LIBRO SESTO

[1] Il trattar delle forme in tutti modi, illustrissimo Signore, apporta seco grande oscurità e gran malagevolezza : perciò che s’altri considera le forme separate, ch’idee sono state dette da' filosofi, può di leggieri esser persuaso ch’elle o non siano, o nulla giovino a’ nostri umani artefici e all’operazioni de’ mortali ; e, se non persuaso, almen dalla contraria ragione è costretto di lasciar così alta contemplazione ; ma contemplando le forme nella materia, trova ancora grandissima difficultà, percioché la materia è cagione d’incertitudine e d’oscurità, laonde alle tenebre e a gli abissi da gli antichi filosofi fu assomigliata ; ma separandole con l'imaginazione, divien quasi bugiardo e, se pur non dice menzogna, non contempla a fine d’alcun bene. Nelle parole similmente molti dubbi apporta la contemplazione delle forme, e ’l conoscerle e ’l distinguerle è così malagevole che niuna più difficile impresa si prepone all’eloquente. Tutta volta è quasi necessario, perché la natura, o l’arte sua imitatrice, ha segnate le cose tutte de’ propi caratteri, o delle proprie note che vogliam dirle, delle quali altre sono maggiori, altre minori. Talché di acutissimo intelletto fa mestiere in descerner le più minute ; e noi l’abbiam tralasciata o come fatica poco utile, o come troppo noiosa. Ma delle maggiori abbiamo discorso ne’ precedenti, e ne tratteremo ne’ seguenti ; e quantunque il contemplar l’idea del bene fosse studio più conveniente a questa età e a questa fortuna, e io potessi farlo con maggior grazia di V. S. illustrissima, nondimeno credo che non le debba esser grave di legger quel che raggionevolmente si può conchiudere dell’idea del bello, nella quale la poesia è più intenta che in tutte l’altre. Laonde alcuni hanno creduto che questa sola fosse il segno e quasi la meta de tutti i poeti, fra’ quali è il Fracastoro. Ma considerando le sue proprietà, questo inganno di leggieri ci sarà manifesto.

[2] Molti hanno creduto che 'l diletto che nasce dalle cose piene di grazia e ’l riso sia l’istesso ; però in tutte hanno cercato di muoverlo, e tutte le scritture hanno pieno di questo loro artificio : le novelle, le lettere, l’orazioni, le satire e gli altri capitoli burleschi, le comedie e ’l poema eroico ancora hanno voluto quasi sparger di questo sale, e per poco la tragedia medesima, la qual volentieri riceve le grazie, ma è nemica del riso, come dice Demetrio Falereo. E dell’istessa natura è, per mio aviso, il poema eroico, il quale mosse per aventura un riso terribile col Ciclope ; ma nell’istesso modo poteva moverlo la tragedia d’Euripide chiamata co ’l suo nome, se pur è tragedia, e non satira, come alcuni hanno creduto; ma essendo poema tragico, è de’ meno perfetti, perché ne’ perfettissimi il riso non avrebbe per aventura alcun luogo, come non l’ha nel poema eroico, se non in quel modo che s’è detto, pieno di acerbità e di spavento e lontano dalla disonestà ; anzi questo non è propriamente riso, perché il riso nasce dalle cose brutte, senza dolore. Le parole dunque che metteno inanzi agli occhi la bruttezza, possono muover a riso ; le quali, essendo quasi imagini delle cose brutte, sono brutte parole. Ma le belle parole sono cagione di quel grazioso diletto ch’ai poeta eroico e al lirico oltre tutti gli altri è conveniente ; e conviene ancora alla tragedia, ma non tanto. Da cagioni opposte dunque nascono il riso e ’l grazioso : cioè l’uno dalle belle, e l’altro dalle brutte ; e sono differenti come Tersite e Amore. Ma l’uno e l’altro nondimeno nasce con la meraviglia, perch’ella suole accompagnare l'une e l’altre. Laonde ci maravigliamo de’ nani e delle brutte vecchie c’hanno volto di bertuccia, come avea Gabrina, e ci meravigliamo ancora della bellezza giovenile : però Laura ancora fu chiamata mostro dal suo gentil poeta :

o de le donne altero e raro mostro.

Ma benché la meraviglia nasca dall’una e dall’altra poesia, cioè da quella ch’imita le cose brutte e da quella che rasomiglia le belle, nondimeno non è cosi propria dell’una come dell’altra : perché tosto suol mancare la meraviglia delle cose brutte, le quali con la novità perdono ancora l’estimazione, ma la meraviglia delle cose belle è più durevole e di maggiore estima. E bellissimo oltre tutti gli altri poemi è l’eroico, laonde questo diletto è suo proprio. E ancora il poema eroico è magnificentissimo, e per questa altra ragione ancora le si conviene. Né per altre, s’io dritto estimo, l’opere di altissima e di regale magnificenza furono chiamate miracoli del mondo. E quantunque io non biasimi il Pontano, il qual volle che l’officio di ciascuno poeta fosse muover meraviglia, nondimeno a tutti gli altri stimo assai meno convenirsi ch'ai poeta eroico ; e se di questo solo avesse inteso il Fracastoro, non avrebbe peraventura errato soverchiamente, assonandoli per fine l’idea del bello. Ma se molte sono l’idee, e quella della magnificenza e della gravità sono differenti da quella della bellezza, a molte idee rivolge gli occhi il poeta eroico, e in questa non meno che nell’altre. E già s’è detto che le parole belle e le vaghe e le graziose sono appropriatissime a questa forma ; delle quali il Petrarca e ’l Tasso e gli altri composero le loro composizioni, intessendo gli amori e i lusignuoli e i gigli e i ligustri e le rose nella meravigliosa testura delle rime toscane ; perché in niuno altro si leggono questi nomi, o gli altri sì fatti, così spesso. Ma i concetti e le cose ancora deono essere convenienti, perché ’l poeta in damo proverebbe con la forza delle parole far ch’una Furia infernale rassomigliasse una Venere, ma dee quasi dipingere co ’l suo stile la sua donna ora in forma di ninfa, or d’altra diva

che dal più chiaro fondo di Sorga esca,

o far verdeggiare il lauro e ’l ginebro, e descriverci e quasi ponere innanzi gli occhi le selve, i colli vestiti d’alberi, e le campagne e i prati ornati di fiori, e i fonti, e i fiumi

ch’avean pesci d’argento, arene d’oro ;

e le carole delle ninfe in guisa che noi reggiamo come

su le minute arene e ’n su le sponde
danzava Dori, ed Aretusa a paro.
.................................
sovra i delfini de vermiglie rose
coronati ;

e l’altre cose che seguono o che precedeno. In due modi adunque il grazioso è differente dal ridicolo : nella materia e nell’elocuzione. La materia che muove riso è quella ch’abbiamo quasi dimostrata, e oltre a ciò le favole, come quelle d’Esopo, e l’altre note nelle satire, e l’imagini come quella del tedesco dimostrata da Cicerone. Ma delle cose che ci paion graziose abbiam già detto a bastanza.

[3] Dell’elocuzione possiamo anco ragionare. Il parlare è spesse volte grazioso per la brevità, ma, dilatandosi, perde la grazia ; e di ciò abbiamo uno essempio lodatissimo appresso Senofonte, oltre molti altri che si potrebbon raccogliere del medesimo autore e da gli altri. L’essempio è quel del fiume Teleboa, addotto dal Falareo, ad imitazione del quale io dissi parlando del Metauro :

O del grande Apennino
figlio picciolo sì, ma glorioso ;

là dove s’io avessi spiegato questo concetto con più lungo giro di parole, di leggieri avrebbe perduta ogni grazia. Assai graziosi sogliono esser per la medesima cagione i piccioli poemi, e ne’ piccioli poemi i piccioli versi, come quelli di Guido Cavalcante :

Perch’io non spero di tornar già mai,
ballatetta, in Toscana,
va’ tu, leggiera e piana,
dritto a la donna mia,
che per sua cortesia
ti farà molto onore.

[4] Ma le figure della forma graziosa possono più agevolmente esser ricevute dal poema eroico, e mescolate con quelle della magnificenza e con l’altre. Una fra l’altre è la repetizione, o la replica che vogliam dirla, la quale, come che sia attissima ad irritar gli animi, può esser nondimeno usata per acquistar grazia, come in quella canzone del Tasso :

E cantando diceano : « Udite, udite
l’aventuroso fato di costei,
mortali fortunati, età beata ».

[5] Nasce ancora dalla traslazione o dalla metafora, la quale s’accommnoda ancora in questa forma, come in que’ versi del Petrarca :

tu ’l vedi, Amor, che tale arte m’insegni.
Non so s’io me ne sdegni,
ch'in questa età mi fai divenir ladro
del bel lume leggiadro ;

e in quelli altri :

Una chiusa bellezza è più soave.
Benedetta la chiave che s’avolse
al cor, e sciolse l’alma.

[6] E dalle parole basse e volgari suol nascere alcuna volta il grazioso, e da' proverbi più che dall’altre, come nella istessa canzone del Petrarca :

Un’umil donna grama un dolce amico.
Mal si conosce il fico.

[7] E dalla comparazione ancora nasce la grazia, come nella canzone ch’abbiamo addotta :

e come augello in ramo,
ove men teme, ivi più tosto è colto,
cosi dal suo bel volto
l’involo or uno ed ora un altro sguardo ;
e di ciò insieme mi nutrico ed ardo.

[8] E quella è comparazione graziosissima :

che ’l poverel digiuno
vene ad atto talor che ’n miglior stato
avria in altrui biasmato.
Se le man di pietà invidia m’ha chiuse,
fame amorosa, e ’l non poter, mi scuse.

[9] E 'l dire alcuna cosa soverchia, quasi per abbondanza, suol esser fatto con leggiadro artificio, o per usanza più tosto, come quello :

talché mi fece, or quando egli arde il cielo ;

e quell’altro :

Se Virgilio ed Omero avessin visto
quel sol il qual vegg’io con gli occhi miei.

[10] Gli scherzi ancora, ch’« allusion » furono dette da’ Latini, convengono a questa forma più ch’a tutte l’altre, come è quel del Petrarca :

L’aura che ’l verde lauro e l'aureo crine ;

o quell’altro, nel quale graziosamente par che scherzi della sua vecchiezza :

o non cura, o s’infinge, o non s’accorge
del fiorir queste inanzi tempo tempie ;

e quel de’ Trionfi :

Questo è colui che ’l mondo chiama Amore ;
amaro, come vedi, e vedrai meglio.

[11] Ma perché in questa forma bella e ornata si ricerca principalmente il diletto, e ’l diletto nasce dalle metafore, dall’efficacia e dall’opposizione, tutte tre son proprie di questa figura ; e particolarmente mi paion belli i contraposti, come son quelli del Bembo :

Non son, se ben me stesso e te risguardo,
più da gir teco : io grave e tu leggiero ;
tu fanciullo e veloce, i’ vecchio e tardo.
Arsi al tuo foco e dissi : « Altro non chero »,
mentre fui verde e forte ; or non pur ardo,
secco già e fral, ma incenerisco e pero.

[12] E ’l render a ciascuna cosa il suo proprio, suol esser cagione di grandissimo ornamento, come in quel sonetto :

Amor m’ha posto come segno a strale,
come al sol neve, e come cera al foco,
e come nebbia al vento ; e son già roco,
donna, mercé chiamando, e voi non cale.

[13] Ma questa figura, propria dell’ornato dicitore, è talora sprezzata dal magnifico ; però a torto fu ripreso il Caro dal Castelvetro, quando egli disse :

e tu mi desta, e tu m'aviva
lo stil, la lingua e i sensi,
perch’altamente io ne ragioni e scriva.

[14] Bellissimi ancora sono e ornatissimi gli aggiunti i quali implicano contrarietà e contradizione, come quelli :

e dannoso guadagno ed util danno,
e gradi ove più scende chi più sale ;
stanco riposo e riposato affanno,
chiaro disnore e gloria oscura e nigra,
perfida lealtate e fido inganno.

Ad imitazione de’ quali disse monsignore della Casa :

avversità seconda
mi diede Amore, e foco
m’accese al cor di refrigerio pieno ;

e altrove :

Pietosa tigre il ciel ad amar diemmi,
donne, e serena e piana
procella il corso mio dubbioso face.

Ma questa figura è propria de’ Toscani, quantunque da’ Greci e da’ Latini ne siano usate altre assai simili, e alcuna volta con la negazione espressa, come son quelle ἄδωρα δῶρα, ἀγάμους γάμους,e insepulta sepultura che fu detto da Marco Tullio, e da Catullo funera nefunera, e da Ovidio iusta iniusta ; ed Ennio molto prima avea detto artem inertem.

[15] E la distribuzione o ’l componimento stimo ancora proprio di questa forma bella e ornata, come per essempio :

Amor, Fortuna e la mia mente schiva
di quel che vede, e nel passato volta,
m’affligon sì ch’io porto alcuna volta
invidia a quei che son su l’altra riva.
Amor mi strugge il cor, Fortuna il priva
d’ogni conforto, onde la mente stolta
s’adira e piange.

[16] Massimamente se gli è alcuna opposizione, come quella :

Io da man manca, ei tenne il camin dritto ;
io tratto a forza, ed ei d'Amore scorto ;
egli in Gierusalemme, ed io in Egitto.

[17] E i membri e le parole c’hanno il medesimo fine sono dolcissime in questa forma :

Non è sì duro cor che lagrimando,
pregando, amando, talor non si smova,
né sì freddo voler che non si scalde.

Anzi la rima stessa ha peraventura avuta origine da quella figura che ’ Latini chiamano similiter desinens o pariter cadens ; e nella rima le parole piene di vocali sono più dolci e più atte in questa forma vaga e fiorita di poesia, come quelle :

Da’ bei rami scendea
(dolce ne la memoria)
una pioggia di fior sovra il suo grembo ;
ed ella si sedea
umile in tanta gloria,
coperta già dall’amoroso nembo ;

perché l'ultima rima, piena di consonanti, ci è giunta per temperamento, avenga che la forma bella sia insieme la temperata, la quale schiva i freni dell’orazione che son fatti dal concorso d’asprissime lettere, come è il polisigma, in cui si fanno sentire molte s ; schiva ancora il metacismo e l’altre figure sì fatte, come dice Marzian Capella nelle Nozze di Mercurio. Nondimeno, per giudicio del Falereo, è amica del labdacismo, perché grandissima grazia e bellezza ancora suol nascer da quelle lettere che son dette liquide e, più che da l’altre, da l ; anzi, quando molte parole cominciano da questa lettera, se ne fa un dolcissimo composito, che da’ Greci fu chiamato melisma, o una figura che vogliam dirla, come in quelle parole di Virgilio :

quaeque lacus late liquidos;

e in quelle dolcissime del Petrarca :

e le fere, e gli augei lagnarsi, e l'acque.

[18] E in questa forma, più che in tutte l’altre, è convenevole la dolcezza e la soavità delle rime, e la composizione delle parole e de’ versi tenera, molle e delicata. Laonde tanto son più lodati i versi, quanto sono meno interrotti e perturbati nell’ordine delle sentenze e delle parole, sì veramente ch’elle sian scelte e sonore e depinte e traslate, e dall’altre figure quasi gemme intessute in un lavoro d’oro e di seta di vari colori ; sia per essempio quel sonetto del Petrarca :

Erano i capei d’oro a l’aura sparsi
che ’n mille dolci nodi gli avolgea,
e ’l vago lume oltra misura ardea
di que’ begli occhi, ch’or ne son sì scarsi ;
e ’l viso di pietosi color farsi,
non so se vero o falso, mi parea :
i’ che l’esca amorosa al petto avea,
qual meraviglia se di subit’arsi ?

e quel che segue. E quell’altro di monsignor della Casa, nel quale una volta sola l’un verso rientra nell’altro :

Dolci son le quadrella ond’Amor punge,
dolce braccio l’aventa, e dolce e pieno
di piacer, di salute è 'l suo veneno,
e dolce il giogo ond’ei lega e congiunge.
Quanto io, donna, da lui vissi non lunge,
quanto portai suo dolce foco in seno,
tanto fu 'l viver mio lieto e sereno ;
e fìa, fin che la vita al suo fin giunge.
Come doglia fin qui fu meco e pianto,
se non quando diletto Amor mi porse,
e sol fu dolce amando il viver mio ;
così ha sempre ; e lode aronne e vanto,
ché scriverassi al mio sepolcro forse :
Questi servo d’Amor visse e morio.

[19] Ma l’usar molte parole le quali abbiano principio da l'm conviene al pianto, e peraventura in questa medesima forma è conveniente, come :

di me medesmo meco mi vergogno.

Ma s, v sono asprissime oltre l’altre, però nella magnifica avranno luogo più agevolmente, e nella grave ancora, nella quale tre cose parimente si considerano: le sentenze, le parole e la composizione. Ma alcune cose sono gravi per se stesse, ch’essendo narrate, fanno più grave il parlare ; ma non basta che le cose sian gravi, s’elle non son dette con gravità, come quelle :

Per le camere tue fanciulle e vecchi
vanno trescando, e Belzebù in mezzo
co ’l mantice e co ’l foco e con gli specchi.
Già non fosti nudrita in piume al rezzo,
ma nuda e scalza al verno infra gli stecchi ;
or vivi sì ch’a Dio ne venga il lezzo.

[20] La brevità in questa forma si richiede più ch'in tutte l’altre, perciò che il molto nel poco si mostra molto più grave ; però gli Spartani, ch’erano di natura gravissima, parlavano brevemente. Il comandar ancora si fa con brevi parole ; e ’l riprender le cose presenti porta seco non mediocre gravità, come si conosce in que’ versi :

né trovo chi di mal far si vergogni.
Che s'aspetti non so, né che s’agogni,
Italia, che suoi guai non par che senta :
vecchia, oziosa e lenta,
dormirà sempre, e non ha chi la svegli ?

Nondimeno è pericoloso ; e ’l lusingar è pieno d’indignità ; e tra questo e quello è quasi mezzo il reprender il vizio degli amici negli altri, facendo insieme due effetti, cioè di conservar il decoro e di por le cose in securo. Ma con molta gravità si lodano le cose passate, quando vi sia mescolata insieme alcuna riprensione delle presenti, come in que’ versi :

L’antiche mura, ch’ancor teme ed ama
e trema il mondo, quando si rimembra
del tempo andato e ’n dietro si rivolve,
....................................
di ta’ che non saranno senza fama,
se l’universo pria non si dissolve,
e tutto quel ch’una ruina involve,
per te spera saldar ogni suo vizio.

I simboli ancor sono gravi, e l’allegoria, come quelli :

ed or siam giunte a tale
che costei batte l’ale
per tornare a l’antico suo ricetto ;
io per me sono un’ombra.

[21] Ma niuna cosa par più grave che ’l por nel fine quello ch’oltre tutte l’altre cose è gravissimo, come è quello :

Ira è breve furore, e chi no ’l frena,
è furor lungo, che ’l suo possessore
spesso a vergogna, e talor mena a morte ;

là dove, rivolgendosi l’ordine delle parole, molto perderebbe la sentenza della sua gravità. In questo modo è quello del Bembo :

questo è le mani aver tinte di sangue ;

assai parrebbe men grave, tramutandosi :

questo è le mani aver di sangue tinte.

E quello altro di monsignor della Casa

crudele, or non è questo a Dio far guerra ?

in qualunque modo si trasmutasse, ponendo nel fine quel ch’è nel mezzo, diverrebbe più languido per la mutazione.

[22] L’oscurità suole ancor in molti luoghi esser cagione della gravità, perciò che tutto quello ch’è piano e aperto suole esser sprezzato. Alcuna volta ancora lo spiacevol suono fa gravità, come quello :

Però, al mio parer, non gli fu onore
ferir me di saetta in quello stato,
e a voi armata non mostrar pur l’arco.

E quell’altro :

e per viver ancor venti anni o trenta,
parrà a te troppo, e non fia però molto.

[23] La dolcezza del suono all’incontra, o più tosto la tenerezza, per così dire, e l’egualità suole esser nemica della gravità ; nemici ancora della gravità son i contraposti e le sentenze contrarie fatte con affettata diligenza e con arte viziosa ; e, s’io non m’inganno, di questo vizio possono esser biasimati molti moderni dicitori. Tutta volta i contraposti soglion gonfiare il verso, laonde, mescolati con la figura della gravità, fanno il parlar più riguardevole e più magnifico e più bello ; e noi cerchiamo la bellezza e la magnificenza oltre tutte l’altre cose. Laonde lodiamo quelle orazioni e que’ poemi i quali sono essattissimi e insieme magnificentissimi, e somigliano le statue di Fidia, ch’erano fatte con politissima arte, e aveano insieme dell’esquisito e del grande ; e possiamo in ciò securamente approvar il giudizio di Demetrio e d’Aristotele più tosto che l’essempio o l’autorità de’ poeti antichi.

[24] Ma tra le figure delle sentenze che fanno la gravità, principalissima è la prosopopeia, la qual si fa introducendo a parlare la patria, come abbiamo detto, o Italia o Roma, ch’abbia presa la forma feminile, come fece il Petrarca nella canzone a Cola di Rienzo, della quale abbiam già fatta menzione :

Di costor piange quella gentil donna
che t’ha chiamato accioché da lei sterpi
le male piante, che fiorir non sanno.

Si posson introdurre ancora i padri e gli avi e quelli che son morti, come nell’istessa canzone :

E se cosa di qua nel ciel si cura,
l’anime che là su son cittadine
ed hanno i corpi abbandonati in terra,
del lungo odio civil ti pregan fine ;

perché quelle parole saran più gravi e più illustri che fien dette non in propria persona, ma in persona de’ trapassati, come c’insegnò a fare Platone nel suo Epitafio.

[25] E la reticenza e l’omissione, che noi possiam dir tralasciamento, sono usate acconciamente in questa forma del parlare, come quella :

Cesare taccio, che per ogni piaggia
fece l’erbe sanguigne
di lor vene, ove il nostro ferro mise ;

e quell’altre :

Passo qui cose gloriose e magne
ch’io vidi e dir non oso ; a la mia donna
vengo etc. ;

quantunque possono esser fatte per altra cagione che per quella che c’insegna il Falereo.

[26] Io numerarei ancora tra le figure le quali convengono a questa forma l’ironia, della quale son pieni i ragionamenti di Socrate ; e n'abbiamo ancora l’essempio in Dante :

tu grande, tu con pace, tu con senno !

E quella la qual, benché non sia ironia, ha similitudine con l’ironia, e lascia dubbio s'ella sia fatta con disprezzo o meraviglia. E la dimostrazione, come quella :

Questo fu il fel, questo gli sdegni e l'ire,
più dolce assai che di nulla altra il tutto.

[27] Le parole in questa forma deono esser le istesse che nella magnificenza sono scelte. Ma tra le figure del parlare, il raddoppiar le parole si fa acconciamente e con molta gravità, come fece Dante :

Ahi, Fiorenza, Fiorenza, ché non stanzi.

[28] Gravissima ancora è quella figura detta da’ Greci ἐπαναφορά, perché non solo comincia nella medesima parola, ma finisce nell’istessa, e i membri sono senza congiunzione ; e bisogna sapere che la dissoluzione, o ’l discioglimento che vogliamo chiamarlo, è buon maestro della gravità ; laonde non conviene meno a questa forma ch’alla magnifica, fra le quali sono comuni molte figure.

[29] Grave ancora è l’interrogazione, perché più dimanda che non dice, e richiama in dubbio l’uditore, quasi egli non sappia rispondere e sia confuso, come in quelle che già sono state addotte :

vecchia, oziosa e lenta,
dormirà sempre, e non fìa chi la svegli ?

E in quell’altra :

Voi, cui Fortuna ha posto in mano il freno
delle belle contrade,
di che nulla pietà par che vi stringa,
che fan qui tante pellegrine spade ?

E ’l moderarsi e ’l correggersi, come :

Vergine saggia, e del bel numero una
de le beate vergini prudenti,
anzi la prima.

E l’affermar certamente, in quel modo :

Fammi (che puoi) de la sua grazia degno.

E ’l fermarsi molto in una cosa, e farci quasi fondamento, giova molto alla gravità, come in que’ versi del Petrarca :

E per dir a l'estremo il gran servigio,
da mille atti inonesti l’ho ritratto.
....................................
Ancora (e questo è quel che tutto avanza)
da volar sopra il ciel gli avea dat'ali,
per le cose mortali.

Ma le comparazioni non son convenienti a questa forma, perché sono troppo lunghe.

[30] Ritiene ancora qualche parte di gravità colui il quale dice le cose odiose come piacevoli; s’ascondano alcune volte con parole pietose, come, volendo persuadere un prencipe vittorioso alla crudeltà, il consigliero li disse che doveva usar la vittoria, e un altro, che doveva assicurarsi del nemico. Molte altre cose son dette della gravità, le quali noi tralasciaremo perché sono più appartenenti all’oratore che al poeta.

[31] Ora consideriamo l’umil forma di parlare, se non la vogliamo chiamar più tosto tenue o sottile, della quale diremo poche cose, perché le molte non son necessarie al nostro proponimento. Le cose picciole sono accommodate a questa maniera, e le parole deono esser proprie e usate, perché tutto quello che s’allontana dalla consuetudine è magnifico. Non si convengono dunque i nomi trasportati, o finti, o i peregrini, o gli altri detti di sopra ; e l’elocuzione dovrebbe esser piana e chiara. Ma quella ch’è senza congiunzioni è oscura, come erano gli scritti d'Eraclito ; però non le si conviene. Non è disdicevole nondimeno nella comedia, perché la dissoluzione è propria dell’azione dell’istrione ; laonde riesce molto meglio disciolta che legata. Ma nelle scritture dee aver le congiunzioni, quasi nodi e legami che la ritengano, accioché non si dissolva a guisa di scopa dislegata o d’altro fascio. Deve ancora la piana scrittura fuggir tutte l’ambiguità, e usar quella figura che da’ Greci si dice epanalepsi, nella quale si replica la medesima copula o la medesima parola dove temiamo che l’uditore per lunghezza non se ne sia dimenticato, come in quello essempio :

Ma pur quanto l’istoria trovo scritta
in mezzo il cor, che sì spesso rincorro,
con la sua propria man, de’ miei martiri,
dirò, perché i sospiri
parlando han tregua, ed al dolor soccorro.
Dico che, perch'io miri
mille cose diverse attento e fiso,
sol una donna veggio, e ’l suo bel viso.

Si deono fuggire ancora quelle maniere di parlare che si fanno con li obliqui, perché sono oscure, e si dee usare l’ordine naturale di parlar, e nelle narrazioni si dee cominciare dal caso retto, o dal quarto caso almeno, perché gli altri sogliono apportar oscurità. Non convengono ancora a questa forma né ’ membri lunghi né i versi spezzati, e si deono fuggire i concorsi delle vocali lunghe e de’ dittongi, e le figure troppo riguardevoli e l’illustri, e tutto quello che s’allontana dall’uso commune. Ma la repetizione si può usare in questa forma ; e oltre tutte cose è in lei richiesta quella probabilità e quella che da’ Latini è detta « evidenzia », da’ Greci « energia » ; da noi si direbbe « chiarezza » o « espressione » non men propriamente ; ma è quella virtù che ci fa quasi veder le cose che si narrano, la quale nasce da una diligentissima narrazione, in cui niuna cosa sia tralasciata, come si vede nelle narrazioni del conte Ugolino :

La bocca sollevò dal fero pasto
quel peccator, forbendola a’ capelli
del capo ch’egli avea di retro guasto ;

e nell’altre cose ch’ivi sono narrate. E quella comparazione ancora è piena di grande evidenza :

Come le pecorelle escon dal chiuso
ad una, a due, a tre, e l’altre stanno
timidette atterrando l’occhio e ’l muso ;
e quel che fa la prima, e l'altre fanno,
addossandosi a lei, s’ella s’arresta,
semplici e quete, e lo perché non sanno.

Nasce ancora questa virtù quando, essendo alcuno introdotto a parlare, non solamente si descrivono le parole, ma si dipingono gli atti e i movimenti, come nel ragionamento di Farinata :

mi guardò un poco, e poi, quasi sdegnoso ;

e in quel di Massinissa :

Mirommi, e disse : « Volentier saprei
chi tu se’ innanzi » ;

e appresso :

In tanto il nostro e suo amico si mise,
sorridendo, con lei ne la gran calca,
e fur da lui le mie luci divise.

E ne’ medesimi Trionfi, parlando d’Antioco :

Ed egli al suon del ragionar latino
turbato in vista, si ritenne un poco ;
e poi, del mio voler quasi indovino ;

e appresso :

Poi che dagli occhi miei l’ombra si tolse,
rimasi grave, e sospirando andai.

Suol nascer ancor questa evidenza quando si dicono cose consequenti alle cose narrate ; così nel descrivere il viaggio della nave si dirà che l’onda rotta diviene spumante e le fa rumore intorno. E descrivendo il suono della tromba, acconciamente Ennio finse il nome di taratantara in quel verso :

At tuba terribili sonitu taratantara dixit ;

ad imitazion del quale disse poi il Tasso nel suo Amadigi :

La tromba ostil co ’l suo taratantara.

E l’asprezza del suono ne’ nomi finti :

che Giove irato per vendetta croscia ;

o quell’altro :

Io sentia già da la man destra il gorgo
far sotto noi un orribile stroscio.

E la dolcezza, come quel del Petrarca :

ed acque fresche e dolci
spargea, soavemente mormorando.

E tutti i nomi finti, come rombo, rimbombo, susurro, mormorio, sibilo, fischio, e gli altri sì fatti, perché in tutti è imitazione, e ogni imitazione ha seco l’evidenza.

[32] Ma perché l’imitazione è propria del poeta, è necessario che in questa parte consideriamo l’eccellenza d'Omero e di Virgilio, a' quali i poeti toscani non si possono paragonare di leggieri. L’arte de’ poeti, come disse Dion Crisostomo, è molto licenziosa, e quella d’Omero massimamente, il quale usò grandissima libertà, e non elesse una lingua, o con un carattere solamente, ma tutte volle adoperare, e tutte insieme le mescolò. Laonde niun tintore tinse mai sete di tanti colori di quante egli fece l’opere sue ; né contento d’usar le parole del suo tempo e di tutta la Grecia, usò Cantiche a guisa di vecchia moneta cavata da’ tesori di qualche ricchissimo signore ; molte ancora ne ricevè de’ barbari, e non s’astenne da alcuna, sol che gli paresse aver in sé qualche piacevolezza o qualche veemenza. Né trasporta solamente i nomi vicini da’ vicini, ma i lontani da’ lontani, purché adolcisca l’auditore e, rempiendolo di stupore, l’incanti con la meraviglia ; né però gli lascia nel proprio paese o nella propria natura, ma questi allunga, altri accorcia, altri trasmuta e quasi volta sottosopra ; e in somma si dimostra non sol facitor de’ versi, ma di parole, o ponendo semplicemente nomi alle cose, o sopra i propri imponendone altri di nuovo, quasi imprimendo sigillo sovra sigillo. Né si guardò da suono o da strepito alcuno di parole, ma, per dirlo brevemente, imitò le voci de’ fiumi, delle selve, de’ venti, del fuoco e del mare e, oltre a ciò, de’ metalli e delle pietre e delle fiere, degli uccelli, delle piume, e in universale di tutti gli istrumenti e di tutti gli animali ; e primo ritrovò καναχάς e βόμβους e altre sì fatte cose, e nominò i fiumi μορμύροντα, e le saette κλάζοντας, e l'onde βοῶντα, e i venti χαλεπαίνοντας, e disse molte altre cose somiglianti ch’in vero paiono meraviglie e riempiono gli animi di tumulto e di perturbazione. Ma Virgilio, bench’usasse alcuni nomi antichi raccolti da Ennio e da gli altri poeti, e alcune terminazioni similmente e alcune poche cose de’ barbari, l’usò nondimeno con arte e con giudizio grandissimo e maturo, e rade volte ; e mescolò le forme e i caratteri, ma gli dispose in guisa che ne ’l suo poema sono molti quasi gradi d’un teatro «onde si scende poetando e poggia », ma non si trova alcun precipizio o alcuno intoppo soverchiamente spiacevole, il quale offenda il lettore, e, quasi stanco, l’astringa a fermarsi mal suo grado. Nell’espressione delle cose nondimeno, e in quella che ’ Greci chiamano « energia », fu meraviglioso ed eguale ad Omero, e co ’l suono e col numero l’imita in guisa che ce le pone innanzi a gli occhi, e ce le fa quasi vedere e udire. Veggiamo quasi cader il bue e precipitar la notte in quelle parole :

procumbit humi bos ;
ruit Oceano nox.

Vedi quasi la furia de’ cavalli che s’urtano insieme, e odi lo strepito in quelle altre :

perfractaque quadrupedantum
pectora pectoribus rumpunt.

Né meno in quelle odi il rumor delle onde, e le vedi quasi rotte e biancheggianti :

spumas salis aere ruebant ;
convulsum remis, rostris stridentibus aequor.

E odi il suono parimente in quelli altri :

longe sale saxa sonant ;
atque refracta remurmurat unda.

E s'appresenta inanzi a gli occhi un ruvinoso monte d’acqua in quell’altro :

insequitur praeruptus aquae mons.

La tardanza e la gravità in quello :

Olii sedato respondet corde Latinus.

E la tardanza parimente in quell’altro :

proximus huic, longo sed proximus intervallo.

Ma la velocità in queste :

radit iter liquidimi, celeres neque commovet alas;
Eia age, rumpe moras ;

e in questo :

turbine corripuit scopuloque iniìxit acuto.

La tardanza con lo strepito dell’armi :

Quod votis optastis adest perstringere dextra etc. ;
in clipeum assurgat, quo turbine torqueat hastam.

Ma questo ti fa quasi sentir la debolezza :

telum imbelle sine ictu ;

e in quelle :

languent effractae in corpore vires.

Ma chi è che, leggendo quest’altra, non gli paia di vedere e d’udire un furioso ?

Arma amens fremit, arma toro tectisque requirit ;

e ’n quelle non senta la percossa della caduta e ’l rimbombo dell’arme ?

collapsa ruunt immania membra ;
dat tellus gemitum, et clypeus super intonat ingens.

[33] Ma di queste cose hanno scritto più lungamente il Trapezunzio nella sua Retorica e ’l Vida nella sua Poetica. Dante è quasi terzo fra costoro, come dice egli stesso « fra cotanto senno » : è più simile ad Omero nell’ardire e nella licenza e nel mescolamento delle parole antiche e barbare ch’a Virgilio, e il somiglia ancora in quella che da’ Latini è stata detta « evidenzia » ; ma egli dice d’esser imitatore e discepolo di Virgilio, e peraventura il somigliò nella brevità. Ma paragonando le virtù de’ duo maestri insieme, si può dubitare qual sia maggiore : perché l’uno mette più le cose innanzi a gli occhi e le particolareggia, come disse il Castelvetro ; l’altro, cioè Virgilio, sta più su l’universale e, come pare al Castelvetro, per difetto d’arte, ma, come io stimo, per dir le cose più magnificamente o più gravemente : perché il discriverle minutissimamente non porta seco l’una né l’altra virtù. Ma la virtù d’Omero è virtù propria del poeta e d’ogni poeta, quella di Virgilio propria del poeta eroico, a cui si conviene servar il decoro e sostener la grandezza oltre tutte l’altre cose. L’uno e l’altro nondimeno mescolò tutti i caratteri, ma questo con maggior temperamento ; e perché sì come alla fortezza è vicina l’audacia, alla parsimonia l’avarizia, così ancora alle virtù d’elocuzioni è sempre vicino alcun vizio. Virgilio fu cauto sopra ciascuno in guardarsi dalle forme viziose, le quali con diversi nomi furono chiamate da’ Greci e da’ Latini ; ma Demetrio c’insegna che ’l parlar freddo è vicino al magnifico, il cacozelo, che noi, seguendo Quintiliano, possiam dire « male affettato», al venusto o grazioso, l’asciutto al tenue, l’invenusto o ’l disgraziato al grave. Il freddo, come il diffinisce Teofrasto, è quel ch’eccede la propria esposizione, perch’una cosa picciola e minuta s’espone con parole troppo grandi, le quali, ove siano senza sale, sogliono alcune volte riuscire fredde e insipide molto, come quel che si racconta del sasso che ’l Ciclope gittò nella nave d’Ulisse, nel quale pascean le capre. Ma volle per aventura Luciano far prova del suo ingegno nelle vere narrazioni, descrivendo alcune cose da scherzo in guisa che paiano graziose, quantunque superino la propria esposizione ; e fu imitato graziosamente nell’orca la quale aveva i molini nella gola che macinavano ; e altre sì fatte meraviglie si leggono nel medesimo poeta non senza grazia ; alcune nondimeno sono fredde, come pare al Vittorio ; ma questo difetto è proprio di coloro che scrissero romanzi in questa lingua, i quali dicono cotali cose sciocche che posson mover riso, e con la sciocchezza solamente. Nasce il freddo, come il magnifico, nella sentenza, nelle parole e nella composizione ; e nelle parole, per opinione d’Aristotele, in quattro modi : perché sono mal composte, come usavano i ditirambi, o sono di molte lingue mescolate insieme, o sono aggiunti troppo lunghi e troppo spessi, o sconvenevoli metafore. Delle parole composte viziosamente a pena possiamo darne essempio in questa lingua ; ma fra le poche è quella ch’usò il Boccaccio : melliflue; la qual riuscirebbe in altro modo assai fredda, come sarebbe quella Soaviloqua Musa anacreontica, se ’l poeta non parlasse da scherzo ; e si caderebbe di leggieri in questo vizio componendo le parole ad imitazione de’ Latini, e dicendo Diana boschicultrice, o la cerva boschivaga, o la prima età floricoma, o altri somiglianti. Negli aggiunti, quando dicono il latte bianco, la neve fredda, il foco ardente, peccano più tosto i prosatori che i poeti ; e questo è vizio non sol del Polifilo, ma del Boccaccio istesso in alcune dell’opere da lui composte. Nella varietà delle lingue spesso meritano d’esser ripresi i moderni dicitori ; ma n’abbiamo un essempio non lodevole in quella canzone di Dante :

.............................
oculos meos ? et quid tibi feci,
che fatto m’hai cosi spietata fraude ?

Il quale non avrebbe, per mio aviso, meritato lode alcuna da Aristotele o da Demetrio, bench’essi riprendessero più tosto coloro ch’usavano la varietà delle lingue in quel modo ch’oggi è usato da molti. Ma nelle metafore sconvenevoli peccano molti non se ne avvedendo ; laonde non fu detto con tanta grazia :

altero occhio de’ fiumi, o bel Metauro,

con quanta Catullo avea detto :

ocelle fluminum.

Ed errò alcun altro che chiamò le stelle chiodi del cielo, e che disse alla sua donna :

Son gli occhi vostri archibugetti a ruota,
e le ciglia inarcate archi turcheschi ;

se pur egli non parlò da scherzo ; e quell’altro il qual finse che Caronte avesse fatta la barca de gli strali lanciatili d’Amore, e 'l fiume delle sue lagrime ; e colui che chiamò il velo della sua donna vela della sua fortuna. Altri vi fu che, leggendo nel Petrarca quel leggiadrissimo verso :

umana carne al tuo virginal chiostro,

intendendo del ventre, disse carnal chiostro, e volle intendere di tutto il corpo ; e similmente carnal nido. Ma l’artifìcio di Dante ancora è sospetto in alcune traslazioni, come quella :

da la vagina de le membra sue ;

e ’n quell’altra :

Dentro vi nacque l’amoroso drudo
de la fede cristiana.

Né lodo que’ traslati :

Ben se’ tu manto che tosto raccorce ;
sì che, se non s’appon de die in die,
il tempo va intorno con le force ;

né quella :

La luce in che rideva il mio tesoro ;

né mi piace quella :

e ’n su le vecchie cuoia ;

né alcune altre sì fatte. In somma il parlar freddo, come dice Demetrio, è simile alla vanità, perché sì come il vano si vanta d’aver quel che non ha, così il picciolo dicitore fa troppa ambiziosa mostra delle cose picciole e minute.

[34] L’altre forme viziose, cioè il cacozelo e la invenustà e l’aridità, nascono nelle medesime cose. Ma noi chiamiamo i vizii con altro nome : perch’al sublime facciamo vicino il gonfio, all’omato l’affettato, al piano il basso ; e gli essempi di tutti questi vizii si ritrovano in molti. Ma essendosi conosciute le virtù, si conoscono i vizii di leggieri, i quali tutti dee fuggire il poeta eroico, ora costeggiando gli amenissimi lidi della poesia, ora spiegando le vele nell’altissimo mare dell'eloquenza ; ma schifi Scilla e Cariddi, e le Sirti, e le Sirene, oltre tutti gli altri mostri di questo mare, perch’elle incantano chi ascolta troppo attentamente e l’armonia de l’amorose parole e de’ numeri, che possono addormentar gli animi e intenerirli co ’l piacere.

[35] Laonde nell’eleggere il verso ancora dee mostrarsi giudiziosissimo il poeta eroico. I Greci e i Latini non hanno alcun dubbio nell’elezione, perché il verso di sei piedi è attissimo oltre tutti gli altri a trattar questa materia ; ma la difficoltà è in questa lingua, nella quale egli è quasi straniero, sì còme sono tutti gli altri i quali caminano sovra i piedi usati da’ Greci e da’ Latini, e non hanno la rima, la quale è naturale di questa lingua, e quasi nata con esso lei, né potrebbe farsi nella lingua latina così acconciamente, o così a lungo, senza generar fastidio, tutto che si senta in que’ quattro versi di Virgilio :

Sic vos non vobis nidificate, aves,
sic vos non vobis veliera fertis, oves,
sic vos non vobis mellificate, apes,
sic vos non vobis fertis aratra, boves ;

e in alcuni versi d'Adriano imperatore e in molti inni de gli scrittori sacri. Il medesimo non converrebbe nell'altre lingue, le cui parole finiscono in consonanti, perché la consonanza non sarebbe così dolce e così grata a gli orecchi. Dall’altra parte la nostra lingua non è avezza a caminar sovra i piedi, che non sono suoi propri, né conosce così bene la brevità e la lunghezza delle sillabe, come faceva la latina, la quale pronunziava diversamente e quasi cantando. Laonde s’ella pur volesse ricever i versi stranieri, non dee lasciare il proprio, ma, o ritener questo solamente, o usar gli uni e gli altri a guisa di coltore il quale con la diligenza e con artificio faccia più belle non solamente le piante del paese e le domestiche, ma le selvagge e le peregrine, perché tutte crescono per la coltura e tutte acquistano bellezza e perfezione. Ma fra i versi nostri quel d’undici sillabe è atto al parlar magnifico, ed è quello che riceve maggiore ornamento. Il terzetto ha troppo stretto seno per rinchiudere le sentenze dell’eroico, il quale ha bisogno di maggior spazio per spiegare i concetti, e oltre a ciò non ricerca una catena perpetua, né i riposi così lontani, come sono nel capitolo, ma, spiegando i suoi concetti in più largo e più ampio giro, spesso desidera dove acquetarsi. Nel sonetto e nelle canzoni è troppo varietà di modi, o de mutazioni che vogliam dirle; laonde quella maniera di verso è più atta a le mutazioni del canto e de l'armonia conveniente al teatro. Ma ne la stanza d’otto versi d’undici sillabe è maggiore uniformità e maggior gravità e maggior costanza e stabilità ; la quale non è propia de la scena, ma conviene a’ poemi eroici, come dice Aristotele medesimo ne’ Problemi, e può assai acconciamente esser cantata con armonia dorica o con alcuna simile, s’in questa età n’abbiamo simigliante, la qual non riceva molte mutazioni, e somigli quella lodatissima non solo da Socrate e da Platone ne’ dialogi de la Republica e de le Leggi, ma da Aristotele ancora ne’ suoi Problemi e ne l’ottavo de la Politica, e da Plutarco e da Massimo Tirio e da altri gravissimi scrittori. Ma la musica frigia e la lidia, e quella che di queste è mescolata, sono più ricercate ne le tragedie e ne le canzoni, sì come in quelle che possono commover gli animi e quasi trarli di se stessi, ma non sono atte ad ammaestrarli, benché sino a’ tempi di Plutarco la tragedia non avesse ricevuto la maniera del canto cromatico e l’enarmonia, ma la cetera, assai più antica, da principio gli aveva cominciato ad usare. E perché la musica non fu trovata solamente per trattenimento de l’ozio o per medicina e quasi purgazione de l’animo, ma per ammaestramento ancora, come piace ad Aristotele ne l’ottavo de la Politica, potrà la musica grave e stabile e simile a la dorica servire meglio d’alcun’altra al poema eroico ; però ne’ primi tempi furono i medesimi i musici e i poeti, come Lino, Orfeo, Olimpo, Femio. Dapoi queste arti fur divise per l’umana imperfezione, per la quale non bastiamo a molte cose. E Omero istesso ne l'Iliade, introducendo Achille a cantare i fatti degli eroi a la cetera, c’insegna chiaramente che l’azioni degli eroi deono esser cantate. Il medesimo ci dà a dividere ne l'Odissea con l’essempio di Femio, ceteratore antichissimo fra’ Greci, il quale cantava a la tavola del re de’ Feaci. Poi Terpandro, come racconta Plutarco, aggiungendo i modi a’ suoi versi e a quelli d’Omero, diede le leggi a l’armonia, e fu quasi legislatore de la musica, e fu il primo ancora che ponesse il nome e desse le leggi a le corde de la cetera. Nondimeno il canto ritrovato da Terpandro fu quasi semplice sino a l’età di Frinide, famosa cortigiana, la quale adulterò e quasi contaminò la musica facendo lecito quel ch’era piacevole. F quantunque i canti di Terpandro e quelli d’Olimpo fosser cantati a la cetera di poche corde, nondimeno coloro che poi seguirono ve n’aggiunsero molte, ma non potevano agguagliare né pur imitare la perfezione di que’ primi. Sacada poi, essendo tre toni, il dorio, il frigio e ’l lidio, in ciascun d’essi fece un coro con le sue strofe, overo una canzona che vogliam dirla, con le sue conversioni, e a ciascuna ancora diede le sue leggi. Laonde le leggi furono, per così dire, tripartite, e ciascuno usò quelle che più gli erano a grado. Gli Spartani nondimeno amavano più le doriche, lor propie e naturali ; e Platone, benché fosse ateniese, l’antepone a l’altre, e ne la composizione de l'anima, ne la qual dimostrò grande studio de la musica, loda più la dorica. E Aristotele, dopo lui, conferma ne l'ottavo de la Politica che l’anima nostra è armonia, o non senza armonia. E l’istessa opinione ebbe un altro Aristotele, cognominato il Platonico, il quale non solamente ne la composizione de l’animo, ma in quella del corpo dimostra la sua musica. Ma lunga opera farebbe chi volesse referire quel che n'è scritto non solamente da Platone e da l’uno e da l’altro Aristotele e da Plutarco, ma da Aristosseno ancora e da Tolomeo e da Boezio e da Marzian Capella e da Pietro d’Abano e da altri più moderni. Bastici adunque d’avertire che nel poema eroico si richiede principalmente la musica la qual conservi il decoro de’ costumi e la maestà, come faceva la dorica, e si schivino quelle soverchie perfezioni o imperfezioni per le quali Timoteo, ch’a le sette corde aggiunse molte altre, è biasimato da Ferecrate comico, da cui fu introdutta in scena la Musica a lamentarsi con la Giustizia di essere stata lacerata da Timoteo. Ne’ versi latini essametri, oltre tutti gli altri è gravissimo il verso spondaico, nel quale lo spondeo occupa il luogo del dattilo ; e con questa sorte di versi o di piedi, s’io non m’inganno, soleva l’istesso Timoteo frenare il furore d’Alessandro, che da l’altra maniera di musica era concitato a l’armi, come si legge in Dion Crisostomo. Numerosissimo nondimeno è quel verso essametro nel quale il dattilo ha la penultima sede e l’ultima lo spondeo ; e a questa similitudine sono numerosissimi ancora i nostri endecassilabi, come quel del Petrarca :

battendo l’ale inverso l’aurea fronde;

e quelli altri :

fiere e ladri rapaci, ispidi dumi;
ella avea indosso sì candida gonna ;

e gli altri sì fatti, i quali ne le stanze del poema eroico potranno essere usati con gran convenevolezza, avendosi nondimeno risguardo al variare del numero. Oltre acciò la testura d’otto versi è capacissima, perch’il numero ottonario, come dicono gli aritmetici, è primo fra i numeri solidi e cubi c’hanno pienezza e gravità ; è perfetto ancora e attissimo all’azione, perch’egli è composto de la dualità, ch’è il primo moto o il primo mobile. E perché la musica è composta da’ pari numeri e dagli impari, e dal finito e da l’infinito, per questa cagione ancora è perfetto l’ottonario, sì come quello che si compone dal quaternario duplicato, onde si forma una tessera saldissima, e dal binario quadruplicato, e oltre acciò dal ternario e dal quinario, che sono i primi fra’ numeri impari. E se non bastasse alcuna volta una stanza sola al concetto, si può trapassar dall’una nell’altra. Laonde il poeta eroico può elegger questa inanzi ad ogn’altra testura di rime. E ’l Boccaccio, che prima trattò dell’armi e degli amori in questa lingua, fece di lei giudiziosa elezione ; e ben che ella nel suo nascimento fosse bassetta anzi che no, nondimeno può avenir di lei quel che del sonetto è avenuto, il quale con la coltura acquistò grandezza e magnificenza. Scelgasi dunque la stanza, o l'ottava che vogliam dirla, per attissima al poema eroico oltre tutti gli altri modi di rimare che son propri e naturali della favella toscana, e seguasi non sol la ragione, ma l’autorità di coloro che l’hanno adoperata in materia d’amore e d’arme : perché, doppo il Boccaccio, in questo verso Luigi Pulci scrisse il Morgante ; e ’l fratello il Ciriffo Calvaneo; e Angelo Poliziano (uomo di gran dottrina e di gran giudizio in que’ tempi) l’amore e le giostre di Giuliano de’ Medici ; e ’l Boiardo Orlando innamorato ; e l’Ariosto Orlando furioso ; Pietro Aretino Angelica innamorata ; e Luigi Alemanni Giron Cortese e l'Avarchide ; e ’l Tasso l'Amadigi e ’l Floridante, oltre il Guidon selvaggio che fu da lui prima cominciato ; e ’l Dolce il Sacripante, Achille e gli altri poemi ; e ’l Giraldo cantò d’Èrcole in questo medesimo modo ; e ’l Danese di Marfisa ; e ’l Bolognetto del Costante ; e ’l Pigna scrisse col medesimo gli Eroici; oltra tanti altri nobilissimi ingegni che hanno trattate le favole e le materie d’amore : io dico Lorenzo de’ Medici, il Benvieni, il Bembo, il Molza, il Guarino, Egidio Romano, il Martello, gli Academici Intronati di Siena, il Veniero, l’Anguillara, il Guarnello, il Verdizzotto, il Bonfadio e altri c’hanno avuta qualche fama nella lingua toscana.

[36] Ora potrebbe alcuno dubitare qual sia più eccellente, l’epico o ’l tragico ; perché dell’una opinione è difensor Platone, dell’altra Aristotele ; e io con gli altri tra l’autorità d’ambeduo sono quasi irresoluto ; e benché quella d'Aristotele potesse terminar la questione, nondimeno in questa materia tanto si deono considerar l’autorità quanto le ragioni. Dice Platone che l’epopeia è più perfetta perch’ella ha minor bisogno d’aiuti estrinseci, come quella che si contenta di pochi uditori, e de’ più gravò e giudiziosi ; là dove alla tragedia, dovendo essere rappresentata in scena, sono necessarii gli istrioni, i quali alcuna volta troppo trapassano il verisimile nel contrafare e ne’ movimenti, onde sono somiglianti alle simie ; e la tragedia viene in qualche modo a participar de’ lor difetti ; però dee men nobile esser riputata. A questa ragione risponde Aristotele che l'opposizione non si fa all’arte poetica, ma a quella degli istrioni, potendo avenire che l’epopeia ancora sia recitata con simili movimenti, come fu da Sosistrato, o cantata, come fu da Mnasiteo ; e soggiunge poi che la tragedia ancora senza sì fatti movimenti conseguisce il suo fine, come fa l’epopeia, potendo per la lettura mostrar quale ella sia : laonde per l’altre cose migliore, e per questo difetto non è peggiore, non essendo necessario che si trovi nella tragedia. Dice ancora Aristotele che la tragedia ha le cose le quali sono nell’epopeia, potendo ella ancora servirsi del verso essametro, e oltre a ciò ha la musica e l’apparato per la vista ; ha maggior evidenza, e in minor tempo conduce la sua favola a fine, laonde il piacer è più unito e più ristretto ; ma quella dell’epopeia è simile al vino troppo inacquato. Ultimamente dice che la favola della tragedia è più semplice e più una, ed eccede ancora nell’offizio e nel fine dell’arte, ch'è il dilettare; laonde si può conchiudere che sia megliore, perché meglio asseguisce il suo fine. Queste sono le ragioni d’Aristotele, le quali combattono molte contra una, laonde sarebbe necessario che la ragione di Platone fosse quasi un altro Achille, che non si sgomentasse per la moltitudine de gli avversari. Ma considerisi il valor di ciascuno. L’opposizione di Platone non è fatta all’arte de gli istrioni solamente, ma alla poetica, o a quella parte d’essa alla quale è necessario l’istrionica : per ciò che non è vero che tutte le poesie e la tragedia particolarmente possano aver la sua perfezione senza gli istrioni, avegna che ella sia poema dramatico, o rappresentativo che vogliam dirlo, nel quale non appare la persona del poeta ; laonde ha bisogno d’alcuno che la rappresenti ; e s’ella non avesse bisogno di chi la rappresentasse, non sarebbe drammatica ; ma nell’epopeia, la qual è poema narrativo, molte volte il poeta parla in sua persona, onde la rappresentazione o non è necessaria, o è soverchia e viziosa. Oltre a ciò, se la tragedia non avesse bisogno della musica e de l’apparato per conseguire il suo fine, Aristotele non avrebbe comprese l’una e l’altra parte nella diffinizione ; ma, avendole raccolte nella diffinizione, sono necessarie almeno per conseguire l’ultima e propria perfezione, la quale consiste nell’esser rappresentata. Si può aggiungere a questa un’altra ragione : che l’elocuzione dell’epopeia è fatta per esser letta, ma quella della tragedia per esser recitata, laonde ha bisogno della pronunzia degli istrioni, come si può raccorre non solo da Demetrio Falereo, ma d’Aristotele medesimo nel terzo della Retorica, il quale conobbe manifesta la differenza fra quella elocuzione che doveva essere scritta, e quella che ricercava l’aiuto dell’azione, chiamata « disciolta » e « pendente » nell’istesso libro della Retorica. È dunque la tragedia in questa parte gravosa, come dice Platone, e non senza carico. A quello poi, che dice che la tragedia ha tutto quello che ha l’epopeia e alcune cose di più, si può rispondere che quelle cose non sono sue proprie, ma quasi prestate dall’epopeia, come l’essametro, laonde non può usarlo se non rade volte ; ma ordinariamente adopera l’iambo e altri versi che sono minori, e di minor suono, e meno atti alla grandezza e alla magnificenza ; e le cose ch’ella ha di più sono più tosto impedimenti che perfezioni ; e se perfezione è la musica, è perfezione estrinseca ; può nondimeno esser ricevuta dal poeta eroico senza alcuna difficoltà dell’apparato e del teatro e delle machine, come abbiano già detto ; anzi possono i poemi eroici esser cantati con quella sorte di musica ch’è perfettissima, come furono cantati i poemi d’Omero ; e nella nostra lingua particolarmente il poema eroico ha la rima, la quale è una propria e naturale armonia. Non è anche vero che la tragedia abbia maggiore evidenza, se noi vogliam parlare dell’evidenza propria dell’arte poetica, la quale nasce da una accurata narrazione e dagli aggiunti e da’ consequenti, come è quello :

fractaque immurmurat unda ;

anzi questa evidenza è fatta dal poeta mentre egli parla nella propria persona ; laonde la tragedia, nella quale non appare mai la persona del poeta, n’è quasi a fatto priva. Ma l’evidenza della tragedia nasce dall’azione degli istrioni, senza la quale l’elocuzione è oscura, perch’ella non è fatta con alcuna diligenza, come dice Aristotele medesimo, ma è agonistica, cioè conveniente alle contese le quali fanno gli istrioni nel teatro ; però senza l’aiuto dell’azione non fa la propria operazione, e par quasi frivola. Ma questa medesima imitazione o simulazione fatta con l’azione e co’ movimenti degli istrioni non è in modo alcuno necessaria al poema eroico, il quale ha la sua chiarezza per se stesso ; e s’alcune volte sono stati recitati i poemi d’Omero, de’ quali fu istrione Ermodoto, come racconta Ateneo, furono ancora rappresentate l’istorie d’Erodoto, e l’istrione fu Egesia comico. Ma la rappresentazione non conveniva più all’uno che all’altro ; e mi perdoni Demetrio Falereo, il quale fu il primo ch’introducesse nel teatro gli omeristi. Anzi se fosse imperfezione alcuna nella poesia d’Omero, ch’alcuni versi fossero troppo deboli, altri senza capo, altri quasi tronchi nel fine, questa imperfezione egli participò dalla musica, alla quale accomodò i suoi versi, come dice il medesimo Ateneo ; ma più tosto fu artificio eccellentissimo dell’imitazione, nella quale il musico e ’l poeta deono esser conformi. Non posso già negare che la tragedia in minor tempo non conduca la sua favola a fine, e che quel piacere non sia più ristretto ; ma aviene del diletto il quale è nella tragedia e nella epopeia, come della virtù de’ corpi piccioli e de’ grandi : perché niuno è ch’elegesse d’esser picciolo, quantunque la virtù sia più unita, e più dispersa quella de’ grandi ; ma all’incontro è maggior virtù quella d’un corpo grande ; così anco è maggiore il piacere dell’epopeia, anzi è vero piacere, là dove quello della tragedia è mescolato co ’l pianto e con le lagrime, e pieno tutto d'amaritudine. Concedo parimente che la tragedia sia più semplice e più una ; ma non ha potuto però schivare ogni composizione e ogni doppiezza, laonde è composta e doppia in qualche modo ; e sì come, fra i corpi composti, quelli sono perfetti i quali sono misti e temperati di tutti gli elementi e di tutte le qualità, così aviene peraventura, tra le favole, che le più composte siano le migliori. Ma non voglio già concedere che la tragedia meglio conseguisca il fine ; anzi si move a quello per obliqua e distorta strada ; ma l’epopeia per diritta, percioché, essendo duo modi del giovar con l’essempio, l’uno d’incitarci alle buone operazioni mostrandoci il premio dell’eccellentissima virtù e del valor quasi divino, l’altro di spaventarci dalle ree con la pena, il primo è proprio dell’epopeia, l’altro della tragedia, la qual giova meno per questa cagione, e porta ancora minor diletto, perché l’uomo non è di così fiera e scelerata natura che riponga il suo sommo piacere nel dolore e nell’infelicità di coloro che per qualche errore umano sono caduti in miseria. Concedamisi dunque ch’in questa e in alcune altre poche opinioni lasci Aristotele, per non l’abbandonare in cosa di maggiore importanza, cioè nel desiderio di ritrovar la verità e nell’amore della filosofia ; percioché in questa diversità di parere io imiterò coloro i quali nella divisione delle strade sogliono dividersi per breve spazio, e poi tornano a congiungersi nell’amplissima strada la qual conduce a qualche altissima meta o ad alcuna nobilissima città, piena di magnifiche e di reali abitazioni, e ornata di templi e di palazzi e d’altre fabriche reali e maravigliose.