LIBRO PRIMO

[1] I poemi eroici, e i discorsi intorno a l'arte e il modo del comporli a niuno ragionevolmente dovrebbono esser più cari che a coloro i quali leggono volentieri azioni somiglianti alle proprie operazioni e a quelle de' lor maggiori: percioché si veggono messa innanzi quasi una imagine di quella gloria per la quale essi sono stimati a gli altri superiori; e riconoscendo le virtù del padre e de gli avi, se non più belle, almeno più ornate con varii e diversi lumi della poesia, cercano di conformar l'animo loro a quello essempio; e l'intelletto loro medesimo è il pittore che va dipingendo nell'anima a quella similitudine le forme della fortezza, della temperanza, della prudenza, della giustizia, della fede, della pietà e della religione e d'ogni altra virtù la quale o sia acquistata per lunga essercitazione, o infusa per grazia divina. Avendo dunque io proposto di correggere e publicar quel ch'io, già molti anni sono, scrissi in quattro libri, ne' quali mostrai quasi l'idea del poema eroico, ho voluto fare l'elezione della persona di V. S. illustrissima a cui dovessi dedicarli, perciò che ella è nata di progenie a cui questo nome si può attribuire non meno che ad alcuno altro de' moderni secoli e de gli antichi; e molti sono stati nella sua nobilissima stirpe veramente eroi e veramente dotati di fortezza e d'ogni altra virtù eroica. Ma questo non è luogo proprio de le sue lodi, ma delle ragioni che si possono rendere e dell'arteficio del poema epico, il quale, tutto che fosse occulto, sarebbe conosciuto da V. S. illustrissima. Ma essendo dimostrato da gli argomenti e dall'auttorità e da gli essempi, non può trovar meglior giudice, né più giusto estimatore; né la benevolenza o l'amicizia possono impedire in lei il conoscimento: perché l'una virtù non impedisce l'operazioni d'un'altra, ma più tosto suole agevolarla. V. S. illustrissima suole adoperare quel ch'adopera con tutte le virtù insieme. Laonde in una sola azione mostra molte perfezioni, e merita molte lodi unitamente, come in un solo cielo risplendono molte stelle. Non dubito dunque che 'l suo giudizio debbia diminuir la sua cortesia, o la sua cortesia far minore il giudizio; ma la prego che si degni di legger questi brevi Discorsi, e d'accettarli quasi veri testimonii della mia antica servitù. E acciò che sia più facilmente da lei riconosciuta, non ho voluto fare in loro molte mutazioni né molto accrescimento, quantunque con gli anni sogliono crescere quelle cose che non hanno ancora ricevuto la loro perfezione. Oltre acciò, ho dubitato che altri non potesse credere ch'io volessi attribuirmi l'opinione d'alcuni; però delle molte cose ch'io ho dopoi lette e considerate in questa materia, ho aggiunte solamente quelle delle quali aveva raggionato publicamente in Bologna, o privatamente in Ferrara e in altre parti con molti amici miei. Per niuna cagione adunque deve esser rifiutato il testimonio di questa piccola opera, la quale io composi in pochi giorni e molti anni prima ch'io ripigliassi il poema tralasciato nel terzo o nel quarto canto. Ma, benché si prestasse fede all'anteriorità, non si dee negare alle raggioni; e io ho scelte alcune di quelle ch'in questa materia possono essere scritte con acconcio modo, percioché non apportano seco necessità senza persuasione, né fanno violenza a l'animo di chi legge, ma lasciano libero il giudizio de l'approvare.

[2] Dico adunque che in tutte le cose si dee riguardare all'ultimo, come dice Aristotele ne la Topica; ma l'ultimo è uno, laonde non si può ritrovare unitamente in molti particolari; ma considerando le bontà nell'eccellenze che sono divise fra molti, si forma l'idea della bontà e dell'eccellenza, come formò Zeusi quella della bellezza quando volle dipingere Elena in Crotone; e questa differenza è per aventura fra l'idee delle cose naturali che sono nella mente divina, e quella dell'artificiali, delle quali si figura e quasi dipinge l'intelletto umano: ché nell'una l'universale è innanzi le cose stesse, nell'altro dapoi le cose naturali. L'idea dunque delle cose artificiali è formata dopo la considerazione di molte opere fatte artificiosamente; nelle quali tuttavolta non è l'ottimo, ma quella è migliore che più le s'avicina. Dovendo dunque io mostrar l'idea dell'eccellentissimo poema eroico, non debbo preporre per essempio un poema solo, bench'egli fosse più bello de gli altri, ma, raccogliendo le bellezze e le perfezioni di ciascuno, insegnare come egli si possa fare bellissimo e perfettissimo insieme.

[3] Ma prima debbiamo per aventura ricercare quel che sia il poema eroico, o pur quel che sia il poema, ch'è il suo genere, e dopoi considerare l'idea, perché dall'idea si conosce, come dice Aristotele nel medesimo libro della Topica,se la definizione sia vera e propria; e benché in alcune cose non convenga a fatto, in questa, di cui parliamo, sicuramente possiamo considerare l'una e l'altra insieme. Oltre acciò, se per abondare d'argumenti debbiamo rimirare nell'essemplare, rimiriamo nell'idea, perché l'idea è 'l vero essemplare e 'l vero essempio, se così vogliamo dire più tosto; anzi possiamo usare la perfetta definizione in vece di regola e d'essempio, come insegna Alessandro Afrodiseo, esponendo Aristotele nel medesimo luogo. Ricerchiamo dunque prima quel che sia il poema o la poesia in generale; e poi troveremo la definizione di questa spezie, io dico del poema eroico o epico che sia chiamato.

[4] La poesia ha molte spezie: e l'una è l'epopeia, l'altre la tragedia, la comedia e quelle che si cantano con la cetera e con le pive o con le sampogne o con altri instrumenti pastorali; le quali tutte convengono nell'imitare. Laonde possiamo affermare senza dubbio che la poesia altro non sia ch'imitazione. Ma imitano anco la pittura e la scoltura e molte arti oltre queste. Però è necessario che s'aggiunga qualche differenza che la separi dall'altre arti imitatrici. Né già paiono diverse per la diversità delle cose imitate, perché il medesimo argomento della guerra di Troia, o de gli errori di Ulisse, potrà esser preso dal pittore e dal poeta; dunque la differenza dell'azioni rassomigliate non gli fa differenti, ma l'uno nell'imitar adopera i colori, l'altro le parole, o sciolte o più tosto legate con qualche certo numero. È dunque la poesia imitazione fatta in versi. Ma imitazione di che? Dell'azioni umane e divine, dissero gli stoici. Dunque coloro che non cantano l'azioni umane o divine non sono poeti. Non fu dunque poeta Omero quando egli descrisse la battaglia fra le rane e fra' topi; né poeta Virgilio descrivendoci i costumi e le leggi e le guerre dell'api. Dall'altra parte chi descriverà l'azioni divine sarà poeta. Poeta fu dunque Empedocle insegnandoci come l'Amore e la Discordia corrompano questo mondo sensibile e generino l'altro intelligibile; o poeta Platone quando introduce Timeo a narrare come Iddio padre, chiamando gli altri iddii minori, creasse il mondo; e se non fu poeta intieramente perché le manca il verso, almeno è dignissimo di questo nome in quello che appertiene alle cose imitate. Ma se questo è vero, essendo tutte l'azioni della natura amministrate con divina providenza, chi scrive l'azioni della natura par che sia poeta. Né credo già che gli eroici poeti avessero escluso Omero o Empedocle o Parmenide o vero Oppiano o altro sì fatto il quale prendesse il verso in presto da' veri poeti a guisa d'un carro, come dice Plutarco; forse avrebbono scacciato da questo numero poetico Lucrezio, perché egli scaccia quella loro antichissima πρόνοια , laonde la creazione del mondo, per suo aviso, non fu divina azione, ma fatta a caso; e l'azioni somiglianti non sono, per opinione di Aristotele, convenevole soggetto della poesia. Ma per aventura alcuno potrebbe desiderare di sapere la ragione per la quale l'azioni divine e umane solamente siano soggetto della poesia, e l'azioni de gli elementi e l'altre naturali non siano.

[5] Ma se tutte l'azioni possono essere imitate, essendo molte le spezie dell'azioni, molte saranno le spezie de' poemi; e perché in questo genere equivoco, come dice Simplicio ne' Predicamenti, la prima spezie è la contemplazione, la quale è azione dell'intelletto, la contemplazione ancora potrà essere imitata dal poeta; e, come pare ad alcuni, il poema di Dante ha per soggetto la contemplazione, perché quello suo andare all'inferno e al purgatorio, altro non significa che le speculazioni del suo intelletto. Altri vogliono che 'l soggetto sia un sogno, come è quello de' Trionfi del Petrarca, e l'Amorosa visione del Boccaccio; ma coloro che tengono questa opinione il fanno soggetto a maggiore opposizione che non è, secondo Platone, l'imitatore medesimo, perché nel primo grado della verità è l'idea, nel secondo la forma naturale e la cosa istessa, nel terzo la sua imitazione o l'imagine. Ma l'imitatore il quale rassomiglia non una azione vera, ma un sogno, e l'imagine dell' azione essendo più lontana dalla verità, sarebbe per conseguente più imperfetto; né si può concludere altro con la dottrina di Platone, quantunque Sinesio scrivesse che le favole hanno avuto principio da' sogni, e che non sia inconveniente che il sogno sia fine della favola, com'è principio; ma col parer d'Aristotele, dicendo egli che Empedocle è più tosto fisico che poeta, non si può concludere assolutamente ch'egli non sia poeta in modo alcuno; ma s'egli pur è poeta, l'azioni de gli elementi ancora che sono nell'infimo grado saran soggetto della poesia. Dunque poeta è similmente Lucrezio e 'l Pontano e gli altri ch'in versi hanno scritte le cose della natura; e se questa definizione è vera, non si dee diffinir la poesia imitazione dell'azioni umane e divine, perché se ne escluderebbono quelle de gli elementi e l'altre naturali e quelle de gli animali. Laonde sarebbono cacciati da questo numero non solo i poemi d'Empedocle e di Lucrezio e d'Oppiano, ma alcuno di quelli di Omero medesimo. Dall'altra parte a me non pare che sia imitata alcuna azione divina in quanto divina, perché,in quanto tale, per aventura non si può imitare con alcuno di quelli instrumenti che sono proprii della poesia; però che scrisse Aristotele nel primo della Politica che molti fingono le vite de gli iddii, come le figure e l'imagini, a somiglianza di quelle de gli uomini; e Isocrate che la poesia d'Omero e le prime tragedie sono degne di maraviglia, perché, avendo considerato la natura dell'ingegno umano, usarono impropriamente l'una e l'altra forma, altri trattando falsamente le guerre e le battaglie de' semidei, altri supponendo le favole a gli occhi. E Marco Tullio disse che Omero aveva trasportate le cose umane alle divine, «mallem divina ad nos», volendoci dare a divedere ch'egli aveva descritti gli iddii come uomini, e le passioni umane come divine, perché il parlare e 'l consigliarsi sono umane azioni, e l'adirarsi e 'l muoversi a compassione passioni de gli uomini. Atanasio ancora (per aggiongere uno scrittore sacro a tanti profani) nel libro Contra gentili lasciò scritto ch'Iddio adorato da' gentili è quasi un composto di ragionevole e d'irragionevole; però ne la sua imagine si congiunge l'una e l'altra forma, cioè l'umana e quella di bestia, come appresso gli Egizii Cinocefalo e Anubi; e l'azioni ancora furono attribuite a' loro iddii quasi ferine. Laonde se il pittore, quantunque dipinga Giove e Marte, Iside ed Osiri, non è pittore d'altra forma che dell'umana o di quella di fiera, perché la divinità non può da lui essere imitata, così il poeta di queste forme e di queste azioni non è imitatore, ma dell'umane principalmente o propriamente. Tanta è dunque la diversità fra l'imitatore delle cose divine e delle cose umane, quanta fra quelle che sono propriamente idee e queste che chiamiamo imagini e simolacri. Ma nell'idee ancora, come piace ad Aristotele nel primo della Metafisica, e ad Alessandro suo comentatore, è questa differenza di ragionevole e d'irragionevole, o cosa che con questa abbia proporzione; non è dunque maraviglia se i simolacri siano stati formati in questa guisa. Ma tornando ad Omero, dico che s'egli imita gli iddii sotto questa considerazione quasi contraria delle forme, dell'azioni e delle passioni de' mortali, si può affermare che egli sia imitatore dell'azioni umane e de gli iddii in quanto uomini. Parimente nella battaglia fra le rane e i topi sono trasferite ne gli animali le parole e gli affetti e i costumi che sono propri de gli uomini. Laonde io direi più tosto che la poesia altro non fosse che imitazione dell'azioni umane, le quali propriamente sono azioni imitabili; e l'altre non fossero imitate per sé, ma per accidente, o non come parte principale, ma come accessoria; e in questa guisa ancora si possono imitare non solo l'azione delle bestie, come la battaglia del liocorno co 'l leofante, o del cigno con l'aquila, ma le naturali, come le tempeste maritime, le pestilenze, i diluvii, gli incendii e i terremoti e l'altre sì fatte.

[6] Oltre acciò, dovendo, come abbiamo detto, ciascuna definizione risguardare all'ottimo, debbiamo nella definizione della poesia preporci un ottimo fine; ma l'ottimo fine è quello di giovare a gli uomini con l'essempio dell'azioni umane, perché l'essempio delle bestie non può giovare egualmente, e quel delle divine non è nostro proprio; dunque a questo deve esser dirizzata. La poesia è dunque imitazione dell'azioni umane, fatta per ammaestramento della vita. E perché ogni azione si fa con qualche consiglio e qualch'elezione, si tratterà del costume e della sentenzia per conseguente, la quale da' Greci è detta διάνοια; e benché, facendosi questa imitazione, si dia grandissimo diletto, non si può dire che duo sian i fini, l'uno del diletto, l'altro del giovamento, come pare che accennasse Orazio in quel verso:

Aut prodesse volunt aut delectare poetae;

perch' un'arte sola non può aver due fini, l'uno de' quali a l'altro non sia subordinato; ma, o si deve lasciare da parte il giovamento dell'ammonire e del consigliare, come dice Isocrate, e con l'essempio di Omero e de' tragici rivolger tutto lo sforzo dell'orazione al dilettare; o, volendo ritener il giovamento, si dee drizzar il piacere a questo fine; e per aventura il diletto è fine della poesia, e fine ordinato al giovamento. Però si legge nella seconda orazione del medesimo Isocrate che gli antichi poeti lasciarono ammaestramenti della vita per li quali gli uomini divennero migliori; e nel Panatenaico, che la poesia ci divertisce da molti delitti. Però null'altro essercizio più conviene a la giovenezza. Ma 'l giovamento è considerato principalmente da quella arte ch'è quasi architetto di tutte l'altre. Però al politico s'appartiene di considerare quale poesia debba esser proibita, e qual diletto, accioché il piacere, il quale dee esser in vece di quel mele di cui s'unge il vaso quando si dà la medicina a' fanciulli, non facesse effetto di pestifero veleno, o non tenesse occupati gli animi in vana lezione. Non dee dunque il poeta preporsi per fine il piacere, come per aventura credeva Eratostene, ripreso da Strabone, che difende Omero dall'imputazioni, ma 'l giovamento, perché la poesia, come estima il medesimo autore, seguendo l'opinione de gli antichi, è una prima filosofia, la qual sin dalla tenera età ci ammaestra ne' costumi e nelle ragioni della vita. Ma que' che seguirono poi portarono opinione che solo il poeta fosse sapiente. Almeno si dee credere che non ogni piacere sia il fine della poesia, ma quel solamente il quale è congiunto con l'onestà, perché sì come il diletto il quale nasce dal leggere le azioni brutte e disoneste è indignissimo del buon poeta, così il piacere d'imparar molte cose, congiunto con l'onestà, è suo proprio. Laonde per aventura questo fine non è così da sprezzare come parve al Fracastoro nel suo Dialogo della poesia; anzi paragonandolo all'utile, è più nobil fine quel del piacere, percioché egli è desiderato per se stesso, e l'altre cose per lui sono desiderate. Laonde in ciò è tanto simile alla felicità, la quale è il fine dell'uomo civile, che niuna cosa si può trovar più somigliante; oltre acciò è amico della virtù, perché egli fa magnifica la natura de gli uomini, come si legge in Ateneo; onde coloro che amano il piacere, e magnanimi e splendidi sogliono divenire. Ma l'utile non si ricerca per se stesso, ma per altro; per questa cagione è men nobil fine del piacere, e ha minor somiglianza con quello ch'è l'ultimo fine. Se 'l poeta dunque, in quanto poeta, ha questo fine, non errerà lontano da quel segno al quale egli deve dirizzare tutti i suoi pensieri, come arciero le saette; ma in quanto è uomo civile e parte della città, o almeno in quanto la sua arte è sottordinata a quella ch'è regina delle altre, si propone il giovamento, il quale è onesto più tosto che utile. De' due fini, dunque, i quali si prepone il poeta, l'uno è proprio dell'arte sua, l'altro dell'arte superiore; ma riguardando in quel che è suo proprio, dee guardarsi di non traboccare nel contrario, perché gli onesti piaceri sono contrari a' disonesti. Laonde non meritano lode alcuna coloro ch'hanno descritti gli abbracciamenti amorosi in quella guisa che l'Ariosto descrisse quel di Ruggiero con Alcina, o di Ricciardetto con Fiordispina; e peraventura il Trissino ancora avrebbe potuto tacere molte cose quando ci pone quasi innanzi agli occhi l'amoroso diletto che prese l'imperator Giustiniano della moglie; ma egli volle imitare Omero, il quale finge che Giunone e Giove in cima del monte Ida fossero coperti da una nuvola: invenzione leggiadramente trasportata dal Tasso ne l' Amadigi, quand'egli descrive l'abbracciamento di Mirinda e di Alidoro, quasi volendoci accennare che l'altre cose deono essere ricoperte sotto le tenebre del silenzio, oltre tutte l'altre. Ma Vergilio ne gli amori d'Enea con Didone fu modestissimo, e accenna con brevi parole quel che seguisse doppo la pioggia mandata da Giunone:

Speluncam Dido dux et troianus eandem
deveniunt etc.

[7] È dunque, come abbiamo detto, la poesia imitazione dell'azioni umane affine di giovar dilettando, e il poeta uno imitator sì fatto il quale con l'arte sua potrebbe dilettare altrimente, come hanno dilettato molti senza giovamento; ma non facendolo, è buon poeta, e per aventura è in ciò simile all'oratore, il quale si considera, come parve ad Aristotele, non solamente dalla scienza, ma dalla volontà, a differenza del dialettico che si stima non per l'animo, ma per la facoltà. E quinci aviene che alcuna volta nelle diffinizioni non si diffinisce la cosa ignuda, ma la cosa ben disposta e perfetta, come dice il medesimo Aristotele nella Topica; nel qual genere di definizione è quella dell'oratore: percioché l'oratore è colui che può conoscere tutto ciò che è degno di fede in qualunque cosa, e non ne tralascia alcuna, è buono oratore senza fallo. Dalle quali parole peraventura fu mosso prima Strabone a dire che la virtù del poeta sia congiunta con quella dell'uomo, e che non possa esser buon poeta chi non è uomo da bene; e poi Quintiliano a definir l'oratore uomo da bene e ammaestrato nel parlar, non pensando le parole d'Aristotele, nelle quali non lo chiama uomo da bene, ma buon oratore. Ma non so se questa definizione di Quintiliano meriti de esser ripresa dal Cavalcante, perciò che l'oratore ben disposto e perfetto non poteva per aventura esser altrimente definito, quantunque la bontà non sia parte del suo artificio, ma perfezione della natura e dell'abito; ma s'ella è pur sottoposta a qualche reprensione, a niuna altra è più soggetta che a quella datale da Alessandro Afrodiseo, il quale dice che nelle definizioni sì fatte non si diffinisce il tutto, ma la parte. E forse non volle Quintiliano che la definizione dell'oratore convenisse a tutti gli oratori, ma al perfetto solamente. Così ancora nella definizione del poeta, chi dirà che 'l poeta sia uomo da bene e buono imitatore dell'azioni e de' costumi de gli uomini a fine de giovar co 'l diletto, non darà per aventura definizione la quale convenga a tutti i poeti; definirà nondimeno l'ottimo ed eccellentissimo poeta. Dunque se il poeta è imitatore dell'azioni e de' costumi umani, la poesia sarà imitazione dell'istesse cose; e s'egli è buono imitatore, la poesia sarà una imitazione sì fatta. Ma alcuni hanno voluto che il poeta non riguardi tanto alla bontà, quanto alle bellezze delle cose; fra' quali è il Navagerio, appresso il Fracastoro, là dove prova che il fine del poeta sia di riguardare nell'idea del bello, quasi volendo contradire all'opinione che mostrò Aristotele d'aver ne' libri morali, ne' quali dice che l'idea non giova cosa alcuna nell'operazione. Ma qualunque fosse il giudizio d'Aristotele in quel luogo, e dichiarato dal greco espositore, a me non può dispiacere in alcun modo che il poeta rimiri nell'idea della bellezza; ma se più sono l'idee nelle quali suol drizzar gli occhi l'oratore, com'è piaciuto ad Ermogene, non so perché il poeta debba considerare solamente quella della bellezza, e non l'altre sei similmente. Ma per aventura parve al Navagerio che nella forma della bellezza fossero comprese tutte l'altre, o che il bello fosse in tutte: percioché nella chiarezza, nella grandezza, nella velocità, nell'affetto, nella gravità e nella verità è il bello; e se non m'inganno, il Navagero desiderava che la chiarezza non fosse chiara solamente, ma chiara e bella similmente, e così tutte l'altre forme. Ma perché questa parte appertiene particolarmente all'elocuzione, sarà da me considerata quando io discorrerò dell'artificio del parlare.

[8] Ora non mi pare che debba essere disprezzata l'opinione di Massimo Tirio, il quale volle che la filosofia e la poesia fossero una cosa doppia di nome, ma di semplice sostanza, come è la luce per rispetto del sole; e però definisce la poesia una filosofia antica di tempo, di suono numerosa, d'argomenti favolosa; ma la filosofia è, com'a lui pare, una poesia giovene d'età, e più sciolta di numeri, e nelle ragioni più aperta. Ma io estimo che 'l modo di considerare le cose faccia l'una da l'altra differente, percioché la poesia le considera in quanto belle, e la filosofia in quanto buone, come accenna il medesimo autore in un altro luogo, dicendo ch'Omero ebbe da far due cose, l'una appertenente alla filosofia, l'altra alla poesia; e in quella ebbe risguardo alla virtù, in questa all'effigie della favola. È dunque la poesia investigatrice e quasi vagheggiatrice della bellezza, e in duo modi cerca di mostrarla e di porcela davanti a gli occhi: l'uno è la narrazione, l'altro la rappresentazione; e l'uno e l'altro è contenuto sotto la imitazione, come sotto suo genere, ma alcuna volta si denomina da una particolar maniera d'imitare. Coloro adunque i quali hanno definito la poesia narrazione d'azione umana memorevole e possibile ad avenire, non hanno data definizione che convenga a tutte le specie della poesia, ma al poema epico solamente, o eroico che vogliam dirlo, e hanno esclusa la tragedia e la comedia, se pur in questo nome di narrazione non è alcuna doppiezza di significato, la qual potea da loro esser meglio distinta e dichiarata con l'autorità d'Aristotele medesimo, com'io feci alcuna volta, e poi gli altri han fatto più perfettamente. Diremo adunque che il narrare sia proprio del poema epico, perché con questo nome sono chiamati coloro che scrivono le cose fatte da gli eroi, per testimonio di Cicerone e d'Eustazio comentatore d'Omero. Un'altra differenza ancora, oltre il modo, è tra l'epopeia e la tragedia, e questa nasce dalla diversità delle cose con le quali imita, o da gl'instrumenti, perché la tragedia, oltre il verso, adopera per purgar gli animi il ritmo e l'armonia. In due condizioni dunque sono differente, nelle cose con le quali s'imita e nel modo dell'imitare; in una concorde, nelle cose imitate, perché la tragedia ancora, come dice Aristotele ne' Problemi, simula l'azioni de gli eroi. Ma dalla comedia il poema eroico in tutto è differente, perché è diverso ancora nelle cose e nelle persone imitate. Ma lasciamo la tragedia e la comedia da parte, e una specie di poesia narrativa la quale, in comparazione della comedia, è come l'Iliade paragonata alla tragedia, perché in lei s'imitano le cose brutte, come fece Omero nel Margite, ad imitazione del quale fu per aventura da nostri poeti formato il Margut; perché di queste e dell'altre specie non è mia principale intenzione di ragionare.

[9] Io dico che il poema eroico è una imitazione di azione illustre, grande e perfetta, fatta narrando con altissimo verso, affine di giovar dilettando, cioè affine che 'l diletto sia cagione ch'altri, leggendo più volentieri, non escluda il giovamento. Ma 'l giovar dilettando è per aventura di tutte le poesie, perché giova dilettando la tragedia, e giova dilettando la comedia. Ma il fine di ciascuna dovrebbe esser proprio, perché sì come altro fine ha l'arte de' freni, altro quella del far l'alabarde (tutto che l'una e l'altra sia subordinata all'arte della guerra e dirizzata a quel fine che ella si prepone), così altro fine dovrebbe aver la tragedia, altro la comedia, altro la epopeia, o altra operazione, perché la forma di ciascuna cosa si distingue per la propria operazione. Ma l'operazione della tragedia è di purgar gli animi co 'l terrore e con la compassione, e quella della comedia di muovere riso delle cose brutte (come dechiara il Maggio in quel suo libro De' ridicoli ch'egli compose separatamente); e da questa operazione della comedia nasce il giovamento, perché noi, ridendoci della bruttezza che veggiamo ne gli altri, ci vergognamo di far cose che siano brutte egualmente. Dee dunque ancora l'epopeia aver il suo proprio diletto con la sua propria operazione; e questa per aventura e il mover maraviglia, la quale non pare propriissima della epopeia, perché muove maraviglia la tragedia, come si raccoglie da quelle parole d'Isocrate ch'io addussi pur dianzi: «Però sono degni d'ammirazione la poesia d'Omero e coloro che prima ritrovarono le tragedie». Ma di ciò si potrebbe nondimeno dubitare, perché se la maraviglia è delle cose nuove, poteva parer maravigliosa la poesia d'Omero, ma non quelle tragedie le quali dopo tanti anni trattarono delle medesime cose già divolgate per la Grecia, e fatte familiari a ciascuno; se forse non le fece parer maravigliose un nuovo moda di trattarle, il quale, come invecchiato con l'uso, non parve poi maraviglioso ne' tragici che seguirono. Da molti detti ancora d'Aristotele nella Poetica si può raccogliere che le tragedie debbano muover maraviglia, e particolarmente da quelli: έπεὶ δὲ οὐ μόνον τελεὶας ἐστὶ πράξως ἡ μίμησις , ἀλλὰ καὶ φοβερῶν καὶ ἐλεεινῶν, ταῦτα δὲ γίωεται μάλιστα τοιαῦτα, καὶ μᾶλλον ὅταν γέωηεται παρὰ τὴν δόξαν δι᾽ἄλληλα τὸ γὰρ ζαθμαστὸν οὕτως ἕξει μᾶλλον ἤ εἰ ἀπὸ τοῦ αὐτομὰτου καὶ τῆς τύχης etc.; anzi i casi maravigliosi sono cagione che più agevolmente s'induca l'orribile e 'l miserabile. Muove ancora maraviglia la comedia, non bastando la bruttezza sola senza la maraviglia a far ch'altri rida delle cose che ci paiono brutte; laonde, cessata la maraviglia o la novità, cessa il riso. Nondimeno a niuna altra specie di poesia tanto conviene il muover maraviglia quanto alla epopeia; e ce l'insegna Aristotele e Omero istesso nella fuga d'Ettore: perché quella maraviglia che ci rende quasi attoniti di veder ch'un uomo solo con le minaccie e co' cenni sbigottisca tutto l'essercito, non converrebbe alla tragedia; tuttavolta rende mirabile il poema eroico; né converrebbono nella scena la morte d'Ettore o l'altre, le quali, come racconta Filostrato nella Vita di Apollonio, furono proibite da Eschilo, chiamato padre della tragedia, perché molto mitigò la sua crudeltà. Non sarebbe ancora convenevole nella scena la trasmutazione di Cadmo in serpente, la quale convenevolmente fu narrata da Ovidio; non quella di Aretusa; non quella delle ninfe converse in navi, la quale si legge appresso Virgilio; non quella di Proteo in tante sembianze descritta nella Georgica, e prima nell'Odissea; non quella nel cerchio de' ladroni, della quale Dante si vanta con queste parole:

Taccia di Cadmo e d'Aretusa Ovidio,
ché se quello in serpente e quella in fonte
converte poetando, io non l'invidio;

non quella di Fileno in fonte appresso il Boccaccio, o del mago in tante forme appresso il Boiardo, o d'Astolfo in mirto appresso l'Ariosto; non tante altre che si leggono con maraviglia in tanti altri poeti moderni e antichi; non tante maraviglie le quali nel teatro sarebbono per aventura sconvenevoli, e nell'epopeia sono lette volentieri, sì perché sono sue proprie, sì perché il lettore consente a molte cose alle quali nega il consentimento colui che risguarda. Laonde le machine rade volte si lodano nella tragedia; ma nell'epopeia spesso scendono dal cielo gli iddii e gli angeli, e s'interpongono nell'operazioni de gli uomini dando consiglio e aiuto, come fanno Apollo e Minerva nell'Iliade e nell'Odissea d'Omero e nell'Ercole del Giraldi, e Venere nell'Eneide di Virgilio e nel Bolognetto; e tanti altri iddii in questi e in altri poemi. In questo medesimo modo scende l'angel Michele nel Furioso, e l'angel Palladio e l'angel Nettunio nell'Italia liberata.Laonde tutti questi poemi paiono quasi fatti e condotti a fine dalla providenza, alla quale a pena si lascia luogo nella tragedia, perché l'averebbe ancora in lei l'indegnazione, a cui Aristotele non lo concedeva: però non deveva il Giraldo e gli altri introdurre Nemesi nella scena. Oltre acciò, gli altri poemi muovono maraviglia per muover riso o compassione o altro affetto. Ma 'l poeta epico non ha altro fine, e all'incontro muove compassione per muover maraviglia; però la muove molto maggiore e più spesso. Diremo dunque che 'l poema eroico sia imitazione d'azione illustre, grande e perfetta, fatta narrando con altissimo verso, affine di muover gli animi con la maraviglia e di giovare in questa guisa.

[10] Ha il poema epico le sue parti, come ogn'altra cosa che sia tutta; e quattro sono senza dubbio quelle che chiamano di qualità: la favola, la quale è definita da Aristotele imitazione dell'azione, e per lei massimamente di coloro che fanno l'azione; questa è da lui chiamata principio ed anima del poema; la seconda parte è il costume delle persone introdotte nella favola; la terza la sentenza; l'ultima è l'elocuzione. Ma quelle della quantità è maggiore dubbio quante elle siano; ma per aventura si possono dividere in altre quattro: perciò che nella prima parte, la qual corrisponde al prologo della tragedia, il poeta propone e narra e dechiara lo stato delle cose e dà alcuna notizia delle passate, come fa Omero in tutti i suoi poemi e particolarmente nell'Odissea; nella seconda si turbano le cose; nella terza cominciano a rivolgersi; nella quarta hanno il loro fine e quasi la perfezione loro. E volendo nominarle con proprio nome, si possono chiamare l'introduzione, la perturbazione, il rivolgimento e il fine; fra le quali io non ho numerato l'episodio, benché questa parte sia propria al tragico e all'epico, anzi più convenevole all'epico, percioché nel poema eroico non ha alcun luogo determinato, come deono avere le parti della quantità. Si potrebbono ancora le parti della quantità dividere in tre solamente, e chiamarle principio, mezzo e fine, come le chiama Aristotele nella definizione del tutto; ma questa divisione è più conveniente a' poemi che non hanno la favola inviluppata, ma semplice. Le parti poi della favola sono tre: il rivolgimento, che peripezia prima dissero i Greci, la quale è una mutazione dalla buona nella rea fortuna, o dalla rea nella buona; ma nel poema eroico è doppia, perché alcuni passano dalla prospera all'aversa fortuna, e altri da questa a quella; e deve esser sempre in meglio, perché il fine più felice è quello ch'è più conforme a questo poema. Laonde non merita molta lode il Pulce, il quale finì con la morte di Orlando e d'altri paladini. L'altra parte de la favola è l'agnizione, cioè un passar dall'ignoranza alla notizia di persone prima conosciute e poi dimenticate, o sia semplice, come quello d'Ulisse, o scambievole come tra Ifigenia e Oreste; ma questo passaggio dee esser cagione di felicità o di miseria. E la passione è la terza, cioè la perturbazione dolorosa e piena d'affanni, come sono le morti e le ferite e i lamenti e i ramarichi che possono muover a pietà; e questa parte si può considerare nell'ultimo dell'Iliade.

[11] Ora, conosciuta la natura di questo nobilissimo poema e delle sue parti, potremo considerare con quale artificio possono esser composti, e giudicaremo la definizione dell'idea. Ma averemo qualche risguardo ancora alla materia, perché le forme artificiali si considerano con la materia; e non voglio chiamar materia della poesia le lettere, le sillabe, le parole, come chiamò lo Scaligero, perché queste sono peraventura materie dell'orazione e del verso; ma la materia della poesia mi pare che si possa convenevolmente dire il soggetto ch'ella prende a trattare, avenga che, come dice Porfirio, in tutte le cose un non so che suol ritrovarsi che risponde per proporzione alla materia e alla forma, e questo soggetto non è propriamente fine, come parve allo Scaligero, perché la materia non è mai fine, né la causa materiale e la finale sono l'istesse, ma la formale e la finale sogliono spesso esser insieme e, come dicono i Latini, coincidere. Il fine, dunque, è la forma data dall'artificio del poeta, il quale, aggiungendo e scemando e variando, dispone la materia e dà un'altra imagine e quasi un'altra faccia all'azione e alle cose. Ora cominciarei a trattar de l'arte sua quasi con un nuovo principio, se non mi si facesse all'incontro qualche opposizione fatta ad Aristotele dal Castelvetro; la quale è, che egli non doveva trattare dell'arte poetica se prima non trattava dell'arte istorica, perché sì come prima è l'istoria della poesia, e il vero del verisimile, così primieramente si dovea dar l'arte di scrivere il vero, poi quella d'adornare il verisimile; la quale dopo la prima non sarebbe forse stata necessaria. Questa opinione a me pare fondata sopra due fondamenti, de' quali l'uno è falso in tutto, cioè che l'istoria sia prima della poesia, avenga che i poeti siano antichissimi oltre tutti gli altri scrittori, e gl'istorici cominciarono a scrivere molte centinaia d'anni dopo loro; laonde non si dee stimar prima l'arte di quella cosa la quale nacque dopoi. Oltre a ciò, se nell'arte de gl'istorici ha alcuna parte il numero e gli ornamenti e le figure del parlare, chi non sa che queste cose furono quasi prestate dal poeta all'oratore? Però né l'oratore e né gli altri che scrivono in prosa hanno alcuna cosa che non sia quasi usurpazione. Ma s'egli o altri replicasse che l'istoria è prima per natura, quantunque sia seconda per tempo, sì come quella che scrive del vero, il quale è prima della sua somiglianza, io direi che il poeta non considera il verisimile se non come universale; però si dovea dare prima l'arte di scrivere questo universale; né fa mestieri di considerare se l'universale sia innanzi a tutte le cose o sia dopo, come disse alcuna volta Aristotele, basta che sia più noto. Non ci diede Aristotele ammaestramenti di scrivere istorie, stimando forse che ella fosse di più semplice considerazione; e s'ella appartiene all'oratore, bastavano li precetti rettorici; e s'ha pur alcune cose di proprio, come accenna Demetrio Falereo (il quale assegna altro periodo all'istorico, altro all'oratore), non erano forse tante che meritassero un'arte divisa e separata dall'altre. Però con artificio medesimo si può trattare il vero ed il verisimile; anzi dicendo Aristotele che la poesia considera più l'universale, c'insegna per conseguente l'officio dell'altra, ch'è di narrare il particolare; ma questo non è l'imitare, perché l'imitazione non è congiunta con la verità per sua natura, ma con la verisimilitudine. Non deono dunque imitare gl'istorici; e per aventura non sono prive d'imitazione l'orazioni, perché l'istorico il più de le volte non racconta quel che fu detto nel senato o ne gli esserciti, ma quel che è verisimile che fosse detto ; e, fra l'orazioni, più convenienti all'istorico sono l'oblique che le rette, come parve a Trogo Pompeio. Molti raggionamenti ancora si leggono in Erodoto, in Senofonte, scrittori delle cose greche, e ne gli altri che poi seguirono, ne' quali si vede un'imitazione quasi poetica; laonde pare che l'istorico, non contento de' suoi termini, trapassi ne' confini della poesia. Ma di queste cose, se mi sarà conceduto, trattarò in luogo proprio di materie così fatte, essaminando e quasi ponendo in bilancia da l'una parte il giudizio di Polibio, che scrisse istoria e insieme insegnò com'ella dovesse essere scritta, e di Dionigi Allicarnasseo, che fece il giudizio di Tucidide, dall'altra l'autorità di questo medesimo autore e de gli altri due prima nominati, e di Livio e di Salustio, che fra' Latini sono di maggiore stima e, se non m'inganno, imitarono li Greci. Ma questa imitazione non è quella di cui parliamo, né quella di cui intese il Fracastoro, la quale non è conveniente all'istorico; laonde tra la diversità delli scrittori e dell'opinioni non potrà parer soverchio scrivere di questo artificio. Ma ora il mio proponimento è scrivere delle cose incominciate.