro nome « discorso ») il provare e il dimostrare e ’l solvere e ’l confutare, facendo tai cose usa la γνώμη, cioè la sentenza. Questa è definita d'Aristotele, nel secondo della Retorica, una enunziazione o vero un parlare delle cose universali, non però di tutte, ma di quelle solamente ch’appartengono all’azione, e deono essere elette o rifiutate ; e suole alcuna volta esser principio dell’entimema, alcuna conclusione, alcuna tutto l’entimema. Laonde è tale verso l’entimema quale la definizione per rispetto del sillogismo, perché l’uno serve all’azione, l’altro alla speculazione, come insegna Egidio interpretando questo luogo della Retorica. Ma della sentenzia Aristotele pone quattro spezie; due non hanno bisogno di prova, due l’hanno: quelle che non l’hanno, o sono di cose prima sapute e conosciute, com’è quella :

in giovenil fallire è men vergogna ;

o quell’altra :

che tal morì già tristo e sconsolato,
cui poco inanzi era il morir beato;

o di cose che subito s’intendono e sono credute, come questa del medesimo autore :

Gran giustizia a gli amanti è grave offesa ;

e quest’altra :

un bel morir tutta la vita onora.

De l’altre due spezie, una è questa :

Niun maggiore dolore
che ’l ricordarsi del tempo felice nella miseria ;
e ciò sa ’l tuo dottore,

perché l’autorità è in vece di prova, o con la prova espressa ;

Sempre a quel ver c’ha faccia di menzogna
dee Tuona chiuder le labbia quanto ei potè,
peroché senza colpa fa vergogna ;

e questa è uno entimema intero. L’altra spezie è d'una parte ; ma, come la διὰνοια, così la γνώμη, provando e confutando, con meraviglioso movimento d’affetti da Virgilio ci è mostrata meglio d’alcun altro nell’orazione di Drance e di Turno. Prova Drance che non si debba continuar la guerra con la sentenza :

Quid miseros toties in aperta pericula cives
proicis, o Latio caput horum et causa malorum?
Nulla salus bello ; pacem te poscimus omnes etc.

Riprova Turno con un’altra sentenza opposta a quella Nulla salus bello:

cur indecores in limine primo
deficimus ? cur ante tubam trernor occupat artus ?
Multa dies variusque labor mutabilis aevi
rettulit in melius, multosque alterna revisens
lusit et in solido rursus Fortuna locavit.

[35] Ma perché nel poema eroico si dee aver riguardo non solo al buono, ma all'ottimo, conviene aver riguardo a tutte queste cose unitamente, perché da tutte insieme risulta il decoro ; né già estimo che ’l decoro sia uno inganno intorno al bello, come dimostrò di creder Socrate per pigliarsi giuoco d’Ippia il vecchiarello ; ma o quello ch’è secondo la dignità, come piace a Plotino, o l'onesto, come vuole Aristotele, o quella dignità ch’accompagna l’onestà, per congiungere insieme l’una e l’altra opinione, avegna che il decoro non si può separar dall’onesto, come disse Marco Tullio negli Offici; e se tra loro è alcuna differenza, si può intender più tosto che spiegare. Ma ’l decoro è confuso con la virtù, com’è la bellezza con la sanità, e sol si distingue con la mente. Questo decoro è doppio : perché l’uno è generale, il quale risplende in ogni azione onesta ; l’altro a questo soggetto, il qual si conosce nelle parti dell’onestà ; e ciò conosciamo esser vero considerando quel decoro c’hanno osservato i poeti, i quali allora sono più lodati ch’osservano quel ch’è conveniente. Laonde nella persona d’Atreo, che fu crudel tiranno, volentieri sentiamo :

oderint dum metuant.

Ma queste istesse parole ci spiacerebbono nella bocca di Eaco e di Minòs, che furono riputati giusti. Questo riguardo ebbe ancora Omero, s’io non m’inganno, perciò ch’egli attribuì a molte persone virtù singulari ; laonde per conseguente ebbe in maggior considerazione il decoro particolare. Laonde ad Ulisse assegna l’industria, a Diomede la confidenza, a Teucro l’arte del saettare, a Mnesteo quella d’ordinare le squadre, a Nestore il buon conseglio, ad Aiace la fortezza, o più tosto parte della fortezza, cioè quella che propriamente è sofferenza o toleranza ; e alcuna volta l’assomiglia all’asino, il quale non lascia i pascoli per battitura o per percossa de’ fanciulli, parendoli ch’in niun altro modo potesse meglio dimostrarci la picciola stima ch’egli faceva dell’armi de’ Troiani ; gli dà ancora uno scudo coperto sette volte d’un cuoio di bue, col quale si difende in guisa ch’egli non è mai ferito ; né minor fortezza dimostra nell’animo che nel corpo mentre egli difende le navi da Ettore vittorioso e da gli altri Troiani che volevano accenderle. L’altra parte della fortezza, la quale consiste nell’assalire e nel portar guerra, è propria d’Achille, nella cui persona non si possono schivar l’opposizioni d’avarizia e di crudeltà fattele da Platone ne’ Dialogi del giusto ; dal qual forse imparò Pirro, re de gli Epiroti, suo pronepote, ad esser magnanimo, o da altro più antico. Laonde egli disse quella magnanima sentenza che si legge appresso Ennio :

Nec mihi aurum posco, nec mi precium dederitis,
nec cauponantes bellum, sed belligerantes,
ferro, non auro, vitam cernamus utrique.
Vosne velit an me regnare hera, quidve ferat Fors,
virtute experiamur ; et hoc simul accipe dictum :
quorum virtuti belli Fortuna pepercit
eorundem me libertati parcere certum est.
Dono ducite doque volentibus cum magnis diis.

Ma Virgilio, se non m’inganno, vide meglio il decoro generale, perché formò in Enea la pietà, la religione, la continenza, la fortezza, la magnanimità, la giustizia e ciascun’altra virtù di cavaliero ; e in questo particolare il fece maggiore del fero Achille, il quale vendè al padre supplichevole il corpo d’Ettore, là dove Enea donò quel di Lauso, e altrove, a chi gli prometteva molti talenti d’oro e argento, disse :

Argenti et auri memoras quae multa talenta,
gnatis parce tuis.

àia nella sepoltura de’ morti disse a gli ambasciatori di Latino quelle veramente pietose parole :

Pacem me exanimis et Martis sorte peremptis
oratis ? equidem et vi vis concedere vellem.

Simile o maggiore pietà ne la sepoltura de' morti fu dimostrata da Antigone appresso Sofocle, ne la tragedia di questo nome : percioché, avendo Creonte, tiranno di Tebe, proibito a ciascuno che non seppellisse il corpo di Polinice giudicato nimico della patria, Antigone la sorella contra l’editto del tiranno ebbe ardimento di seppelirlo ; ed essendone da lui medesimo addomandata, rispose quelle veramente magnanime parole che si leggono ne l’istesso autore, le quali io addurrò come in latino furono trasportate :

Non summus mihi haec imperat Iuppiter,
nec Iustitia, deos quae habitat apud inferos,
inter homines qui iura sanxerant pia ;
nec iussa tanti ponderis tua extimo,
mortalis ut perennia deorum queas
temerare iura insculpta mentibus hominum.
Non haec heri aut nuper sunt edita :
vixere semper ; quoque tempore cocperint
scit nemo. Non haec debui ego, hominis ullius
perculsa sceptro, aut arrogantiam timens,
violare, postmodum diis poenas gravis
pensura. Moritura sum : id haud me fugerat.
Quid ni ? etiam id, etsi publico praeconio
non imperasses, si ante tempus oppetam,
id in lucro positura sum. Nam, plurimis
quicumque vivit involutus miseriis,
veluti ego, qui si non occidat, lucrum ferat ?
Sic quoque mihi hoc fato mori nihil dolet.
At si ex eodem utero fratrem
sic insepultum relinquissem, dolor
iustus foret.

Appresso Stazio ancora la medesima Antigone dimostra la pietà e la magnanimità, costumi veramente di donna eroica, percioch’ella ne l’orror d’una spaventosa notte se n’uscì da la città per sepellire il corpo del fratello, il quale andò ricercando in una campagna piena di corpi morti, e quivi s’avenne in Evadne, moglie di Capaneo, la qual era condotta da l’istessa pietà a seppellire il marito : avenimento senza dubbio maraviglioso e degno del gentile artificio del poeta e de le pietose lagrime del lettore. Si legge ancora ne l’istesso poema de la Tebaide che Teseo, re d’Atene, mosse guerra a’ Tebani, i quali con insolita crudeltà negavano la sepoltura a’ corpi de gli Argivi uccisi ne l’assalto di Tebe : tanta in quegli antichissimi secoli fu la pietà e la relligione del sepellire i morti. E di ciò ancora si fa menzione ne l'Orazioni d’Isocrate. Laonde per questa ragione ancora e per questo essempio pare Achille degno di maggior biasimo, non avendo avuto risguardo a l’antichissimo costume e a l’umanità de’ popoli de la Grecia.

[36] Alcuni nondimeno fra' moderni hanno voluto biasimar Enea di pari crudeltà, perch’egli negò la vita a Turno supplichevole ; e incolpano Turno di pusilannimità, in quel istesso modo ch’Ettorre di soverchio timore e Achille di soverchia ferità è biasimato. Ma peraventura non con le ragion pari : perché molte difese sono propie di Virgilio le quali non si possono far comuni ad Omero, bench’a monsignor di Caserta o al Possevino, suo discepolo, o a lo Sperone paresse altrimenti ; i quali, essendo per altro di contraria opinione, in biasimar Virgilio, principe de' poeti latini, si mostrano assai concordi. A me nel rispondere sovvengono molte ragioni, de le quali alcune tacerò. E taccio prima di ciascun’altra la ragione di stato, per la quale Enea non si poteva assicurar de le cose d’Italia vivendo Turno turbator de la pace e de la quiete publica. Ma questa medesima ragione non poteva muover Achille, il quale non aveva alcuna pretensione nel regno di Troia, né per cupidità di signoreggiare alcuna necessità d’uccidere il nemico, difensore de la patria, non oppressore de l’altrui signoria, com’era Turno, a cui Latino, suocero d’Enea, era costretto di cedere il governo del regno. L’obligo de la vendetta ne l’uno e ne l’altro era eguale : obligo non picciolo, se la vendetta è giusta e orrevole fra i principi e i cavalieri, come estima il Bernardo e il Possevino. Ma in Enea a l’obligo comune de la vendetta s’aggiunge quel de la sua propia parola, perch’egli, rimandando il corpo di Pallante ad Evandro, si duole di non aver sodisfatto a le sue promesse, come si legge in que’ versi de l’undecimo de l’Eneida :

Non haec Euaudro de te promissa parenti
discedens dederam ;

e poco appresso :

Haec mea magna fìdes ?

Ma, non avendo potuto rimandarlo salvo al padre, non poteva mancar al desiderio paterno de la vendetta dimandata da Evandro con efficacissime parole, o negare questa consolazione a l’animo esacerbato de l’infelice vecchio, come si manifesta espressamente in quegli altri versi con le parole dette da Evandro a’ Troiani :

Vadite et haec memores regi mandata referte :
quod vitam moror invisam Pallante perempto,
dextera causa tua est,, Turnum gnatoque patrique
quam debere vides. Meritis vacat hic tibi solus
fortunaeque locus.

Ma da Menezio, padre di Patroclo, non era dimandata la vendetta in questa guisa, percioch’egli, troppo più lontano da gli avisi, non sapeva ancora cosa alcuna de la morte del figliuolo. Era dunque per questa cagione maggior l’obligo d’Enea, e per giudicio d’Evandro non gli rimaneva altro luogo da meritare. La relligione ancora il costringeva, non potendo egli placare in altra maniera l’ombra di Pallante, come si raccoglie da questi versi del decimo :

quatuor hic iuvenes, totidem, quos educat Ufens,
viventeis rapit, inferias quos immolet umbris
captivoque rogi perfundat sanguine flammas.
..........................................
Hoc patris Anchisae manes, hoc sentit Iulus.

E che da l’ombre de’ morti fosse ricercata la vendetta e ’l sacrificio d’umana vittima, si conferma co ’l testimonio d’Euripide ne l'Ecuba, ne la qual è scritto che l'ombra d’Achille dimandava d’esser placata co ’l sangue di Polissena, come si raccoglie da que’ versi :

Namque e sepulchro visus Aeacides suo,
Argivum Achilles tenuit omnem exercitum,
remum ad penates dirigentem ponticum.
Meam is sororem postulat Polixenam.

Ma questa difesa è peraventura comune a l’uno e a l’altro principe de l’eroica poesia, ma sino a la morte solamente ; perch’oltre la morte non si dee stender l’ira degli eroi, né deono a guisa di cani rabbiosi incrudelir ne’ corpi morti, almeno poich’a l’ira è conceduto giusto spazio d’intepidire. Ma si potrebbe dire a l'incontra che ’l sacrificio d’umana vittima è cosa empia e crudele, benché fosse non solamente ricevuta da’ barbari e da’ Greci, ma da’ Romani istessi, i quali, come scrive Livio, ne’ grandissimi pericoli solevano sacrificare Gallum et Gallam, o Graecum et Graecam ; tutta volta fu popolo riputato religiosissimo e giustissimo e amico de la pietà e de la clemenza. Ma falsa fu quella religione, e però, come dice Lucrezio, epicureo filosofo :

Tantum relligio potuit suadere malorum.

Ma questa non è colpa né accusa de l’arte poetica, ma de la relligione ; laonde, se pur è difetto ne’ poeti, par difetto non per sé, ma per accidens. Concedasi dunque a Virgilio, nato in quella religione de’ gentili, che possa, come buon parole, dir quelle terribili parole in persona d’Enea, quand’egli diede la morte a Turno impaurito da le Furie :

Ille, oculis postquam saevi monimenta doloris
exuviasque hausit, furiis accensus et ira
terribilis : « Tune hinc spoliis indute meorum
eripiare mihi ? Pallas te hoc vulnere, Pallas
immolat et poenam scelerato ex sanguine sumit».

Giusta fu dunque la vendetta e lecita al cavaliero gentile (il quale non può esser riputato crudele da' gentili, o in comparazione degli altri), e molto più convenevole che la vendetta fatta d’Achille : peroché l’uno, come abbiam detto, uccise il difensor de la patria, che non aveva alcuna colpa nel periurio e nel violar de’ patti ; ma l’altro tolse la vita al rompitor de’ patti e al perturbator de la pace. Però con alcuna ragione dal nemico Enea son dette quelle parole sovra l’infelice giovene :

poenasque scelerato ex sanguine sumit.

Non sono ancora pari le ragioni nel timor d’Ettorre e di Turno : perché Turno è descritto audace e temerario giovene, Ettorre prudente anzi che no ; e oltre a questo, Turno è spaventato da le Furie, laonde il suo timore pare in lui non difetto di natura, ma violenza del Fato, maggiore ch’in Ettorre. Era ancora assai conveniente che ’l giovene inamorato si descrivesse temerario ; ma ’l tiranno, come Mezenzio, è descritto intrepido ne la sua morte per le cagioni scritte da me altre volte ; le quali io pensava di confermare con molte altre, ma bastino queste in questo proposito. Possiamo dunque concludere che Virgilio nel formare il cavaliere s'avvicinò più al segno che non fece Omero.

[37] E dovendo noi considerare l'idea, e per lei approvar la definizione della poesia, debbiamo aver riguardo all’azione e al come e a tutte l’altre cose insieme. Ma se crediamo a Massimo Tirio, non mancò questa perfezione ad Omero, perch’egli ci finge in Nestore l'imagine della virtù perfetta ; ma vi manca pera ventura la perfezione dell'età, la quale non era più atta alla milizia o ad altra azione, ma solamente al consiglio : perch’un perfetto eroe non si dee peraventura descriver nella decrepità, avegna che ’l perfetto costume sia costume d’età perfetta. Dunque tra le qualità de’ costumi già ricercate debbiam particolarmente considerare quel che si convenga a ciascuna età : perché il vecchio è tardo nell’operazioni, prudente nelle deliberazioni, e maturo ne’ consegli, e timido anzi che no di tutte le cose che possono avenire, com’è descritto in quelle parole :

O praestans animi iuvenis, quantum ipse feroci
virtute exuperas, tanto me impensius aequum est
consulere atque omnes rnetuentem expendere casus ;

e in quell’altre :

Si Turno extincto socios sum accire paratus,
cur non incolumi potius certamina tollo ?
Quid consanguinei Rutuli, quid caetera dicet
Italia, ad mortem si te (Fors dieta refutet!)
prodiderim, natam et connubia nostra petentem ?
Respice res bello varias ; miserere parentis
longaevi etc.

Il medesimo è lodator delle cose passate e di se stesso, come ci dimostra Virgilio in Entello, dicendo :

Si mihi, quae quondam fuerat quaque improbus iste
exultat fidens, si mine foret illa iuventus,
haud equidem pretio inductus pulchroque iuvenco
venissem.
................................................
Quid si quis caestus et ipsius Herculis arma
vidisset tristemque hoc ipso in littore pugnam?

E in Evandro che desidera di ringiovenire, come si legge :

O mihi praeteritos referat si Iuppiter annos,
qualis eram, cum primam aciem Praeneste sub ipsa
stravi scutorumque incendi victor acervos,
et regem hac Herilum dextra sub Tartara misi.

Ma del costume del giovine si vede espressa l’imagine in Turno :

Talibus exarsit dictis violentia Turni ;
dat gemitum rumpitque has imo pectore voces :
« Larga quidem semper, Drances, tibi copia fandi
tunc cum bella manus poscunt, patribusque vocatis
primus ades. Sed non replenda est curia verbis etc.

E ne’ pericoli della guerra mostrò insieme quasi depinti i costumi de’ vecchi, de’ gioveni e delle donne :

Arma manu trepidi poscunt, fremit arma iuventus,
flent moesti mussantque patres. Hic undique clamor
dissensi! magnus vario se tollit in auras.

Ma del giovane innamorato si vede colorata l’effigie in quegli altri versi :

Illum turbat amor figitque in virgine vultus :
ardet in arma magis paucisque affatur Amatam :
«Ne, quaeso, ne me lachrymis,

e quel che segue. È figurato il costume del fanciullo generoso in Ascanio :

At puer Ascanius mediis in vallibus acri
gaudet equo, iamque hos cursu, iam praeterit illos
spumantemque dari pecora inter inertia votis
optat aprum aut fulvum descendere monte leonem ;

e in quell’altri versi :

vidisti quo Turnus equo, quibus ibat in armis
aureus ? ipsum illum, clipeum cristasque rubentes
excipiam votis, iam nunc tua praemia, Nise.

Anzi è descritto il buon costume di molti fanciulli e di molti giovani in que’ versi :

Ante urbem pueri et primaevo flore iuventus
exercentur equis domitantque in pulvere currus
aut acres tendunt arcus aut lenta lacertis
spicula contorquent cursuque ictuque lacessunt.

Non solo si deve aver riguardo a quel che convenga all’età, ma a quel che convenga alla natura, alla fortuna, alla nazione, all’officio, alla dignità. Ecco la natura come si scopre nel costume de’ padri :

Aeneas (neque enim patrius consistere mentem
passus amor) rapidum ad navem praemittit Acatem,
Ascanio ferat haec ipsumque ad moenia ducat ;

e altrove :

omnis in Ascanio chari stat cura parentis.

Ma la pietà del figliuolo appare in quegli altri versi :

Perculsa mente dederunt
Dardanidae lachrymas, ante omnes pulcer Iulus,
atque animum patriae strinxit pietatis imago.

Si riconosce la magnanimità d’un povero re in que’ versi :

«Aude hospes contemnere opes et te quoque dignum
finge deo rebusque veni non asper egenis ».
Dixit et angusti subter fastigia tecti
ingentem Aeneam duxit ;

e la ricchezza d'un re in quegli altri :

nuntius ingentes ignota in veste reportat
advenisse viros. Ille intra tecta vocari
imperat et solio medius consedit avito.
Tectum augustum ingens, centum sublime columnis,
urbe fuit summa, Laurentis regia Pici,

e quel che segue. Il costume della gente s’esprime in questo modo :

Mos erat Hesperio in Latio, quem protinus urbes
Albanae coluere sacrum, nunc maxima rerum
Roma colit, cum prima movent in praelia Martem,
sive Getis inferre manu lacrimabile bellum
Hyrcanis Arabisve parant, seu tendere ad Indos
Auroramque sequi Parthosque reposcere signa.
Sunt geminae Belli portae (sic nomine dicunt)
religione sacrae et saevi formidine Martis ;
centum aerei claudunt vectes aetemaque ferri
robora, nec custos absistit limine Ianus ;
has ubi certa sedet patribus sententia pugnae,
ipsa Quirinali trabea cinctuque Gabino
insignis reserat stridentia limina consul.

In quelli parimente :

Quare agite o iuvenes tantarum in munere laudum
cingite fronde comas et pocula porgite dextra,
communem vocate deum et date vina volentes.

[38] All'officio ebbe riguardo Virgilio in que' versi, descrivendoci quello d’un buon re, il qual veglia per la salute comune :

Talia per Latium. Quae Laomedontius heros
cuncta videns, magno curarum fìuctuat aestu
atque animum nunc huc celerem, nunc dividit illuc,
in partesque rapit varias perque omnia versat ;
sicut aquae tremulum labris ubi lumen ahenis
sole repercussum aut radiantis imagine lunae
omnia pervolitat late loca iamque sub auras
erigitur summaque ferit laquearia tecti.

[39] E altrove :

Nox erat, et terras ammalia fessa per omnes
alituum pecudumque genus sopor altus habebat,
cum pater in ripa gelidique sub aetheris axe
Aeneas, tristi turbatus pectore bello,
procubuit seramque dedit per membra quietem.

E in quell’altro luogo nel quale fa officio di capitano :

castra Aeneas aciemque movebat.

Parimente si descrive la religione e la pietà di un re vittorioso in quell’altro :

Aeneas, quamquam et sociis dare tempus humandis
praecipitant curae turbataque funere mens est,
vota deum primo victor solvebat Eoo.

L’officio del medico si descrive in quelli :

Ille retorto
Poeonium in morem senior succinctus amictu
multa manu medica etc. ;

del sacerdote ne gli altri :

Hic Helenus, caesis primum de more iuvencis,
exorat pacem divum vittasque resolvit etc.

[40] Ma dell’officio della madre di famiglia ci mostra in quella comparazione :

ceu foemina primum,
cui tolerare colo vitam tenuique Minerva
impositum, cinerem et sopitos suscitai ignes,
noctem addens operi, famulasque ad lumina longo
exercet penso, castum ut servare cubile
coniugis et parvos possit educere natos.

Alla dignità d’una regina ebbe riguardo nel primo :

Tum foribus divae, media testudine templi,
septa armis solioque alto subnixa resedit.
Iura dabat legesque viris operumque laborem
partibus aequabat iustis aut sorte trahebat;

a quella di re nell’ultimo :

Interea reges : ingenti mole Latinus
quadriiugo invehitur curru, cui tempora circum
aurati bis sex radii fulgentia cingunt,
Solis avi specimen.

[41] Ma benché si potessino addurre infiniti essempi di questo e degli altri poeti, ci bastano questi pochi. In somma si dee aver gran considerazione a tutte quelle cose le quali sono considerate da Aristotele nel secondo della Retorica e da Orazio nella Poetica: perché questa parte del costume da molti è stimata poco meno dell’altra, ch’è la principale, e non si può quasi separare, avegna che l’azione sempre sia fatta da qualche agente ; ma l’agente convien ch’abbia qualche qualità o buona o rea, o degna di lode o di riprensione. Laonde fra tutte le circostanze è prima questa della persona, nella quale si deve osservare quel costume che dalla fama l’è attribuito ; però non estimava Orazio Ch’Omero avesse errato nel descriver Achille in questa guisa :

Scriptor, honoratum si forte reponis Achillem,
impiger, iracundus, inexorabilis, acer,
iura neget sibi nata, nihil non arroget armis.

Ma nel finger una nuova persona abbia il poeta quell'altre considerazioni che c’insegna il medesimo autore. Parve nondimeno al Castelvetro che non fosse lecito di formar nuova persona non conosciuta per fama, e riprese Virgilio che l’avesse formata. Ma Giulio Cesare dalla Scala porta altra opinione e, se non m’inganno, migliore: cioè che le persone si formano dal necessario o dal verisimile, che di ciò sia cagione l’azione istessa, la quale principalmente è imitata. Io nondimeno più lodo l’opinione di Atanasio nel libro Contra gentili, nel qual si legge che se l’azioni son finte da’ poeti, essi ne’ nomi ancora hanno mentito ; ma se dissero il vero de’ nomi, il dissero dell'opere similmente. Ma si potrebbe aggiungere alle cose dette che l’azione è o tutta vera o tutta finta, o parte vera o parte falsa ; se tutta vera, tutte le persone ancora dovrebbono esser vere ; se tutta falsa, converrebbe che tutte le persone fossero false ; se parte vera o parte falsa, le persone ancora potrebbeno esser in questo modo vere e finte. Nondimeno l’ardimento de’ poeti s’è steso più oltre, fingendo una falsa azione di vera persona ; sol che l’abbiano finta verisimilmente, perché la persona accresce autorità all'azione. Nelle persone si considerano non solo la natura, la fortuna, l’età, la nazione, ma gli abiti e gli istrumenti, e ’l tempo e ’l luogo nel quale sogliono operare. Gli abiti, come quel di Venere in forma di cacciatrice :

Namque humeris de more habilem suspenderat arcum
venatrix dederatque comas diffundere ventis,
nuda genu nodoque sinus collecta fìuentes.

O quel di Camilla :

attonitis inhians animis, ut regius ostro
velet honos leveis humeros, ut fibula crinem
auro intemectat, Litiam ut gerat ipsa pharetram
et pastoralem praefìxa cuspide mirtum.

E l’armi, che si possono annoverar fra gli istrumenti, li quali da Virgilio son descritti nel Catalogo, come quelle degli Ernici e de’ Prenestini e d’altri popoli :

Non illis omnibus arma,
non clipei currusve sonant ; pars maxima glandes
liventis plumbi spargit, pars spicula gestat
bina manu, fulvosque lupi de pelle galeros
tegmen habent capite, vestigia nuda sinistri
instituere pedis, crudus tegit altera pero.

E quelle de gli Aurunci e de gli Osci :

Teretes sunt aclides illis
tela, sed haec lento mos est aptare flagello;
laevas cetra tegit, falcati cominus enses.

E quelle de’ popoli Sarrasti :

Teutonico ritu solitos torquere cateias,
tegmina queis capitum raptus de subere cortex,
aerataeque micant peltae, micat aereus ensis.

E fra gli istrumenti sono gli arieti e 'l cavallo troiano, di cui si legge :

aut haec in nostros fabricata est machina muros etc.

Il tempo è descritto in que’ versi :

Tempus erat, quo prima quies mortalibus aegris
incipit et dono divum gratissima serpit ;
in somnis ecce ante oculos maestissimus Hector.

E la mezza notte in quelli altri :

Nox erat, et placidum carpebant cuncta soporem,

e quel che segue. E ’l nascer dell’aurora :

Postera iamque dies primo surgebat Eoo
humentemque Aurora polo dimoverat umbram.

E nell’istesso libro :

Iamque rubescebat stellis Aurora fugatis,
cum procul obscuros colles humilemque videmus
Italiam.

E nel quarto :

Et iam prima novo spargebat lumine terras
Tithoni croceum linquens Aurora cubile.
Regina e speculis ut primum albescere lucem
vidit et aequatis classem procedere remis.

È la sera descritta in quegli altri :

Sol ruit interea et montes umbrantur opaci.
Sternimur optatae gremio telluris ad undam
..........................................
corpora curamus ; fessos somnus occupat artus.

E le qualità del tempo sono descritte similmente :

Nam neque astrorum ignes neque lucidus aethra
siderea polus, obscura sed nubila coelo,
et lunam in nimbo nox intempesta tenebat.

E la tempesta, come quella del primo :

Talia iactanti stridens Aquilone procella
velum adversa ferit fiuctusque ad sidera tollit.
Franguntur remi, tum prora avertit et undis
dat latus, insequitur praeruptus aquae mons.

E la tranquillità, di cui si legge :

Sic ait, et dicto citius tumida aequora placat
collectasque fugat nubes solemque reducit.

E la peste è descritta nel terzo similmente :

subito cum tabida membris
corrupto coeli tractu miserandaque venit
arboribus satisque lues et lethifer annus.

Nella descrizione di luoghi ancora è meraviglioso Virgilio, come in quello accommodato a gli aguati :

Est curvo anfractu vallis, accomoda fraudi
armorumque dolis, quam densis frondibus atrum
urget utrumque latus, tenuis qua semita ducit,
angustaeque ferunt fauces aditusque maligni.
Mane super in speculis summoque in vertice montis,
planicies ignota iacet tutique receptus,
seu dextra laevaque velis occurrere pugnae,
sive instare iugis et grandia volvere saxa.

Si consideri ancora l’eccellentissimo artificio del poeta divino in quell’altri versi :

Est locus Italiae in medio sub montibus altis,
nobilis et fama multis memoratus in annis.
.........................................
urget utrinque latus nemoris, medioque fragosus
dat sonitum saxis et torto vertice torrens.
Hic specus horrendum et saevi spiracula Ditis
monstrantur, ruptoque ingens Acheronte vorago
pestiferas aperit fauces.

Considera la medesima felicità in quella descrizione :

Portus ab Eoo fluctu curvatur in arcum etc.

Ma quello fu divinissimo :

Est in secessu longo locus : insula portum
efficit obiectu laterum, quibus omnis ab alto
frangitur inque sinus scindit sese unda reductos.
Hinc atque hinc vastae rupes geminique minantur
in coelum scopuli,

e quel che segue. Tutta volta alcun potrebbe dubitare perché Virgilio descrivesse un porto appresso Cartagine, il quale veramente non è in quella parte di Africa, ma, come Servio e alcuni altri hanno creduto, in Cartagine nuova, città di Spagna, ora detta Cartagena. Ma peraventura egli ebbe risguardo non al vero, ma alla bellezza, se non mi fosse lecito il dire all’idea del porto ; e volendoci descrivere il più bel porto che potesse imaginarsi, fece la finta descrizione del luogo, e v’aggiunse l’antro delle ninfe e l'altre cose, nelle quali volle imitare Omero. E questa finzione peraventura sarebbe soggetta a maggiore opposizione s’ella fosse nella geografia, quantunque gli errori della geografia ancora o della descrizione universale della terra sian per accidente nell’arte poetica ; ma essendo una topotesia, cioè una particolar descrizione del luogo, può di leggieri esser lodata, non sol tolerata, perché dopo lungo spazio di anni più agevolmente avengono le mutazioni nelle picciole parti della terra che nelle grandi, benché nelle grandi ancora sogliono a venire, come ci insegna non solamente Aristotele ne’ libri Delle cose sublimi, e Strabone nella Geografia, ma il medesimo poeta in quel verso :

tantum aevi longinqua potest mutare vetustas.

Oltre a ciò, la spelunca riceve molte allegorie, come l’antro di Platone figurato per lo mondo, e quello d’Omero, del qual Porfirio compose un picciolo ma dotto libretto ; e questo ancora può aver la sua occulta significazione e i suoi meravigliosi misteri. Ma non è ora mia intenzione parlar di questa materia, della quale non ragiona Aristotele; ma forse ne’ libri seguenti toccherò alcuna cosa della opinione d’altri eccellenti scrittori, all’autorità de’ quali molto dovrebbe esser creduto.