LIBRO QUARTO
[1] Dovendo io trattare dell’elocuzione, si tratterà per conseguente delle forme del parlare, perché, essendo egli pieghevole a guisa di cera, prende molte forme e quasi molti caratteri, ciascuno de’ quali è diverso da gli altri e ha la sua propria eccellenza e la sua propria laude. Ma intorno a ciò sono state varie l’opinioni, come sa V. S. illustrissima, a cui non è occulta alcuna cosa ch'appartenga al bene intendere o al bene scrivere. Laonde non è chi meglio sappia giudicar le cose scritte, o trovarle prima che sieno scritte, se pur ve n’è alcuna ch’in sì lungo corso de secoli e d’anni sin ora non sia ritrovata. Ma se ’l rinovar l’opinioni, o le ragioni con le quali si posson provare e confermare, sarà quasi un nuovo ritrovamento, io e gli altri possiamo sperar qualche nuova lode nell’invenzione, la qual più volentieri riceverei da voi, mio Signore, come da quello ch'è lodatissimo da ciascuno. Ma in questa materia poche sono le cose che non sieno scritte e confermate con buone ragioni e con grande autorità, e grande è il numero dell’opinioni e degli autori che n’hanno ragionato. Laonde io non avrei tanta fatica in raccor molte cose da molte parti quanto in elegger le migliori e de’ miglior Greci e Latini.
[2] Ma prima ch’io venga a trattar di questa ultima parte di qualità, non estimo inconveniente che si tratti della proposizione dell’opera e dell’invocazione, la quale il poeta dee fare, poi ch’avrà ritrovata e disposta la favola, avanti ch’egli cominci a spiegarla, perciò che non si può proporre quello che non s’è ancora ritrovato e ordinato. E come che l’invocare l’aiuto divino in tutti i luoghi e in tutti i tempi sia necessario, nondimeno gli scrittori sogliono farlo assai spesso nel principio dell’opere loro, alcuna volta nel mezzo o nel fine, e sempre che s'avengono a cosa che paia ricercarlo. Dico gli scrittori perché non invocano solamente i poeti ma i filosofi e gli oratori, com’appresso Platone Timeo, il quale n’ammonisce che si debba invocare in tutte le cose, e grandi e picciole. E nell’Eutidemo s’invocano le Muse e la Memoria, della quale elle furono generate ; Lucrezio invoca Venere, dea ch’è sovra la generazione ; Demostene, nella sua orazione Della corona, tutti gli dei e tutte le dee. E non è vero quel che n’insegna il Castelvetro sotto la persona del Graminaticuccio, ch’a’ poeti soli si convenga d'invocare, perché soli i poeti sian mossi da divino furore, avegna che la retorica ancora abbia la sua divinità, come prova Aristide nell’orazione nella quale egli la difende dall’opposizioni fattele da Platone;e la sua invenzione è non altrimenti attribuita a Mercurio che quella della poesia ad Apolline. Molto meno è vero che non si convenga l’invocare nelle cose picciole, perché niuna cosa è così picciola che non abbia bisogno dell’aiuto divino ; e i piccioli poemi sogliono spesso apportar seco grandissima difficultà. Però nelle brevi poesie invocarono Museo e Teocrito ; e non si disdice a’ lirici l’invocare, com’estimò il Grammaticuccio ; e invocò Pindaro, principe de’ poeti lirici, nell'Agesidamo (ch’è la decima oda dell'Olimpiche) la Musa e la Verità figliuola di Giove, nell'Ergotele (ch’è la duodecima) supplicò alla Fortuna, nel Ierone (ch’è la prima ode fra le Pitie) invocò Apollline e le Muse. Taccio del Psaumide, perché quella è più tosto consecrazione dell’inno a Giove. Orazio similmente nella prima oda del primo libro invocò Polinnia. Dante invocò Amore, che si mostrava negli occhi della sua donna, e in un’altra canzone gli chiese non solamente la voglia di piangere, ma la scienza di saper acconciamente lagrimare ; in quella la qual comincia
Voi ch’intendendo il terzo ciel movete
volse gl’intelletti divini per auditori. Il Petrarca, che molte volte ragionò d’Amore, una volta sola, ch’io mi ricordo, il chiamò in aiuto, dicendo :
Deh porgi mano a l’affannato ingegno.
Il Bembo chiamò le Muse in que’ leggiadrissimi versi :
Dive, per cui s’apre Elicona e serra,....................................date a lo stil, che nacque de’ miei danni,viver quando io sarò spento e sotterra.
Monsignor della Casa invocò similmente le Muse nel primo sonetto :
Oh se cura di me, figlie di Giove,talor vi punge al primo suon di squilla,date al mio stil costei seguir volando.
S’inganna parimente il Grammaticuccio quando egli dice che l’invocazione è argomento di superbia e di presunzione. Opposizione somigliante fece l’antico sofista Protagora ad Omero, dicendo ch’egli chiama la Musa con un modo imperioso, quasi egli voglia comandarle. Ma Aristotele nella sua Poetica, difendendo i poeti, rispose ancora a questa opposizione, mostrando che ciò avveniva più tosto per difetto di colui che recitava i versi, il quale poteva pronunciarli in altro modo ; e senza fallo le medesime parole si possono pronunciare imperiosamente e supplichevolmente ; laonde il difetto era più tosto nell’arte dell’istrione. Altri ha voluto che l’invocare sia segno di modestia, ma io direi più tosto che fosse argomento di pietà e di religione, sì veramente che non sia invocata deità che ’l poeta riputi falsa, o non con questa intenzione ; perché alcuni ebbero opinione che Dante invocasse il buono Apollo, e il Petrarca il chiamasse immortale a differenza degli idoli o pur de’ demoni, che sono mortali, come disse Plutarco in quella operetta nella quale egli disputò della cagione per la quale gli oracoli son mancati. Ma perdonisi questa licenza a' poeti, e mutisi il nome, purché la buona intenzione non sia condennata. Più sicuramente Dante nella sua Comedia invocò l’ingegno e la mente :
O Muse, o alto ingegno, or m’aiutate ;o niente che scrivesti ciò ch’io vidi,
come prima Orfeo aveva invocato l’intelletto. Sarà dunque lecito al poeta cristiano invocar la mente e l’intelligenze, imperò che le Muse non furono credute altro che intelligenze.
[3] Ma nel modo del proporre e dell’invocare è tenuto diverso ordine : Omero, Esiodo e gli altri Greci fanno insieme l’invocazione e la proposizione, cominciando dall’invocare ; Virgilio e gli altri Latini prima sogliono proporre, poi invocare : alcuni rivolgono il parlare a’ principi, come l’istesso autore ad Augusto ne’ libri dell’agricultura, e Ovidio ne’ suoi Fasti a Germanico ; il quale uso fu seguito da’ moderni. Orazio diede per ammaestramento, nella proposizione e nell’invocazione, che non si cominciasse da parole troppo gonfie, biasimando Antimaco il quale die principio al suo poema con questo verso :
Fortunam Priami cantabo et nobile bellum,
lodando all’incontra Omero il quale cominciò l’Odissea con questo altro :
Dic mihi, Musa, virum captae post tempora Troiae;
quantunque la comparazione si potesse fare tra l’Iliade e ’l poema biasimato, nel quale era cantata la fortuna di Priamo. Ma la proposizione dell’Iliade, o l’invocazione, può esser considerata da chi meglio suol giudicare lo stil de’ poeti greci : Pindaro peraventura, che portò diversa opinione, estimando che ’l principio de' poemi dovesse essere grande, magnifico e luminoso e simile a’ frontispici de’ palagi, come scrisse in que’ versi dell’Agesia :
Χρυσέας ὑποστάσαντες εύ-τειχεῖ προζύρῳ ζαλἀμουκίοωας ὡς ὅτε ζαητὸν μέγαρονπάξομεν˙ ἀρχομένου δʼἔργου πρόσωπον etc.
Ma forse Pindaro diede essempio a’ lirici, Orazio ammaestrò gli epici con l’autorità d’Omero; e, per mio aviso, non biasimò Orazio tutti i principii alti e illustri, ma quelli solamente a’ quali non corrispondono l’altre parti ; peroché non si conviene, com’egli dice, dare ex fulgore fumum, sed ex fumo lucem ; ma il dare ex luce lucem non sarebbe biasimato da Orazio medesimo. Diremo adunque che o si dà luce da luce, o luce da fumo, o fumo da luce, o fumo da fumo ; e con parole proprie diremo o che sono princìpi chiari e l’altre cose chiare, o dopo gli oscuri princìpi seguitano più chiare narrazioni, o da chiari princìpi nascono l’oscure, o da gli oscuri similmente l’oscure ; e parimente le basse dopo i bassi, e le basse dopo gli alti, e l’alte appresso gli alti, e l’alte che seguono i bassi cominciamenti. Di queste quattro coppie che ' Latini chiamano combinazioni, due per mio parere sono degne di biasimo, l'altre di lode : merita biasimo il dar le cose oscure dopo boscure, e l’oscure dopo le chiare. L’altre due sono laudevoli molto ; e bistesso giudizio si può fare dell'altre quattro coppie, se l'alte cose e le basse insieme s’accoppieranno. Virgilio accoppiò l’alto stile e l’illustre nella proposizione :
Arma virumque cano etc.,
e simili sono i seguenti versi ; e sempre avrebbe continuato nella medesima altezza e nel medesimo splendore s’alcuna volta non avesse voluto variar le forme del parlare. Laonde io non posso riprovare in modo alcuno il giudicio di Tucca e di Varo, seguito assai arditamente da Lucano in que’ primi versi della sua proposizione :
Bella per Aemathios plusquam civilia campos,iusque datum sceleri canimus ;
e più arditamente da Stazio in quelli altri :
Fraternas acies altemaque regna profanisdecertata odiis sontesque evolvere Thebas,Pierius menti calor incidit ;
o pur in quelli :
Magnanimum Aeacidem formidatamque Tonantiprogeniem canimus ;
e con grande animo ancora da Silio Italico, quando egli disse :
Ordior arma quibus caelo se gloria tollitAeneadum ;
né con minor da Claudiano in quelli :
Inferni raptoris equos afflataque currusidera Taenario caligantesque profundaeIunonis thalamos audaci prodere cantumens concussa iubet.
Non posso adunque biasimare la proposizione alta, chiara e illustre, ove il poeta eroico, che da Orazio è detto promissi carminis auctor, non manchi delle sue promesse ; anzi, se la proposizione è quasi un proemio del poeta, il muover espettazione e il fare attento il lettore è molto convenevole, per mio giudizio, nella proposizione ; la qual peraventura si fa alcuna volta nel mezzo de’ poemi, come il proemio nell’orazione ; ma l’invocazione senza fallo suol farsi molte, e n’abbiamo essempio da Omero e da Virgilio, il quale dopo la prima invocazione invocò di nuovo :
Nunc age, qui reges, Erato, quae tempora rerum,quis Latio antiquo fuerit status, advena classemcum primum Ausoniis exercitus appulit oris,expediam.. . .tu, diva, mone ; dicam horrida bella,dicam acies actosque animis in funera regesTyrrhenamque manum totamque sub arma coactamHesperiam. Maior rerum mihi nascitur ordo,maius opus moveo ;
ne’ quai versi dopo l’invocazione segue la proposizione quasi congiunta. Invoca negli altri libri ancora :
Pandite nunc Helicona, deae, cantusque movete;Vos, o Calliope, precor, aspirate canenti.
Ora consideriamo quel ch’appartiene all’elocuzione, nella quale si dimanda l'aiuto divino per favellare altamente, non meno che per la memoria delle cose già sepolte nell’oblivione. Io dico che l’elocuzione altro non è che uno accoppiamento di parole, la qual si risolve ne’ nomi e ne’ verbi e nell’altre parti da le quali è composta; e queste nelle sillabe ; e le sillabe nelle lettere, che sono chiamate elementi con l’istesso nome co ’l quale si chiamano i quattro principi delle cose di cui è composto l’universo. E quantunque le parole siano ad placitum, come vuole Aristotele ne’ libri Dell’interpretazione , e Alessandro nelle Questioni, nondimeno si possono dire in qualche modo per natura, s’esse son composte in quel modo che c'insegna Ammonio nel medesimo libro, come diremo appresso più lungamente. Ora darò la deffinizione delle parti dell’elocuzione, le quali sono : l’elemento, la sillaba, la congiunzione, il nome, il verbo, l’articolo, il caso, l'orazione.
[4] Elemento è una voce indivisibile ; ma non ogni voce indivisibile è elemento, perché quelle delle bestie non si posson chiamar con questo nome, ma quelle solamente le quali possono esser intese ; ma di queste alcune sono vocali, altre semivocali, altre mute. Vocali son quelle le quali senza percossa hanno voce che può esser udita, come a e o ; semivocale è quella la quale con la percossa ha voce che può udirsi, come s e r ; muta quella che con la percossa non ha voce, ma diviene sì fatta in compagnia dell’altre che l’hanno, in guisa che ella può esser udita, come g e d. E queste son differenti fra loro per le figure della bocca, per luogo, per grossezza e sottigliezza, per longhezza e brevità, e, oltre a ciò, per acume e gravità e per quello accento ch’è mezzo tra l’uno e l’altra.
[5] Sillaba è una voce che non significa cosa alcuna, composta dalla lettera muta e dalla vocale, come gra.
[6] La congiunzione è una voce che non significa alcuna cosa, e non impedisce né fa una voce significativa di molte voci, e può aver luogo nel mezzo e negli estremi, se più non le si convenisce il principio ; o ver diremo che la congiunzione sia una voce che non significhi, ma sia atta a fare una voce di più voci, che significhino insieme, cioè un parlare di molte parole ; perché gli espositori non intendeno de’ nomi congiunti, ma delle parti dell’orazione legate insieme, come s’altri dicesse :
Sotto essa giovanetti trionfaroScipione e Pompeo.
[7] L’articolo è una voce che non significa, la qual distingue i generi e i numeri, o casi, di quelle che hanno significazione ; e per sua natura nella nostra lingua si mette nel principio solamente, benché in quella de’ Greci alcuni dimostrassero il principio, i quali sono chiamati προτακτικοί, altri dechiarassero il fine, i quali dagli istessi furono detti ὑποτακτικοί; altri nell’istessa lingua separano una cosa dall’altre ; e in luogo di questi i Latini posero ille e iste, come dechiara il Vittorio nel suo comento sovra la Poetica d’Aristotele. Nome * * *
Verbo è una voce composta, la qual significa insieme co ’l tempo, di cui niuna parte separata significa per sé, come abbiamo detto de’ nomi ; perciò che dicendosi uomo o bianco, non è significato il quando ; ma chi dice camina o camino, significa insieme quando : l’uno il tempo presente, l’altro il passato.
[8] Il caso è quel che dimostra ne’ verbi e ne’ nomi la mutazione de’ numeri e delle persone, perciò ch’egli si trova negli uni e negli altri : ne’ nomi diremo di questo e a questo, o vero l’uomo e gli uomini ; ne' verbi dicendosi camina e caminò, perciò che l’uno e l’altro cade da camino, ch’è prima persona del presente.
[9] L’orazione è una voce, o vero un parlar composto, il qual significa ; e le sue parti significano ancora per sé qualche cosa. Ma l’orazione si dice una in due modi : o quella che significa una sol cosa, come la definizione dell’uomo l’uomo è animal ragionevole, o quella la qual, congiungendo molte cose insieme, ne fa una di molte, come l'Iliade.
[10] Ma le specie de’ nomi son la semplice e la doppia, che si può dir composta ; e ogni nome è o proprio, o straniero, o trasportato, o usato per ornamento, o fatto, o allungato, o accorciato, o mutato. Proprio è quello ch’usa ciascuna gente e lingua ; straniero è quello ch’usa la diversa ; per che straniero e proprio può essere il medesimo, ma non a’ medesimi, avenga che retaggio a’ Francesi sia proprio, a noi è strano. Traslazione è trasportamento di nome proprio o da genere a spezie, o da spezie a genere, o da spezie a spezie, o secondo la proporzione. Dico da genere a spezie come in que’ versi di Dante, quando egli, parlando de’ giganti, disse :
Certo Natura, quando lasciò l’artedi sì fatti animali, assai fe' bene.
Da spezie a genere dicendo mille volte in vece di molte, perché mille son molte, come fece il Petrarca :
Mille fiate, o dolce mia guerrera.
Della spezie alla spezie quando si pone l’una per l’altra, come fece Dante, il qual chiamò volo la navigazione, la quale è un’altra spezie di movimento :
de’ remi facemmo ale al folle volo.
Per proporzione si farà la metafora se chiamaremo la morte occaso della vita, o l’occaso morte del giorno, ad imitazione di Dante, il qual disse :
che parea il giorno pianger che si more ;
perché la medesima proporzione è tra ’l secondo e ’l primo ch’è tra il quarto e 'l terzo, cioè tra la morte e la vita, la qual è tra l’occaso e ’l giorno. Laonde sogliamo prendere il secondo in luogo del quarto, e ’l quarto in luogo del secondo ; e alcuna volta s’aggiunge quello per che si dice, come feci io in que’ versi :
muto poeta di pittor canoro.
Fatto o finto è quel nome che, non essendo mai stato usato da alcuno, il poeta il fa di nuovo : come fece Dante binato, e similmente intuassi, immiassi e inciela, impola, imparadisa, inoltra, insempra; ma particolarmente son lodati quelli che son più atti all’imitazione e al por le cose avanti gli occhi, come quello in quel verso :
Alto sospir, che ’l duolo strinse in «hui!».
Anzi il poeta dal finger de’ nomi prende il suo nome, perché egli è detto poeta dal verbo greco ποιεῖν, che significa tanto « fare » quanto « fingere ». Laonde così dal finger i nomi come dal far la favola è denominato. Il nome usato per ornamento è l’epiteto, o ’l nome aggiunto che vogliam dirlo ; il qual Aristotele chiamò co ’l nome greco κόςμον; e questo nome significa quella sorte d’epiteti che son detti « oziosi » e « vani », come piace al Vittorio ; o vero quello che da’ Greci è detto οἰκεῖον, cioè « proprio » o « appropriato », come dechiara il Maggio ; benché più mi piace l’altra opinione, perché la proprietà non suole apportar grande ornamento. L’allungato sarebbe s’altri dicesse simìle in vece di sìmile, il quale ha la penultima breve, o ignudo in vece di nudo ; l’accorciato, chi dicesse secol o pensier o caval in vece di secolo, di pensiero o di cavallo. Il mutato è quando rimane una parte del nome, e l’altra si cambia : come dicendosi desiro in vece di desire, o desire in vece di desiderio, o alloro in vece di lauro, o allegiamento in cambio d’alleviamento.
[11] Ma la virtù della elocuzione, se crediamo ad Aristotele, è che sia chiara, non umile, quasi nell’umiltà non possa essere alcuna virtù. Chiarissima veramente è quella la quale è composta de’ nomi propri, ma è umile, come sono i Capitoli del Bernia o del Mauro. Ma quella sarà grave la quale userà vocaboli affatto peregrini. Peregrini chiama Aristotele la varietà delle lingue, l’accorciamento e l’allungamento, e ciascuno altro nome che non sia proprio. Ma s’alcuno mescolasse insieme tutte queste cose, farebbe enigma o barbarismo : se mischiasse le traslazioni, enigma, se le lingue, barbarismo. I nomi dunque stranieri e i traslati e gli ornati e l’altre forme potranno fare il parlare non umile, ma sublime, e i propi il faranno chiaro e manifesto. Ma perché da una medesima cagione suol nascere l’oscurità e la grandezza, e derivar quasi da un medesimo fonte e dall’altro la umiltà e la chiarezza, fa di mestieri di gran giudizio e di grand’arte in accoppiare le voci proprie con le straniere e con le trasportate e con l’altre in guisa che ne risulti un parlare tutto splendido e tutto sublime. Dovrà dunque scegliere il poeta quelle traslate ch’averanno maggior vicinanza con le proprie, e che non saranno trasportate così di lontano. Dee ancora sceglierle da cose gratissime alla vista e a gli altri sensi, e schivar quelle che sono spiacevoli ad alcun di loro, come deveva far Dante, il qual, chiamando il sole lucerna del mondo, ci fé’ quasi sentir l’odor dell’oglio. E sì debbiamo fuggire la suspizione di tutte le cose brutte e troppo plebeie e popolari, come quella la quale è tratta dal chiavar delle porte, e l’altre somiglianti. Però non lodo colui il qual disse che la republica era castrata per la morte di Scipione ; né meritò molta lode il Caro chiamando i Francesi Galli intieri. Si deono anco lasciar quelle metafore le quali per l’uso sono divenute proprie, perch’alcune cose nelle traslazioni si dicono più pianamente e più propriamente che non con le proprie e medesime, come dice Demetrio Falereo. Non dee il poeta trasportar la metafora dalle cose minori alle maggiori, come il suono della tromba al tuono, ma dalle maggiori alle minori, come il torreggiar a’ giganti :
torreggiavan di mezzo la personagli orribili giganti.
In somma le metafore deono esser vaghe, piacevoli, agevolmente intese e illustri, com’è quella :
ridono i prati, il ciel si rasserena ;
e quell’altre :
e le rose vermiglie infra le nevemover dall'òra, e discovrir l’avorioche fa di marmo chi dappresso il guarda ;
e quelle :
perle e rose vermiglie, ove l’accoltodolor formava voci ardenti e belle ;fiamma i sospir, le lacrime cristallo.
E facilmente intese, illustri e sublimi e magnifiche, come quelle altre :
Io credeva assai destro esser su l’ali,non per lor forza, ma di chi le spiega;
e quelle :
Rotta è l’alta colonna e ’l verde lauroche facean ombra al mio stanco pensero;
e quelle :
spargendo a terra le sue spoglie eccelse,mostrando al sol la sua squallida sterpe.
Dee ancora schivar le metafore troppo oscure, le quali paiono quasi enigma, come alcune della canzone :
Mai non vo' più cantar come soleva.
Né si deono continuar le metafore, ma interporre tra le parole traslate le proprie, se vogliamo che ’l parlar sia chiaro e sublime ; altrimenti se ne farebbe allegoria : perché allegoria è la metafora continuata, come è quella :
Passa la nave mia colma d’oblioper aspro mare, a mezza notte il verno,infra Scilla e Cariddi ; ed al governosiede il signore, anzi il nemico mio.A ciascun remo un pensier pronto e rioche la tempesta e ’l fin par ch’abbia a scherno ;la vela rompe un vento umido eternodi timor, di speranza e di desio etc.
La metafora continuata nondimeno conviene al grave dicitore e ne’ misteri e nelle minaccie ; ma oltre tutte le metafore che son lodate da Aristotele è quella che si chiama « metafora in atto », cioè quella che pone la cosa manzi a gli occhi, e le dà quasi movimento e anima, e di inanimata la fa quasi animata. Perché s’alcuno dicesse che l’uomo da bene è « ben tetragono a’ colpi di fortuna », fa metafora, perché l’uno e l’altro è perfetto, ma non significa alcuna operazione, pierò che non mette alcuna cosa inanzi gli occhi ; ma dicendosi :
Nell’età sua più bella e più fiorita,
pare che quasi ci rappresenti la primavera. Similmente metafora in atto è quella :
Pon mano in quella venerabil chiomasicuramente, e ne le treccie sparte,sì che la neghittosa esca del fango,
perché segue l’operazione ; e quell’altra, pur del Petrarca :
Vinca il ver dunque, e si rimanga in sella,e vinta a terra caggia la bugia ;
e quella di Dante :
insin che ’l ramovede a la terra tutte le sue spoglie ;
e quell'altra :
io chinai il viso, e quel se 'n venne a rivacon un vasello snelletto e leggiero,tanto che l’acqua nulla n'inghiottiva ;
e quella del Boccaccio nella Teseide :
ad un’ora ruggiar tutte le porte.
[12] Si vede adunque che ciascuno di questi poeti si compiacque di far le cose animate d’inanimate, come prima s’era compiaciuto Omero con questa medesima traslazione, la quale è cagione di grandezza perché dà anima alle cose, e dà chiarezza perché le pone inanzi a gli occhi. Dee similmente il poeta, per accoppiar queste due condizioni, pigliar le parole straniere da quelle lingue le quali hanno qualche similitudine con la nostra, come è la spagnuola e la francese, sì veramente che lor si dia il fine delle parole toscane, ad imitazione di Cesare e d’altri, i quali alle parole barbare diedero la terminazione latina. Laonde non è da lodare il Guicciardino, il qual disse monsignor de l’Escu, potendo dir monsignor de lo Scudo, benché in ciò abbia avuto infiniti imitatori. E ciò similmente conviene avere non sol nelle voci traslate e nelle straniere, ma nelle fatte di nuovo ; altrimenti il parlare sarebbe simile a quello de gli Sciti, come dice Demetrio, o pur a quel de’ Tedeschi e degli Schiavoni. Laonde io non posso lodare a fatto que’ versi di Dante :
che se Tabernicvi fosse su caduto, o Pietrapana,non avria pur da l’orlo fatto cric.
Similmente, per congiunger queste qualità, nella scelta de’ nomi antichi si deono schivar quelli c’hanno del vieto e quasi del rancido, come son quelli :
o non vi fu mestier più che la dotta ;
e quelli :
E « Se miseria d’esto loco sollorende in dispetto noi e i nostri preghi»cominciò l'uno « e ’l tristo aspetto e brollo ».
E quell’è biasimata da Dante medesimo nel libro Della volgare eloquenza: e andavamo introcque. Ma per risolver questo dubbio con le parole usate d'Aristotele nella Retorica, io dirò che la virtù dell’elocuzione è che sia chiara, perché, s’ella fosse oscura, non farebbe il suo officio ; ma non dee esser umile, né più gonfia che non conviene ; la poetica non è umile, ma non è conveniente. Dalle quali parole si raccogliono due cose : l'una, che la virtù dell’elocuzione oratoria è la chiarezza e la convenevole altezza, l’altra, che ’l parlare ne’ poeti sia più sublime che ne gli oratori, ma non già proprio ; perché i poeti, come dice Marco Tullio, parlarono quasi con lingua aliena. Ma dall’altre parole che seguono si raccoglie che le parole proprie fanno l’orazione piana, ma non ornata, e gli altri nomi, i quali più convengono al poeta, l’accrescono ornamento, e particolarmente le parole disusate la fanno più venerabile, perché sono come forestieri tra cittadini ; laonde paiono peregrine e producono meraviglia; ma la meraviglia sempre apporta seco diletto, perché il dilettevole è meraviglioso. Tutta volta il parlar sì fatto è più convenevole nel verso che nella prosa,nella quale si deono usar poche volte le parole straniere e le finte e l’altre ch’abbiamo annoverate. Ma le metafore sono più accomodate all’oratore ; delle quali abbiamo detto alcune cose e dato quasi alcuni precetti ; e, repilogando, possiam dire con Egidio, interprete d’Aristotile, che tre sian le proprietà delle metafore : ch’ella sia presa da cose convenevoli, da vicine e da manifeste ; o che sian quattro, seguendo l’opinione d’altri e aggiungendovi ch’elle sian prese da cose belle e grate alla vista ; anzi, potendo esser presa da due cose belle, debbiam prenderla dalla più bella» come fece il Petrarca, il quale, parlando dell’aurora, disse :
con la fronte di rose e co’ crin d’oro.
Ma Dante prima avea detto che le guance dell’aurora
per troppa etate divenivan rance.
Laonde non si doverebbe dire che l’aurora fosse rossa, ma purpurea più tosto. Si possono alle dette proprietà aggiungerne due altre : ch’elle sian prese da cose maggiori e da migliori, sì veramente che la nostra intenzione sia di lodare ; perché s’ella fosse di vituperare, possiamo prenderla dalle peggiori, come fece Dante nel biasimar la sua donna :
questa scherana micidiale e ladra.
A queste cose, dette da Aristotele e da Demetrio Falereo, aggiunge Cicerone alcun’altre dell’origin della metafora, dicendo ch’elle son fatte o per bisogno o per diletto : per bisogno come quelle che sono uscite da’ villani, i quali dicono gemmar le vite e lussureggiar le biade, e l’altre simili ; per diletto come l’altre che son ritrovate per ornamento del parlare. Ma Porfirio non vuol che quelle le quali sono usate per necessità sian metafore, ma nomi equivochi più tosto ; la quale opinione egli raccolse dalle parole d’Aristotele medesimo, il qual nel terzo della Retorica disse che la metafora porta diletto oltre la necessità; laonde par ch’escluda quelle che son ritrovate per bisogno. Comunque sia, le traslazioni, usate con queste condizioni, accrescono molto la bellezza del parlare con gran lode di chi le trova ; né può ritrovarle convenienti chi non conosce la similitudine delle cose nella dissimilitudine. Laonde par ch’agli ingegni filosofici propriamente convenga il ritrovarle ; e Platone oltre tutti gli altri le ritrovò e l’usò senza risparmio, e perciò fu tenuto arditissimo. Senofonte si servì più volentieri delle imagini, o delle similitudini che vogliam dirle. E c’è dato per consiglio di trasmutar in imagine la metafora pericolosa ; il che si fa agevolmente con la giunta della particella quasi, come fece il Petrarca :
e d’intorno al mio cor pensier gelatifatto avean quasi adamantino smalto;
e ’l Caro dopo lui :
Giace, quasi gran conca, infra due mari.
Si può assicurar ancora la traslazione con un altro aiuto, cioè con l'epiteto, come assicurò Dante, il quale, parlando degli alberi pieni di neve, disse :
Sì come neve tra le vive travi.
E ’l Petrarca, per opinione d'alcuni, chiamò all’incontro una cassa di legno secca selva:
E pria sarò sotterra in secca selva ;
e spesso usò questo aiuto, come chiamando gli occhi di madonna Laura angeliche faville, e in un altro luogo il destro occhio destro sole, e 'l volto calda neve. Alcuna volta i nostri poeti hanno usato gli aggiunti per ammollir l’asprezza del nome che sta per sé, come usò il Petrarca dicendo :
O viva morte, o dilettoso male ;
e monsignor della Casa :
Pietosa tigre ad amar diemmi e scoglio ;
e altrove :
serena e pianaprocella il corso mio dubbioso face.
[13] Ma benché questo nome di metafora paia tanto ristretto d’Aristotele quanto abbiam veduto, nondimeno alcune volte l’usò in larghissimo significato, perch'egli suole chiamar metafora ogni nome che non è proprio. Laonde Cicerone estima ch’Aristotele comprendesse sotto il nome di metafora tutto quel che da’ grammatici e da’ maestri del dire (i quali dividono e spezzano le cose) vien chiamato con vari nomi ; e senza fallo i nomi d’ipallage, di metonomia e d’allegoria furono dopo Aristotele di nuovo ritrovati, perciò ch’egli riprese alcuni sofisti i quali posero nomi diversi a cose che non erano diverse in modo alcuno. Laonde non è meraviglia se di poche figure ritroviamo appresso Aristotele alcuna menzione ; ma non era convenevole ch’Aristotele facesse menzione di quelle cose che non si possono raccogliere sotto alcuna arte. Ma le figure peraventura si possono multiplicare in infinito ; laonde Cicerone nella Topica disse che le figure delle parole o delle sentenze, le quali i Greci chiamano σχήματα, era cosa infinita ; però può cadere più tosto sotto la distribuzione delle parti che sotto la divisione. Son dunque anzi parti dell’orazione che forme o specie ; e s’elle fossero forme, come piace a Boezio, e spezie del genere, potrebbono ricever l’istesso nome, percioché a ciascuna di loro conviene il nome del genere, là dove alle parti non si conviene quel del tutto ; nondimeno ciò nulla rileva, percioch’essendo in potestà del dicitore multiplicare le figure del parlare, può multiplicarle in infinito, perché, insieme col mutar dell’elocuzione, si mutano le figure, fra le quali non è alcuna differenza sostanziale, ma solamente accidentale ; laonde par che non possano avere genere comune, perché ciascun genere ha le sue differenze specifiche. E meglio dunque seguir l’altra opinione di Cicerone, seguita da Boezio istesso, che l’elocuzione sia il tutto, e le figure sieno alcune parti in lei tessute in molti e diversi modi, quasi tronconi o foglie o animaluzzi o altre si fatte imagini nel drappo della seta e dell’oro. Ma se ciò è vero, non debbiam diffinir la figura forma fatta di nuovo con qualche artificio, ma una parte artificiosamente rinovata e mutata e diversa dall'altre. Ma se le figure son parti, di loro non si può dare arte esquisita, perché non si posson raccogliere sotto certo numero. Non errò dunque Aristotele in tralasciarle ; o più tosto, non le tralasciò, perché tutte le raccolse sotto la metafora, e le distinse dalle parole proprie; né si può imaginare altra più perfetta divisione o altra più certa partizione di quella ch’egli fece nella Poetica. Ma non deono esser però disprezzate le cose dette da gli altri. Demetrio divise le figure in quelle delle sentenze e delle parole, ma nell’insegnare confuse questo ordine egli medesimo. L'istesse divisioni fece dapoi Marco Tullio, o l’autore ad Erennio, ma perturbò l’ordine similmente, perché le figure delle sentenze son prima che quelle delle parole, sì come son prima le cose delle parole ; ma peraventura ebbe riguardo a qualche comodità dell’insegnare, o disprezzo l’avertimento come troppo minuto. ìIl Trapezunzio confuse nell’istesso modo le figure del parlare con quelle del sentimento. ìQuintiliano le numera per ispezie ; Aldo Manuzio, sequendo gli antichi grammatici, suddivide quelle delle parole in tre generi : cioè della voce, della construzione e dell'elocuzione. Ma Giulio Cesare della Scala promette di darne arte esquisita, e difinisce la figura un disegno delle specie o delle forme ch’abbiamo nella mente, e vuol che tanti sieno i sommi generi delle figure quante sono le scienze ; e fra le scienze mette la dialettica per principale, le cui figure sono la disposizione del mezzo termine, perché in questo modo le chiamò Aristotele. La grammatica ha le sue figure, che sono mutazioni fatte nel parlare contra le sue leggi, o contra la sua regola, che vogliam dirle ; e sono sotto una somma scienza, la qual contiene la poesia, l’istoria e l’arte oratoria. Ma peraventura quelle della grammatica sono confuse con quelle ch’usano i poeti, gli istorici e gli oratori ; anzi i grammatici non ne conoscono altre. Oltre a ciò, se molti sono i sommi generi delle figure, non vi è un genere universo il quale contenga tutti e sia superiore a gli altri ; laonde non so come si possa darne una sola definizione.
[14] Lasciam dunque ora da parte le figure della logica, perch’in questo nome è qualche equivocazione ; ma non biasimo già la divisione fatta in quelle ch’appartengono alla poesia ; ch'alcune figure significano quel ch'è, altre il contrario ; e di quelle che significano quel ch’è, altre il significano egualmente, altre meno, altre altrimenti ; tutta volta questa divisione è sua propria fatta per le specie. Nondimeno non l’ha potute raccoglier tutte sotto i suoi generi, né io prenderò questa fatica, o impossibile o malagevolissima molto ; e voglio più tosto presupporre, come ho detto, ch’elle sian parti dell’elocuzione. Ma forme son quell’altre ch'idee son state chiamate ; le quali altri chiamò caratteri, altri generi, ciascun de’ quali ha la sua propria laude e la sua propria eccellenza. Ma questa divisione fu fatta dopo Aristotele, il quale non distinse le forme del parlare in quel modo che dopo lui furono distinte da Demetrio o da alcuno più antico, se non m’inganno, e dapoi da Marco Tullio e da Ermogene e da retori e da gramatici greci e latini. E cominciando dall’opinione di questi, che sono più vicini, quattro sono i generi del parlare : il breve e ’l lungo, il mezzano e ’l fiorito. Ma il primo vizio in questa divisione, come piace a Giulio Cesare da la Scala, è che le parti della divisione sian troppe ; l’altro, ch'elle non sian separate per le differenze specifiche ; il terzo, che così il lungo come il breve può esser fiorito. Alle medesime opposizioni mi par quasi soggetta la divisione che Ermogene fa dell’idee, le quali sono : la chiara, la grande, la bella, la veloce, l’affettuosa, la grave e la vera ; perciò che sono molte e non son divise per contrarie differenze ; e s’alcuno la volesse chiamar partizione, non divisione, ne seguirebbe ch’elle fossero parti, non forme, né idee, come vuole Ermogene ; ma noi abbiam presupposto che sian forme, a differenza dell’altre che son parti. Oltre a ciò, se pur si trova la forma del dire veloce, perché non si trova la tarda ? E se ci è la vera, perché non ci è la falsa ? Benché non si può dubitar ch’ella non vi sia, perché molti ammaestramenti si potrebbon dare di questa forma, solamente considerando la narrazione di Sinone appresso Virgilio. Più breve e più spedita mi par la divisione di Cicerone nel suo Oratore, che tre siano i generi del parlare : l’alto, il mediocre e l’umile ; perciò che il mediocre si fa o inalzando l’umile o abbassando il sublime. Laonde due generi solamente sono i principali, e questi sono gli estremi. Nell’istesso modo può esser difesa la divisione di Demetrio, il qual divide le forme in quattro semplici : nella tenue, o sottile che vogliamo dire, nella magnifica, nell’ornata e nella grave, e nell’altre che di queste son mescolate. Ma tutte non sono miste con tutte, ma l’ornata con la sottile, e l’ornata nell’istesso modo con l'una e con l’altra ; sola la magnifica non si mescola con la sottile, ma sono quasi forme poste all’incontra e contrarie. Per la qual cagione volsero alcuni che fosser due forme solamente, e l’altre due poste nel mezzo : ma l’ornata è attribuita alla tenue, e la magnifica alla grave, come se l’ornata avesse qualche sottigliezza, e la grave, mole e grandezza. Ma ’l parer di costoro parve a Demetrio degno di riso, perch’egli vide tutte l’altre mescolate insieme, non solo le due già dette ; e conobbe che ne’ versi d’Omero e nelle prose di Platone e di Senofonte e d’altri molti è molta magnificenza mescolata con molta gravità e con molta bellezza. Tanta differenza è tra la felicità del comporre e la sottigliezza del disputare. Nondimeno nell’assegnare i nomi a’ caratteri, egli non fece grande stima dell’autorità d’Aristotele, il qual nel terzo della Retorica riprese coloro che trasportavano questo nome di magnificenza da’ costumi all’elocuzione ; o per aventura non si ricordò d’aver ciò letto ; ma più sicuramente si chiamerebbono le forme semplici co’ nomi opposti, cioè alto e basso, se la bassezza non fosse vizio. Ma questa è lite de’ nomi, e, purch’intendiamo e siamo intesi, poco importa comunque sian detti. Dicansi dunque o caratteri, come gli nomina Demetrio, o generi, come Marco Tullio, o specie o forme, come son dette dall’uno e dall’altro, o idee, come le disse Ermogene e, prima di lui, Plutarco. Ma la forma si può difinire l’effigie del parlare, e ’l carattere il segno. Chiamandosi generi, pare che le spezie quasi più minute sotto a lui sian contenute. Laonde se le forme sono spezie, conviene che sian soggette al genere. E se ciò è vero, il sublime e l’alto genere avrà, come sue spezie, la grande, la bella, la splendida, la grave forma e quella ch’è piena di dignità, e l’aspra, l’affettuosa e la veemente ; il mediocre : la graziosa, la soave, la dolce, la piacevole, l’ornata e la fiorita ; l’umile : la chiara o ver la facile, la semplice, l’acuta, la sottile, la motteggevole o ver quella che move a riso, e altre simiglianti. Benché Giulio Cesare da la Scala abbia voluto che alcune di queste siano più tosto affetti che spezie, perché, se fossero spezie, sarebbon separate per differenze contrarie ; ma aviene altrimenti, come egli estima, perché la chiarezza e la bellezza sono necessarie ad ogni sorte d’orazione, ma la grandezza non a tutte. Nondimeno, per l’opinione de gli antichi si potrebbe replicare ch’ai parlar degli oracoli e a quel che s’usa ne’ misteri non è necessaria la chiarezza, né la bellezza nel parlar di colui che vitupera e che rimprovera altrui le sue colpe. Laonde Beatrice, nel riprender Dante, non usò questa forma quando ella disse :
O tu che ancor di là del fiume sacro................................per udir se’ dolente, alza la barba ;
del che egli s’avide ; però soggiunse :
e quando per la barba il volto prese,ben conobbi il velen dell'argomento.
Ma molto meno usò questa forma il Boccaccio nel riprender la vedova che l’aveva schernito ; anzi raccolse i più sozzi vocaboli e i più vili ch'usasse il popolo fiorentino, come fece Dante ancora spesse fiate nell’Inferno, cioè nel primo canto del suo poema : perché si fece lecito di riprendere e di morder le persone co ’l proprio nome, sì come s’usava nella comedia vecchia; benché per altra cagione ancora li potè dare questo nome, come altrove ho detto.
[15] Ma lasciando questa questione da parte, io dico che le forme si mescolano insieme in guisa ch’è diffidi cosa trovarle mai separate, eccettuatene quelle che sono contrarie. Talché possiamo assomigliare il parlare ad una cera, la qual prende diversi segni e diverse figure. Ma le parole sono imagini de' concetti, i quali sono nell’animo nostro, come dice Aristotele ; e i concetti delle cose che son fuori dell’intelletto. Le parole adunque sono imagini dell’imagini, però deono assomigliarli ; e benché il concetto, il quale è quasi un parlare interno, sia fatto in uno instante, le parole nondimeno sono pronunziate in qualche tempo; e ’l tempo è numero, laonde il numero ancora si dee considerare nelle parole. Tre condizioni dunque concorrono in queste che noi dimandiamo forme del parlare : le parole (quasi materia che dee ricever la forma), il numero, e ’l concetto, o sentenza che vogliam dirla. Consideriam dunque quali parole, quai numeri e quai concetti alle forme sian più convenienti, e poi andremo ricercando quai figure sian proprie di ciascuna. Io non ho fatta menzione delle cose, perché Demetrio ancora disse che la magnificenza consisteva in queste tre : cioè nella sentenza, nella elocuzione e nella composizione delle parole conveniente, dalla quale nasce il numero. Ma dapoi considerò la quarta condizione, dicendo che la magnificenza era nelle cose, ove si tratti e descriva alcuna grande e illustre battaglia terrestre o navale, e dove si ragioni del cielo e della terra. Della qual opinione fu ancora Nicia pittore, il qual volle che l’argumento non fosse picciola parte dell’arte del dipingere, perché alcuno, dipingendo cosa somigliante, dee mostrar molte figure de cavalli, de’ quali alcuni corrano, altri caggiano, altri stiano dritti, molte ancora de cavalieri, i quali saettino o caggiano dai cavallo saettando ; ma gran fallo commetterebbe se quasi spezzasse l’arte in molte minutissime parti, dipingendo fiori e ucelletti. Ma gli essempi non si ritrovan più belli o maggiori che ne’ versi di Virgilio ; della battaglia terrestre in quelli :
anceps pugna diu, stant obnixa omnia contra ;haud aliter Troianae acies aciesque Latinaeconcurrunt : haeret pede pes, densus viro vir.At parte ex alia, qua saxa rotantia lateintulerat torrens arbustaque diruta ripis,Arcadas insuetos acies inferre pedestresut vidit Pallas Latio dare terga sequaci etc.;
e in quelli altri del medesimo poeta :
Caedicus Alcathoum obtruncat, Sacrator Hydaspem,Partheniumque Rapo et praedurum viribus Orsem,Messapus Cloniumque Licaoniumque Ericaten,illum infrenis equi lapsu tellure iacentem,hunc peditem. Pedes et Lycius processerat Agis,quem tamen haud expers Valerus virtutis avitaedeicit ; Atronium Salius Saliumque Nealces,insignis iaculo et longe fallente sagitta.Tura gravis aequabat luctus et mutua Mavorsfunera ; caedebant pariter pariterque ruebantvictores victique, neque bis fuga nota nec illis,
e quel che segue Molti altri essempi e quasi vive imagini della battaglia terrestre sono nel divin poeta ; ma la navale è figurata nello scudo, come si legge :
Haec inter tumidi late maris ibat imagoaurea, sed fluctu spumabant caerula cano ;et circum argento clan delphines in orbemaequora verrebant caudis aestumque secabant.In medio classeis aeratas, Actia bella,cernere erat, totumque instructo Marte videresfervere Leucatem, auroque effulgere fluctus.Hinc Augustus agens Italos in praelia Caesarcum patribus populoque, penatibus et magnis diisstans celsa in puppi ; geminas cui tempora flammaslaeta vomunt patriumque aperitur vertice sydus.Parte alia ventis et divis Agrippa secundisarduus agmen agens, cui, belli insigne superbum.tempora navali fulgent rostrata corona.Hinc ope barbarica variusque Antonius armis,victor ab Aurorae populis et littore rubro,Aegyptum viresque Orientis et ultima secumBactra vehit, sequiturque (nefas) Aegyptia coniux.Una omnes ruere et totum spumare reductisconvulsum remis rostrisque stridentibus aequor.Alta petunt, pelago credas innare revulsasCycladas, aut montes concurrere montibus altos,tanta mole viri turritis puppibus instant.>Stuppea fiamma manu telisque volatile ferrumspargitur.
Ma l’essempio delle cose del cielo e della natura si vede in quelli altri del medesimo poeta :
Principio caelum et terras camposque liquenteslucentemque globum lunae Titaniaque astraspiritus intus alit totamque infusa per artusmens agitat molem et magno se corpore miscet.
Ma per la medesima cagione suol esser la magnificenza ne’ versi de’ nostri poeti, come in quelli di Dante :
La gloria di colui che tutto moveper l’universo penetra e risplendein una parte più e meno altrove.
Le cose adunque possono ancora accrescer la magnificenza, quantunque Giulio Cesare Scaligero porti contraria opinione, dicendo che non è necessario che nel carattere grande sian grandi le cose, e nel sottile sottili, ma che basta nel poeta l’usar parole scelte, sonore, depinte, e la composizione delle cose numerosa. Ma in queste parole doppiamente s’inganna : prima perché lascia a dietro i concetti e le sentenze, il qual errore è insopportabile, dapoi perché esclude le cose. Ma questo errore più facilmente può esser perdonato, perciò che le cose picciole possono esser trattate con grand’ornamento, come trattò Virgilio quelle dell’api, dicendo :
Protinus aerii mellis caelestia donaexequar ; hanc etiam, Maecenas, aspice partem.Admiranda tibi levium spectacula rerummagnanimosque duces totiusque ordine gentismores et studia et populos et praelia dicam.In tenui labor, at tenuis non gloria, si quemnumina laeva sinunt auditque vocatus Apollo.
Ne’ quai versi il poeta, formandosi nell’animo il concetto o d’una città o d’un essercito ch’abbia legge, costume e studii, e popul i e duci magnanimi, agevolmente usò parole gravi e ornate. Né basta che il numero e le parole siano sonore e depinte se non corrispondono i concetti e le sentenze, perché già abbiam detto che le parole sono imagini delle passioni dell’animo ; ma le imagini deono esser simili all’imaginato. Tutta volta i concetti ancora sono imagini delle cose ; e quantunque le cose concorrano egualmente alla grandezza della forma, nondimeno Demetrio Falereo dice che le cose ampie si deono dire ampiamente, e tutte l’altre deono esporsi con parole acconcie e proprie del concetto ; e facendosi altrimenti par che si scherzi. Laonde nelle materie gravi non è lecito che le parole discordino dalle cose, benché alcuni stimassero che sia gran segno d'eloquenza il dir le cose picciole altamente. Ma ciò si concede per gioco o per altra cagione ; e perché scherzava, fu lodato il Berno quando egli disse :
Dal più profondo e tenebroso centrodove ha Dante alloggiato i Bruti e i Cassi,fa’, Florimonte mio, nascere i sassila vostra mula per urtarvi.
Di quella opinione fu Giulio Camillo, il quale scrisse nella sua orazione Dell’eloquenza queste parole : At in ìisdem libris, ut humilia mirabiliter dicantur, his verbis praecipit :
« In eloquentia autem multa sunt quae teneant ; quae si omnia summa non sunt, et pleraque tamen magna sunt, necesse est ea ipsa quae sunt, mirabilia videri»
. Ma da queste parole di Cicerone nell'Oratore io raccoglio più tosto che non solamente le cose grandissime, ma le grandi ancora, benché non sian le somme, possono ricever meraviglioso ornamento ; né Marco Tullio portò opinione lontana da questa. Lasciamo dunque co’ suoi seguaci Giulio Camillo e Giulio Cesare da la Scala, il quale più tosto dovrebbe esser seguito in un’altra opinione, estimando egli che l’umiltà di Virgilio nello stile sublime, cioè nell’Eneide, sia differente da quella della Buccolica in spezie, ma l’altezza dalla umiltà dell'Eneide sia diversa non di spezie, ma di modo. Più sicuramente nondimeno si può affermare che il temperato e ’l sublime e l'umile dell’eroico non sia il medesimo con quelli de gli altri poemi ; e se fosse pur lecito al poeta usar lo stil dimesso nell’epopeia, non dee però inchinarsi a quella bassezza ch’è propria de’ comici, come fece l’Ariosto quando egli disse :
Ch’a dir il vero, egli v'avea la gola ;......................................e riputata avria cortesia sciocca,per darla altrui, levarsela di bocca ;
e in quelli altri :
E dicea il ver ; ch’era viltade espressa,conveniente ad uom fatto di stucco,...................................che tutta via stesse a parlar con essa,tenendo l’ale basse com’un cucco.
Troppo, per dir il vero, sono vili e disonesti questi modi, e per la bruttezza della cosa che si mette avanti a gli occhi, o che s’accenna, non convengono al poeta eroico. Di questo numero sono ancora quegli altri :
e fe’ raccorre al suo destrier le penne,ma non a tal che più l’avea distese.Del destrier sceso, a pena si ritennedi salir altri.
E come c’insegna Marco Tullio nel libro Del perfetto genere dell’oratore : In tragoedia comicum vitiosum est, et in comoedia turpe tragicum. Laonde, essendo questi modi convenienti alla comedia, son disconvenevolissimi a la tragedia, e nell’epopeia o nel poema eroico parimente. E perch’è maggior conformità tra il lirico e l’epico, non s’abbassò alla mediocrità lirica senza decoro, ma seguì l’essempio di Catullo in quelli altri :
La verginella è simile a la rosa,ch’in bel giardin su la nativa spinamentre sola e sicura si riposa,né gregge né pastor se le avvicina ;l’aura soave e l’alba ruggiadosa,l’acqua, la terra al suo favor s’inchina :gioveni vaghi e donne innamoratebramano averne e seni e tempie ornate.
Il qual fu poi imitato nel suo Canzoniere con molta convenevolezza da monsignor della Casa :
Qual chiuso in orto suol purpureo fiore,cui l’aura fresca e 'l sol tepido e ’l riocorrente nutre, aprir tra l’erba fresca etc.
Lo stile eroico adunque non è lontano dalla gravità del tragico né dalla vaghezza del lirico, ma avanza l’uno e l’altro nello splendore d’una meravigliosa maestà. Non è disconvenevole nondimeno al poeta epico ch’uscendo alquanto da’ termini di quella sua illustre magnificenza, alcuna volta pieghi lo stile alla gravità del tragico, il che fa più spesso, alcun’altra al fiorito ornamento del lirico, il che fa più di rado.
[16] Ma lo stile della tragedia, quantunque descriva avenimenti illustri e persone reali, per due cagioni dee esser meno sublime e più semplice dell’eroico : l’una, perché suol trattar materie più affettuose ; e l'affetto richiede purità e semplicità, perch’in tal guisa è verisimile che ragioni uno che sia pieno d’affanno o di timore o di misericordia o d’altra simile perturbazione. L’altra cagione è che nella tragedia non parla mai il poeta, ma sempre coloro che sono introdotti agenti e operanti ; a’ quali si dee attribuire una maniera di parlare men disusata e men dissimile dall’ordinaria. Ma ’l coro per aventura dee parlar più altamente, perch’egli, come dice Aristotele ne’ Problemi, è quasi un curatore ozioso e separato ; e per l’istessa ragione parla più altamente il poeta in sua persona, e quasi ragiona con un’altra lingua, sì come colui che finge d'esser rapito da furor divino sovra se medesimo. Ma lo stile del lirico non è pieno di tanta grandezza quanta si vede nell’eroico, ma abonda di vaghezze e di leggiadria, ed è molto più fiorito: perché i fiori e gli ornamenti esquisiti sono propri della mediocrità, come c’insegna Marco Tullio nell'Oratore; e Pindaro prima di lui nominò gli ornamenti della sua poesia hymnorum flores. Le materie ancora il ricercano, e la persona del poeta. che quasi mai non si nasconde ; ma se le cose fossero piene d'affetti e di costumi, sarebbono per aventura contente di minor ornamento, o non vorrebbono i medesimi, perciò che non tutte le figure convengono a tutte le forme nella medesima composizione di parole, ma alcune sono più convenevoli all’una ch’all'altra, com’estima Demetrio. Ora seguirò questa opinione, lasciando quella del Trapezunzio, che tutte le figure siano usate in tutte le forme, non perch’io voglia imporre alcuna necessità a gli altri o a me stesso, ma perché l’ammaestramento non mi par soverchio, né degno d’essere disprezzato.