LIBRO SECONDO

[1] Fra tutte le operazioni della nostra umana ragione, illustrissimo Signore, niuna e più malagevole, niuna più degna d'esser lodata dell'elezione: però che le operazioni fatte all'improviso possono peraventura come divine e meravigliose esser considerate, ma non meritano lode di maturità e di consiglio e di prudenza; ma l'eleggere è cosa propria dell'uomo che si consigli fra se stesso, e 'l bene eleggere propriissimo del prudente; tanto maggiore nondimeno si mostra la prudenza del far l'elezione, quanto è minore la certezza delle cose elette. Ma qual è più incerta, quale più instabile, quale più incostante della materia? Prudentissimo dunque conviene che sia colui il quale non s'inganni nello scegliere dove è tanta mutazione e tanta incostanza di cose; e la materia è simile ad una selva oscura, tenebrosa e priva d'ogni luce. Laonde se l'arte non l'illumina, altri errarebbe senza scorta e sceglierebbe per aventura il peggio in cambio del meglio. Ma l'arte distingue fra le cose disposte a ricever la forma e quelle che non sono disposte; e quantunque la materia propriamente si dica quella de gli elementi o de' nostri corpi, o quella de' colossi o delle piramidi o de' ponti o delle navi o dell'altre cose che si possono vedere e toccare e sono sottoposte a' nostri sentimenti, nondimeno nelle cose intellettuali ancora si trova un non so che simigliante alla materia, e, per analogia o proporzione che vogliamo dirla, può esser dimandato con l'istesso nome. Laonde non solo diciamo la materia dell'orazione o del sillogismo o del verso, ma chiamiamo materiale ancora una potenza dell'intelletto nostro, atta a ricever tutte le forme. Ma lasciando ora da parte la sottilissima investigazione de' filosofanti, niuna selva fu giamai ripiena di tanta varietà d'alberi di quanta diversità di soggetti è la poesia. La materia poetica adunque pare amplissima oltre tutte l'altre, però che abbraccia le cose alte e le basse, le gravi e le giocose, le meste e le ridenti, le publiche e le private, l'incognite e le conosciute, le nuove e le antiche, le nostre e le straniere, le sacre e le profane, le civili e le naturali, l'umane e le divine. Laonde i suoi termini non pare che siano i monti o mari che dividono l'Italia o la Spagna, non il Tauro, non l'Atlante, non Battro, non Tile, non il mezzo giorno o 'l settentrione o l'oriente o l'occidente, ma il cielo e la terra, anzi l'altissima parte del cielo e la profondissima del più grave elemento: percioché Dante, innalzandosi dal centro, ascende sovra tutte le stelle fisse e sovra tutti i giri celesti; e Virgilio e Omero ci descrissero non solamente le cose che sono sotto la terra, ma quelle ancora che a pena con l'intelletto possiamo considerare; ma le ricoprirono con un gentilissimo velo d'allegoria. È dunque grandissima la varietà delle cose trattate da loro e da gli altri che prima o dopo hanno poetato, e grandissima la diversità dell'opinioni, o più tosto la contrarietà de' giudicii, la mutazione delle favelle, de' costumi, delle leggi, delle cerimonie, delle republiche, de' regni, de gl'imperatori, e quasi del mondo istesso, il quale pare che abbia mutata faccia, e ci si rappresenta quasi in un'altra forma e in un'altra sembianza. Onde s'alcuno, fra tanta moltitudine di cose dubbie e incerte, potrà scegliere il meglio e quello che e più acconcio a ricevere ornamento e bellezza, sarà artificiosissimo e prudentissimo oltre tutti gli altri; però che l'arte non deve essere scompagnata dalla prudenza e, come ad alcuni parve, è la prudenza istessa, avenga che le sue operazioni e i suoi giudìci non siano fatti senza elezione e senza conseglio, benché altri abbiano avuto opinione che 'l consultare non abbia luogo nell'arti esattissime. Ma ora io scrivo queste cose in guisa d'uomo che dica il suo parere e chieda l'altrui, quasi volendo accendere una gran luce, di molte scentille, ch'illustri le tenebre che fanno oscura la grandissima selva della materia poetica.

[2] A tre cose dee aver riguardo, illustrissimo Signore, ciascuno che di scriver poema eroico si prepone: a sceglier materia tale che sia atta a ricever in sé quella più eccellente forma che l'artificio del poeta cercarà d'introdurci; a darle tal forma; e a vestirla ultimamente con que' più rari ornamenti ch'alla natura di lei siano convenienti. Sovra questi tre capi dunque, così distintamente come io gli ho proposti, sarà diviso tutto questo discorso: però che cominciando dal giudicio che egli deve mostrare nell'elezione della materia, passerò all'arte e all'invenzione che se gli richiede servare prima nel disporla e nel formarla, e poi nel vestirla e nell'adornarla.

[3] La materia, la quale da alcuni è detta nuda, perché non ha anco ricevuta qualità alcuna dell'artificio del poeta o dell'oratore, cade sotto l'artificio del poeta in quella guisa che il ferro o 'l legno è considerato dal fabro; perché, come dice Filopono nel principio del suo commento sovra il terzo libro Priorum analiticorum, s'appartiene a colui che sa, non solo considerare le specie delle cose subiette, ma la materia e la disposizione a ricever le forme, come colui che fa le navi considera i legni che si deono porre in opera nel naviglio, e l'architetto e 'l muratore le pietre apparecchiate per edificare, e il simile avviene nelle altre arti e in quelle ancora che sono dette ragionevoli. Così Aristotele, volendoci insegnare le specie de' sillogismi, prima ci ammaestrò nelle specie delle proposizioni, che sono materie de' sillogismi. Al poeta similmente conviene non solo aver arte nel formar la materia, ma giudizio ancora nel conoscerla; e dee sceglierla tale che sia per natura capace d'ogni ornamento e d'ogni perfezione. E benché, dandosi un metodo e una via da trovare le proposizioni, si potesse a questa similitudine andar considerando il modo e la strada tenuta da coloro i quali hanno finto l'argumento e il soggetto, nondimeno ora si ragiona di quella parte che è propria del giudizio, non dell'altra ch'appartiene all'invenzione, nella quale è più libero il poeta che l'oratore; perché all'oratore, e a quello particolarmente che s'esercita nel giudizio delle cause criminali, la materia è spesso offerta dal caso e dalla necessità, al poeta dall'elezione; al quale è lecito ancora di fingerla, e la finzione è riputata invenzione; quinci avviene che alle volte quel che non è convenevole nel poeta è lodevole nell'oratore, o tolerabile almeno. Si biasma il poeta che faccia nascere la compassione sovra persona che volontariamente abbia macchiate le mani nel sangue del padre e del fratello, o commessa altra sceleragine; ma all'oratore si concede la difesa del colpevole, come fu opinione di Quintiliano e de gli altri retori; non parlo de' filosofi, perché portaranno contraria opinione, essendo lecito, come si legge nel Gorgia di Platone, che l'amico accusi l'amico, e il parente il parente, e procurino nel giudizio che la pena sia medicina del vizio e della malvagità; ma per aventura questa fu troppo severa filosofia, né si poteva vivere con queste leggi o con questa usanza in altra republica ch'in quella di Platone. Nell'altre si biasma la mala elezione del poeta e si scusa la necessità dell'oratore, anzi si loda l'ingegno; parlo nondimeno di quelli oratori che ragionano davanti il tribunale di giudici, perché gli altri che vivono lontano dallo strepito del palazzo possono eleggere l'argumento, e meritano molta lode per la buona elezione, come meritò Isocrate da Dionigi d'Alicarnasso, scrittore della sua vita e giudice de' suoi scritti. Anzi Isocrate medesimo in quell'orazione Della Permutazione de' beni, nella quale si difende dall'opposizione fattagli dagli accusatori, niuna più certa ragione adduce che la bontà delle sue orazioni; e nella Lode d'Elena lasciò scritte queste parole, o somiglianti: «Qual uomo di sana mente delibera di lodar la calamità? Ma si conosce agevolmente che molti per infirmità dell'ingegno rifuggano a questi argomenti». E poco appresso: «A niuno mai che volesse lodar l'ape o il sale o l'altre cose di questa sorte, mancaranno le parole». Molti luoghi, oltre questi, si potrebbono recare e da questa orazione e dal Panegirico e dall'altre, ne' quali disprezza la viltà e la bassezza de' soggetti, e ogni artificio che vi possa esser usato. Lodò nondimeno Elena prima lodata da Gorgia, e Busiride comendato e difeso da Policrate, benché la lode di Busiride sia fatta per altrui ammaestramento e con scusa di se medesimo, e conchiuda che' mali argumenti non debbono trattenerci in modo alcuno, come quelli che porgono grande occasione a' calunniatori de' buoni studii. Virgilio nel quarto della Georgica, quasi egli fosse di contraria opinione, prende l'api per soggetto non solamente d'ammaestramento, ma di lode, e chiama Busiride illaudato in quei versi:

Quis aut Euristea durum,
aut illaudati nescit Busiridis aras?

o perché egli non avesse letto Isocrate, o più tosto perché non lodava Isocrate di quella falsa laude, chiamando Busiride illaudato, quasi illaudabile e indegno di laude. E peraventura Virgilio stimò vera quella opinione d'Isocrate, il quale, come racconta Plutarco nella sua Vita, dimandato quel che fosse la retorica, rispose ch'era officio del retore il far le cose grandi picciole, e le picciole grandi. Ma se ciò fosse vero, sarebbe similmente officio del medesimo il far le cose degne indegne, e l'indegne degne, l'illustri oscure, e l'oscure illustri, le compassionevoli degne di riso, e le ridicule meritevoli di pietà, e il toglier la maraviglia alle maravigliose, e la verisimilitudine alle vere, aggiungendola alle cose contrarie con l'eccellenza del suo artificio, col quale può superare la difficultà della materia e la natura intessa. Tuttavolta la cosa sta altrimenti: perché Isocrate, mutando opinione, s'ebbe mai quella che da Plutarco gli fu attribuita, disse: «È agevol molto il superare le cose picciole con l'orazioni, ma parlando aguagliar le grandi è malagevolissimo; e de' fatti gloriosi è difficil dire quello che non si è detto prima, ma delle cose basse e di piccol'estima ciò che si dice a caso è proprio». In molti altri luoghi manifestò la medesima opinione, nella quale fu seguito da' migliori e più giudiziosi maestri dell'eloquenza. Laonde non è dubbio che l'eccellentissime forme s'introducono meglio nella materia che sia atta a riceverle. Onde presupponiamo che co 'l medesimo artificio e con la istessa eloquenza altri voglia mover compassione d'Edippo, che per semplice ignoranza uccise il padre, altri da Medea, la qual, conoscendo la sua sceleragine, lacerò li figliuoli; molto più sarà compassionevole la favola tessuta de gli accidenti d'Edippo che l'altra composta del fiero proponimento di Medea: quella infiammarà gli animi di pietà, questa a pena potrà intepidirli, ancor che l'artificio usato nell'una e nell'altra fosse non solo simile, ma eguale. Similmente la medesima forma del sigillo molto meglio fa sue operazioni nella cera ch'in altra materia più liquida o più densa; e più sarà in pregio una statua di marmo o d'oro ch'una di legno o di pietra men nobile, benché in ambedue si lodasse parimente l'industria di Prassitele o di Fidia. Queste cose ho dette accioché si conosca quanto importi nel poema l'eleggere più tosto una che un'altra materia. Or debbiam considerare in qual luogo ella debba ricercarsi; il che appertiene in qualche modo a l'invenzione. La materia, che può chiamarsi ancora argomento, in questi tempi ne' quali sono scritte le cose degne di memoria o si finge, e allora pare che il poeta abbia gran parte non solo nella scelta, ma nel ritrovamento, o si prende dall'istorie. Ma ne gli antichissimi tempi, prima che fosse Omero, il quale non fu tra gli scrittori del primo secolo, ma tra quelli del secondo o del terzo, i poeti peraventura non avevano il soggetto dall'istoria, avenga che l'istoria non sia più antica della poesia, ma più nuova; ma i poeti o seguivano le relazioni di coloro che erano stati presenti a' fatti medesimi, o la fama e l'opinione. Omero nondimeno, il quale fu dopo Lino e dopo Orfeo e dopo Museo e dopo Olimpo e dopo molt'altri, fu ancora inferiore d'età ad Orebanzio Trezenio e a Darete Frigio, il quale fece istoria della guerra di Troia, come scrive Eliano. Gli altri ch'hanno seguito Omero e imitatolo, tutti fondarono il poema sovra l'istorie, perché non si può fare quasi altrimenti, essendo sinora scritte tutte l'azioni memorevoli; laonde quelle che non sono scritte non paiono degne di memoria. Molto meglio dunque è, per mio giudizio, che l'argomento sia prestato dall'istoria; che non sarebbe s'egli in tutto si fingesse. Però Sinesio nel suo libro De' sogni lasciò scritto che Alceo e Archiloco furono degni che la posterità conservasse memoria di tutto ciò che lor piaceva o dispiaceva, non avendo essi voluto spender vane parole negli argomenti finti; e loda Omero e Stesicoro ch'avevano fatto più illustre co' lor poemi la progenie degli eroi; biasima all'incontro i savi del suo tempo, i quali vanamente s'erano occupati ne' falsi argomenti. E di questa opinione tra gli altri fu Macrobio nel Sogno di Scipione, nel quale, distinguendo le favole, dice che in alcune di loro il poeta vuol solo piacere a gli orecchi e fa quasi professione di falsità e di bugia, quali sono quelle di Menandro e de' suoi imitatori e gli scherzi d'Apuleio; e queste vuole che la sapienza scacci dal suo tempio nelle cune delle nutrici. Ma di quelle ch'hanno qualche forma di virtù si fa la seconda distinzione: in alcune l'argumento è finto, come nelle favole d'Esopo; in altre è fondato nella sodezza del vero, e questo è molto acconcio alla filosofia, ove la verità, la quale è mescolata con alcune cose finte e composte dall'artificio del poeta, non sia nascosa sotto un manto quasi contrario di sozze invenzioni e di brutte parole, ma dentro un pio velame di cose oneste e di nomi splendidi e illustri. Questa distinzione di Macrobio per aventura, la quale scaccia le comedie o le favole d'Apuleio nella cuna delle nutrici . . . però che le favole sì fatte deono esser lette da' giudiziosi e da gli attempati anzi che no; a' fanciulli, come vuol Platone nel terzo delle sue Leggi, deono più tosto dalle nutrici esser cantate le lode de gli dii e de gli eroi. Ma oltre l'autorità si potrebbono adducere molte ragioni per le quali al poeta eroico si conviene fare il suo fondamento nel vero: e prima, dovendo l'epico cercare in molte parti il verisimile, non è verisimile che un'azione illustre, come sono quelle da lui trattate, non sia scritta e passata a la memoria de' posteri con la penna d'alcuno istorico; e i grandi e fortunosi avvenimenti non possono esser incogniti; e ove non siano recati in scrittura, da questo solo argumentano gli uomini la loro falsità; e falsi stimandoli, non consentono di leggieri alle cose scritte, per le quali or sono mossi ad ira, ora a pietà, ora a timore, or contristati, or pieni di vana allegrezza, or sospesi, or rapiti, e in somma non attendono con quell'espettazione il successo delle cose, come farebbono se l'estimassero vere in tutto o in parte; perché, dove manca la fede, non può abbondare l'affetto o il piacere di quel che si legge o s'ascolta; ma dovendo il poeta con la sembianza della verità ingannare il lettore, suol dilettarlo con la varietà delle menzogne, come dice Pindaro nella prima ode dell'Olimpiache:

ἦ θαῦμα τὰ πολλὰ,
καί πού τι καί βροτῶν φρένα
ὑπὲρ τὸν ἀληθῆ λόγον,
δεδαιδαλμένοι ψεύδεσι ποικίλοις
ἐξαπατῶντι μῦζοι;

imperché il diletto della bugia, variando l'aspetto della verità, e co' suoi colori quasi dipingendolo, suole ingannare più agevolmente. Cerca nondimeno il poeta di persuadere che le cose da lui trattate siano degne di fede e d'autorità, e si sforza di guadagnarsi ne gli animi questa opinione e questa credenza con l'autorità dell'istoria e con la fama de' nomi illustri, e d'acquistarsi benevolenza con la lode della virtù e de gli uomini valorosi, avenga che sia pericoloso l'essere odiato, come dice Platone (parlo di quelli che imitano l’azioni illustri, quali sono il tragico e l'epico). E ciò si potrebbe confermare con l'autorità d'Aristotele, perché, se i poeti sono imitatori, conviene che siano imitatori del vero, perché il falso non è; e quel che non è, non si può imitare: però quelli che scrivono cose in tutto false, se non sono imitatori, non sono poeti, e i suoi componimenti non sono poesie, ma finzioni più tosto; laonde non meritano il nome di poeta, o non tanto. Fra costoro sono i comici della nuova comedia, nata dopo la morte d'Aristotele; perché la vecchia, la quale fiorì a' suoi tempi, introduceva nella scena le vere persone, laonde erano in qualche modo imitazioni del vero. Si concedeva nondimeno alla vecchia comedia, o a quella che fu meno antica, il fingere i nomi, come dice Aristotele medesimo: ἐπί μὲν οὖν τῆς κωμῳδίας ἤδη τοῦτο δῆλον γέγονεν˙ συστήσαντες γὰρ τὸν μῦζον διὰ τῶν εἰκότων, οὑτω τὰ τυχόντα ὀνόματα ἐπιτιζέασι. Ma la nuova, o perché alcuna legge il condannasse, o perché rappresenti ancora l'azioni vili e popolaresche, sempre suol finger le persone e l'azioni e i nomi a sua voglia; né ripugna al verisimile che dell'azioni private non s'abbia alcuna contezza fra gli uomini, ancora che sono abitatori della medesima città. E benché leggiamo nella Poetica d'Aristotele che le favole finte sogliono piacere per la novità loro, come fu tra gli antichi il Fior d'Agatone, e tra' moderni Toscani le favole eroiche del Boiardo e dell'Ariosto, e le tragiche d'alcuni più moderni, non debbiamo però lasciarci persuadere che favola alcuna finta sia degna di maggior lode, perché già si è conchiuso il contrario per molte ragioni; e oltre a tutte l'altre n'adduciamo due, l'una d'Aristotele medesimo: percioché quelle cose sono credibili che si possono fare, ma quelle che non è chiaro che siano fatte, sono credute poco possibili; e l'ultima è quasi frutto del seme istesso, nata, dico, dalla sua dottrina: che la novità del poema non consista principalmente nella falsità del suggetto non udito, ma nel bel nodo e nello scioglimento della favola. Fu l'argumento di Tieste, di Medea, di Edippo da varii antichi trattato nella lingua greca e nella latina, ma, tessendolo diversamente, il facevano di comun proprio e di vecchio nuovo. Però molto s'inganna il Rubertello in assegnar al poema per materia il falso, avvenga che il falso, per giudizio di Platone e d'Aristotele, sia la materia del sofista, il quale s'affatica intorno a quel che non è. Ma il poeta si fonda sovra qualche azion vera, e la considera come verisimile, onde la sua materia è il verosimile, che può esser vero e falso, ma suole esser più tosto vero, non essendo ragionevole in modo alcuno che il verisimile sia più tosto falso, dal quale è molto dissimile; percioché ove è dissimilitudine, non può essere identità, per così dire; ma le cose somiglianti possono esser l'istesse, se non nella sostanza, almeno nella qualità. Dunque poco meno errò monsignor Alessandro Piccolomini, volendo che il soggetto del poema sia più tosto il falso che il vero. E in questo medesimo errore, s'io non m'inganno, è il signor Iacomo Mazzone, de le cui opere ho a pena veduta alcuna parte, ma dapoi ch'io ebbi scritte le cose antecedenti e alcune de le seguenti in questo libro e gli altri libri che seguono; talch'io sono stato costretto d'aggiungerne alcune altre per confermar la mia opinione. Scrive il Mazzone, ne l'introduzione della Difesa di Dante, che l'imitazione è di due maniere, l'una icastica, l'altra fantastica, seguendo in ciò la dottrina insegnataci da Platone nel Soffista; e chiama icastica quella ch'imita le cose che si trovano o si sono trovate, fantastica l'altra specie ch'è imitatrice de le cose che non sono; e questa vuol sia la perfetta poesia, la qual ripone sotto la facoltà sofistica, di cui è soggetto il falso e quel che non è. Ma per consolare i poeti, e me con gli altri, a cui fa più d'aiuto e di consolazione mestieri, fa due o tre specie d'arte sofistica, e ripone la poesia sotto la prima specie, ch'è la più antica; e questa, s'io non m'inganno, è quella medesima ch'è in tanti luoghi rifiutata da Socrate e da Platone. Però io non posso concedere né che la poesia si metta sotto l'arte de' sofisti, né che la perfettissima specie di poesia sia la fantastica. Quantunque io le concedessi che la poesia fosse facitrice degli idoli, come la sofistica, e non solamente degli idoli, ma degli iddii (poich’a la sovrana lode de' poeti si conviene il deificare e il riporre i principi giusti e valorosi nel numero degli immortali, e agli immortali secoli consecrar la lor memoria), non gli concederei nondimeno che fosse la medesima l'arte de' sofisti e quella de' poeti. Dico adunque che senza dubbio la poesia è collocata in ordine sotto la dialettica insieme con la retorica, la qual, come dice Aristotele, è l'altro rampollo de la dialettica facultà, a cui s'appartiene di considerare non il falso, ma il probabile; laonde tratta del falso, non in quanto egli è falso, ma in quanto è probabile. Ma il probabile, in quanto egli è verisimile, appertiene al poeta, percioch’il poeta usa le prove men efficacemente che non fa il dialettico; anzi l'imitazione e l'essempio e la comparazione sono debolissime maniere di prove, come c'insegna Boezio ne la sua Topica; ma 'l sofista, per giudizio d'Aristotele pur ne' libri de la sua Topica, non considera il probabile, ma il probabile apparente, cioè quello che non è veramente probabile, ma par ad alcuni probabile; del quale Alessandro Afrodiseo ne' suoi Comenti adduce alcuni essempi. È dunque il sofista in ciò differente non solamente dal dialettico, ma dal poeta ancora, percioché quello che per sé è probabile, quello è verisimile. E perché ’l poeta, come ancora il dialettico, è diverso dal sofista più tosto per elezione che per facoltà, quinci aviene che ’l buon poeta si dee affaticare più volentieri di ciascuno altro intorno a soggetti per sé probabili, come fece Omero, il qual ne la persona d’Ettorre volle dimostrarci che lodevolissima cosa sia il difender la patria, e in quella d’Achille che sia lodevolissima la vendetta, e da magnanimi, e per conseguente giusta e favoreggiata dagli dei. Le quali opinioni, essendo senza fallo per sé probabili, son verisimili, e per l’artificio d’Omero divennero probabilissime e provatissime e similissime al vero. O direi che la poesia non fosse disposta sotto la dialettica, ma sotto la logica più tosto, la qual contiene tre parti, la dimostrativa, la probabile e l’apparente probabile, ch’è la sofistica : peroch’il poeta in alcune cose dimostra, come fecero Parmenide ed Empedocle tra gli antichi Greci, Lucrezio e Boecio fra’ Latini, Dante fra’ Toscani ; in alcune altre sillogizza probabilmente, il che fa più spesso, perch’in questa parte s’impiega propiamente il suo officio ; in alcune usa il paralogismo, il che fa più di rado. E se ciò è vero, la latitudine de la poesia è quanto quella de la logica, e ha tre parti subordinate e corrispondenti a le tre superiori de la logica : alcune volte dimostrando co’ filosofi e usando il filosofema ; altre seguendo il verisimile e servendosi de l’essempio e de l’entimema, come fecero Omero e Vergilio ; e altre volte, come il sofista, s’appiglia a l’apparente probabile, e con l’equivoco e con l’altre maniere de’ fallaci argomenti, i quali consistono ne le parole e ne le cose, prende gli auditori del suo piacere ; e questo sofistico artificio fu usato da’ poeti toscani ne l’amorose poesie più che da alcuno altro, e forse da molti non se n’avedendo. Nondimeno la perfettissima imitazione, o la propissima specie de la poesia, non si ripone sotto la sofistica, o nuova o antica ch’ella sia, ma sotto la dialettica. Molto meno è vero quel che dice il Mazzone, che la perfettissima poesia è la fantastica imitazione ; perché sì fatta imitazione è de le cose che non sono e non furono giamai ; ma la perfettissima poesia imita le cose che sono, che furono o che possono essere, come fu la guerra di Troia, e l’ira d’Achille, e la pietà d’Enea, e le battaglie fra Troiani e Latini, e l’altre che furono o possono essersi fatte. Ma i Centauri, l’Arpie e i Ciclopi non sono adeguato o principal subietto de la poesia, né i cavalli volanti e gli altri mostri de’ quali son piene le favole di romanzi. Ma perch’il poeta, per sentenza d’Aristotele, imita le cose o com’elle sono, o come possibili, o come è fama ch’elle siano, o come son credute, il principale soggetto del poeta è quel ch’è, o quel che può essere, o quel che si crede, o quel che si narra ; o tutte queste cose insieme, come piacque ad Aristotele, potendo essere imitate dal poeta, sono il soggetto adeguato de la poesia. Sotto questa una considerazione di verisimile non è dunque un solo di questi membri il soggetto adeguato de la poesia, come stima il Mazzone, né quella ragione dimostra : la poesia è facitrice degli idoli, la sofistica è facitrice degli idoli, adunque la poesia è sofistica ; non solo perché ne la seconda figura del sillogismo le due affirmative proposizioni sono viziose, ma ancora perch’il nome degli idoli riceve alcuna distinzione e, secondo ch’egli è variamente deffinito, così appertiene al poeta o al sofista il formar gli idoli. Diffinì Favorino gli idoli (come referisce l’istesso Mazzone) una similitudine ombrosa e una cosa finta, che veramente non è, una forma che non ha sussistenza, come le forme ch’appaiono ne l'acque e negli specchi ; e deriva dal verbo εἴδω, che vuol dire «appaio» e «rassomiglio». Ma gli idoli, come gli difinisce Suida, sono effigie di cose non sussistenti, quali sono i Tritoni e le Sfingi e i Centauri; e le similitudini sono imagini di cose sussistenti, come di fiere e d’uomini. Isichio, dichiarando con altra voce i sentimenti del nome idolo, disse : «Idolo è imagine e similitudine e segno», quasi egli sia de le cose che sono e di quelle che non sono, come parve ancora ad Ammonio e a Platone medesimo. Quando diciamo adunque il sofista è facitor degli idoli, intendiamo degli idoli che sono imagini di cose non sussistenti, perch’il subietto del sofista è quel che non è ; e in questa significazione disse san Paulo : Idolum nihil est. Ma quando affermiamo che ’l poeta sia fattor degli idoli, non intendiamo solamente degli idoli de le cose non sussistenti, perché il poeta imita ancora le sussistenti, e principalmente le rassomiglia. Laonde, quantunque il poeta sia facitor degli idoli, ciò non si dee intendere ne l’istesso significato nel qual si dice ch’il sofista è fabro degli idoli, ma debbiam dir più tosto che sia facitore de l'imagini a guisa d’un parlante pittore, e in ciò simile al divino teologo, che forma l’imagini e comanda che si facciano. E se la dialettica e la metafisica, la qual fu la divina filosofia de’ gentili, hanno tanto conformità che furono dagli antichi tenute l’istessa, non è maraviglia che ’l poeta sia quasi il medesimo ch’è il teologo e il dialettico. Ma la divina filosofia, o la teologia che vogliam dirla, ha due parti, e ciascuna di loro è convenevole e propia ad una parte de l’animo nostro composto del partibile e de l'impartibile, non solo per sentenzia di Platone e d’Aristotele, ma de l’Areopagita, il quale scrisse ne l’epistole a Tito pontefice, ne la Mistica teologia e altrove, che quella parte de la teologia più occulta, la quale è contenuta ne’ segni e ha virtù di far perfetto, si conviene a la parte de l’animo nostro indivisibile, ch’è il simplicissimo intelletto. L’altra, studiosa di sapienza, la qual dimostra, attribuisce a la parte de l’animo divisibile, molto men nobile de l’indivisibile. Laonde il conducere a la contemplazione de le cose divine e il destare in questa guisa con l’imagini, come fa il teologo mistico e il poeta, è molto più nobile operazione che l’ammaestrar con le dimostrazioni, com’è ufficio del teologo scolastico. Il teologo mistico adunque e il poeta sono oltre tutti gli altri nobilissimi, quantunque san Tomaso ne la prima parte de la Somma riponesse la poesia ne l’infimo genere de la dottrina ; ma egli intese di quella parte de la poesia ch’insegna con prove assai deboli, quali sono gli essempi e le comparazioni usate per dimostrare; tutta volta non la collocò sotto l’arte de’ sofisti, che non è dottrina, ma inganno d’apparenzia e arte simile a quella de’ prestigitatori. Dunque il poeta facitor de l’imagini non è fantastico imitatore, come parve al Mazzone, e dopo lui a don Gregorio Comanino, canonico regolare, benché l’uno sia fornito di gran dottrina, l’altro di grande eloquenza, anzi ambedue dotati d’ambedue, e miei amici parimente. Ma se l’imagini sono di cose sussistenti, questa imitazione appertiene a l’icastico imitatore. Ma quali cose direm noi che siano le sussistenti? le inteligibili o le visibili ? Le intelligibili veramente, e per giudicio ancora di Platone, il quale ripose le cose visibili nel genere del non ente, e solamente le intellegibili pose nel genere degli enti. Dunque l’imagini degli angeli, descritte da Dionigi, sono di cose più di tutte l’umane sussistenti; e ’l leone alato ancora, e l’aquila e ’l bue e l’angelo, che sono imagini degli evangelisti, non appertengono dunque a la fantasia principalmente, né sono suo propio obietto, perché la fantasia è ne la parte divisibile de l’animo, non ne l’indivisibile, la quale è simplicissimo intelletto; se oltre la fantasia, ch’è virtù de l’anima sensitiva, non se ne trovasse un’altra che fosse virtù de l’intellitiva. Il che pare assai convenevole, perché la fantasia fra' Greci fu cosi detta dal lume (e ciò si legge nel libro De placitis philosophorum scritto da Plutarco), sì come quella potenza la quale è simile al lume ne l’illustrar le cose e nel dimostrar se medesima ; e ciò si conviene più tosto a la fantasia intellettuale. Ma questa, quantunque sia posta da’ nostri teologi e da’ platonici filosofi, non fu conosciuta o non fu conceduta da Aristotele, né da Platone nel Sofista; altrimente egli non distinguerebbe l’icastica imitazione da la fantastica, potendo l’icastica convenire ancora a la imaginazione intellettuale. E di lei intese peraventura Dante quando egli disse :

A l’alta fantasia mancò qui possa;

e altrove :

Poi piovve dentro a l’alta fantasia
un crocifìsso dispettoso e fiero.

È dunque il poeta, benché sia facitore de l’imagini, più tosto simile al dialettico e al teologo ch’al sofista ; anzi non solo fra gli antichi, per aviso d’Aristotele, i poeti e i teologi furono i medesimi, come Lino, Orfeo, Museo, ma fra’ moderni ancora, come scrive il Boccaccio ne la Vita di Dante ; e però la sua imitazione è più tosto icastica che fantastica ; e se pur fu operazione de la fantasia, intendasi d’una imaginazione intellettuale ; ma non si può contradistinguere da l’icastica. Con un’altra ragione possiam provare che ’l soggetto del poeta sia più tosto il vero che ’l falso; la quale è derivata da la dottrina di san Tomaso nella Somma e in altre opere sue. Dice egli ch’il bene e ’l vero e l’uno si convertono, e che ’l vero è bene de l’intelletto ; oltre acciò vuole ch’il male non sia natura ; laonde, non essendo in qualche natura, è fondato in qualche bene o in qualche cosa buona, perché non si trova alcuna cosa rea e mala del tutto. In questa medesima guisa ogni moltitudine è fondata sovra l’unità, né v’è alcuna multitudine che non participi de l’unità ; e ogni falsità si fonda su la verità ; però quel ch’è in tutto falso, non può essere subietto de la poesia, anzi non è. Esiodo, antichissimo poeta greco, nella Genealogia de gli dei, scrisse che le Muse sanno dir molte bugie simili alla verità, e sanno, se vogliono, dir il vero ; ma assolutamente le chiama figliuole di Giove, e veridiche, come si legge in quei versi:

«Ποιμένες ἄγραυλοι, κάκʾἐλέγχεα, γαστέρες οἶον,
ἴδμεν ψεύδεα πολλὰ λέγειν ἐτύμοισιν ὁμοῖα,
ἴδμεν δʾ, εὐτʾἐζέλωμεν, ἀληζέα μυζήσασζαι».
Ὥς ἔφασαν κοῦραι μεγάλου Διὸς ἀρτιέπειαι.

Laonde io concluderei che questa fosse un’arte o ver facoltà di dire il vero e il falso, ma ’l vero principalmente. Tra gli scrittori sacri Atanasio non ha diversa opinione da quella ch’io stimo migliore, però ch’egli, scrivendo contro gentili, i quali estimavano che fosse proprio del poeta il finger quel che non è, dimostra il contrario, e il prova con l’essempio de’ poeti, i quali dissero le bugie, ma più de gli dii che degli uomini, perché, scrivendo delle umane azioni, non furono in tutto bugiardi ; e adduce l’autorità di Omero medesimo, il quale, se di tutte le cose avesse scritto il falso, avrebbe attribuita ad Achille la timidità, e la fortezza a Tersite. Dunque il poeta in qualche parte è amico della verità, la quale illustra e abbellisce di nuovi colori, e si può dire che di vecchia e d'antica la faccia nuova ; e nuovo sarà il poema in cui nuova sarà la testura de’ nodi, nuove le soluzioni, nuovi gli episodii che per entro vi sono traposti, quantunque la materia fosse notissima e da gli altri prima trattata : perché la novità del poema si considera più tosto alla forma che alla materia. All’incontro non potrà dirsi nuovo quel poema in cui finti siano i nomi e le persone, ma dove il poeta faccia il nodo e lo scioglimento fatto da gli altri ; e tale è pera ventura alcuna moderna tragedia, a cui manca l’autorità che porta seco l’istoria e la fama, e la novità della finzione. E s’io non sono errato, è soggetto a questa opposizione l’Avarchide, poema epico dell’Alamanno, perché, quantunque la favola non sia nota, è quell’istessa dell'Iliade d’Omero, laonde non merita gran lode nell’invenzione, e resta ancora privata di quella autorità che suol essere nell’istorie o nella fama ; non se ne vede nondimeno alcun’altra meglio tessuta, e, per mio giudizio, è la più perfetta che si legga in questa lingua.

[4] Comunque sia, l’argumento dell’eccellentissimo epico dee fondarsi nell’istorie ; ma l’istoria o è di falsa religione o di vera. Né giudico che l’azione de’ gentili ci diano soggetto attissimo del quale si formi il poema epico, perché ne' poemi si fatti o vogliamo ricorrere alle deità che da’ gentili erano adorate, o non vogliamo ; se non vi ricorriamo, manca il maraviglioso; se ci rivolgiamo a quelle medesime che furono invocate da gli antichi, in quella parte è privo del verisimile e del credibile, o non l’ha per virtù della favola e dell’imitazione, ma del verso e de gli altri ornamenti ; perché, come dice Pindaro nell’istesso luogo,

Χάρις δʾ, ἃπερ ἃπαντα τεύ
Χει τὰ μείλιχα ζνατοῖς,
ἐπιφέροισα τιμάν
καί ἄπιστον ἐμήσατο πιστόν
ἔμμεναι τὸ πολλάκις.

Ma, s’io non m’inganno, Pindaro intende di quella grazia e di quella venustà de’ poeti della quale intese ancora Isocrate nell'Evagora, e Aristide dopo lui, lodando la rettorica: di quella, dico, che s’acquista con le misure del verso e co’ numeri, e che, dissolvendosi co’ medesimi, si perderebbe. Noi cerchiamo una persuasione e una forza che nella prosa faccia ancora il medesimo effetto, e diletti similmente come, per mio aviso, dilettarebbono quelle maraviglie che muovono non solamente gli animi de gli ignoranti, ma de’ giudiziosi ancora : parlo de gli anelli incantati, de’ corsieri volanti, delle navi converse in ninfe e di quelle larve che s’interpongono nella battaglia, dell’ardente spada, della ghirlanda de’ fiori, della camera difesa, dell’arco de' leali amanti e d’altre invenzioni che piacciono ancora nella prosa e si leggono volentieri e si rileggono senza la grazia del verso. Ma se questi miracoli, o prodigi più tosto, non possono esser fatti da virtù naturale, è necessario che la cagione sia qualche virtù sopranaturale o qualche potenza diabolica ; e rivolgendoci alle deità de’ gentili, cessa in gran parte il verisimile, o il probabile o il credibile che vogliamo dir più tosto, se pur sono il medesimo nel subietto; perché non è l’istesso, per giudizio d’Aristotele nel primo della Topica, il probabile e quello che pare probabile; anzi niuna di quelle cose che paiono probabili a prima vista ed estrinsecamente, è in tutto probabile. Veramente probabile, per opinione d’Alessandro suo commentatore, è che gli dii possano tutte le cose ; ma non è vero, e s’ingannò Alessandro se egli intese de’ falsi dei che furono adorati dalla Grecia. Oltre a ciò il medesimo Aristotele c’insegna nell’ottavo della Topica che non è il medesimo quel che in tutto è probabile e quel che è probabile ad alcuno solamente. Non è probabile in tutto che gl’idoli abbiano tanta potenza, ma fu probabile a que’ miseri, i quali, come dice Atanasio, non adoravano l’artefice, ma l’artificio, non lo scoltore, ma la statua. Non è probabile semplicemente quel che fu probabile al gentile, né quel che al gentile pareva verisimile, par verisimile a ciascuno : non è verisimile, non è credibile al cristiano quel che è creduto dall’idolatra ; e se credibile, come dice Aristotele nella Poetica, è quello che si può fare, quello che non si può fare non è credibile; e parimente non è credibile che da loro sia fatto quello che da loro non può esser fatto giamai. Quanto dunque il meraviglioso che portano seco i Giovi e gli Apollini sia scompagnato da ogni probabilità, da ogni verisimilitudine, da ogni credenza, da ogni grazia e da ogni autorità, ciascuno di mediocre giudizio se ne potrà facilmente avvedere leggendo i moderni scrittori ; ma ne’ poeti antichi queste cose deono esser lette con altra considerazione e quasi con altro gusto, non solo come ricevute dal volgo, ma come approvate da quella religione, qualunque ella fosse. Laonde senza alcuna ragione il Robertello biasma la bellissima favola e la dottissima allegoria del ramo d’oro, ma la vitupera come cosa impossibile ; e se quello ch’è impossibile per natura fosse impossibile ancora a gli dii, come volle Alessandro, buona sarebbe l’opinione del Robertello ; ma se a gli dei niuna cosa è impossibile, non dee questa maraviglia esser riputata più impossibile dell’altre, né merita maggior riprensione del vello d’oro o de’ pomi d’oro, de’ quali si favoleggia in tante poesie con tanta lode de’ favoleggiatori e con tanto diletto de’ lettori; peroché queste cose ancora da’ fisici sarebbono riputate impossibili ; ma a’ teologi de' gentili non parvero tali : essi diedero a’ poeti questo ardire e questa licenza di fingere ; anzi i teologi e i poeti antichi furono i medesimi, come dice Aristotele nella sua Metafisica, la quale non considerò molto il Robertello, perché ivi avrebbe letto quel che i teologi scrivessero dell’ambrosia e dell’altre cose riprese da lui, le quali egli non riprende come cristiano teologo, a cui solo questo officio si converrebbe, ma come critico de’ gentili poeti. Potea parimente ricercare nel Filebo di Platone e ne gli altri suoi dialogi e ne’ commenti del Ficino la buona interpretazione delle cose non bene intese. Non merita maggior biasimo la conversione delle navi, perché se Iddio può creare ex non entibus, vel ex non existentibus, come dicono i teologi, molto più agevolmente potrà ciò fare ex praesistenti materia. Concedasi dunque a Virgilio l’aver attribuito a quel suo Giove, che era il maggior dio ch’avessero i gentili, questa maravigliosa potenza del trasmutare la materia d’una in un'altra forma. Concederei ancora che fosse probabile a’ nostri poeti che molte cose meravigliose e prodigiose fossero fatte con arte diabolica, perché tutti gli idoli delle genti sono diavoli ; ma non si dee concedere loro quella potenza ch’era attribuita a’ medesimi da’ gentili, da’ quali fumo adorati come dii e come benefattori. Replicherò in questo luogo quel che altre volte ho detto, cioè che l’eccellentissimo poema è proprio solamente della eccellentissima forma di governo. Questa è il regno ; ma il regno non può esser ottimamente governato con falsa religione. Conviene adunque all’ottimo regno la vera religione ; e ove sia falsa pietà e falso culto d’iddio, non può essere alcuna perfezione nel principe o nel principato. Però i poemi ancora participano dell’istessa imperfezione ; ma il difetto non è dell’arte poetica, ma della politica, non del poeta, ma de’ legislatori. Conchiudiamo dunque che non si debba lodare alcun poema soverchiamente prodigioso, accioché i magi e negromanti siano introdutti con qualche verisimilitudine nel poema. Ma nel suo luogo sarà considerato quel che sia τὸ δυνατόν che ricerca Aristotele nel κατὰ τὸ εἰκός to eikosvelκατὰ τὸ ἀναγκαῖον,perché io non intendo il necessario come intende il Robertello.

[5] Ma ora seguiamo il nostro proposito, come il verisimile possa esser congiunto co ’l meraviglioso senza la grazia ancora e senza la venustà de’ versi, che sono quasi lusinghe da persuadere a gli orecchi. Diversissime sono, illustrissimo Signore, queste due nature, il meraviglioso e ’l verisimile, e in guisa diverse che sono quasi contrarie fra loro; nondimeno l’una e l’altra nel poema è necessaria, ma fa mestieri che arte di eccellente poeta sia quella ch’insieme l’accoppi; il che, se ben è stato sin ora fatto da molti, niuno è (che io mi sappia) il quale insegni come si faccia; anzi alcuni uomini di somma dottrina, veggendo la ripugnanza di queste due nature, hanno giudicato quella parte ch'è verisimile ne' poemi non essere maravigliosa, né quella che è maravigliosa verisimile, ma che nondimeno, essendo ambedue necessarie, si debba or seguire il verisimile, ora il maraviglioso, di maniera che l’una all’altra non ceda, ma l’una dall’altra sia temperata. Ma io questa opinione non approvo, né stimo che parte alcuna debba nel poema ritrovarsi che non sia vensimile; e la ragione che mi muove a così credere è tale. La poesia non è altro che imitazione (e questo non si può chiamare in dubbio); e l’imitazione non può essere discompagnata dal verisimile, perché l’imitare non è altro che il rassomigliare; non può dunque parte alcuna di poesia esser separata dal verisimile; e in somma il verisimile non è una di quelle condizioni richieste nella poesia per maggior sua bellezza e ornamento, ma è propria e intrinseca dell’essenza sua, e in ogni sua parte sovra ogn’altra cosa necessaria. Ma benché io stringa il poeta epico ad un obligo perpetuo di servare il verisimile, non però escludo da lui l’altra parte, cioè il meraviglioso; anzi giudico che un’azione medesima possa essere e meravigliosa e verisimile; e molti credo che siano i modi di congiungere insieme queste qualità così discordanti; e rimettendo gli altri a quella parte ove della testura della favola si tratterà, la quale è lor proprio luogo, qui parleremo di quello che più si conviene a questa materia.

[6] Attribuisca il poeta alcune operazioni, che di gran lunga eccedono il poter de gli uomini, a Dio, a gli angioli suoi, a’ demoni o a coloro a’ quali da Dio o da’ demoni è conceduta potestà, quali sono i santi, i magi e le fate. Queste opere, se per se stesse saranno considerate, meravigliose parranno, anzi miracoli sono chiamati nel commune uso di parlare. Queste medesime, se si averà riguardo alla virtù e alla potenza di chi l’ha operate, verisimili saranno giudicate, perché, avendo gli uomini nostri bevuta nelle fasce insieme col latte questa opinione, ed essendo poi in loro confermata da i maestri della nostra santa fede (cioè che Dio e i suoi ministri e i demoni e i magi, permettendolo Lui, possano far cose sovra le forze della natura meravigliose),e leggendo e sentendo ogni dì ricordarne nuovi essempi, non parrà loro fuori del verisimile quello che credono non solo esser possibile, ma stimano spesse fiate esser avvenuto e poter di nuovo molte volte avvenire. Sì come anco a quegli antichi, che vivevano ne gli errori della lor vana religione, non deveano parer impossibili que’ miracoli che de’ lor dei favoleggiavano non solo i poeti, ma l’istorie; perché, se pur gli uomini scienziati gli prestavano picciola credenza, basta al poeta in questo, com’in molte altre cose, la opinion della moltitudine, alla quale molte volte, lasciando l’essatta verità delle cose, e suole e dee attenersi. Può esser dunque una medesima azione e meravigliosa e verisimile : meravigliosa riguardandola in se stessa e circonscritta dentro a i termini naturali, verisimile considerandola divisa da questi termini, nella sua cagione, la quale è una virtù sopranaturale, possente e usata a far simili meraviglie. Ma di questo modo di congiungere il verisimile col meraviglioso privi sono que’ poemi ne’ quali s’introducono le deità de’ gentili, come l'Ercole del Geraldo e ’l Constante del Bolognetto; né senza molta sconvenevolezza mi pare che introducea il Bolognetto Giove, iddio delle genti, a predire, come amico e benevolo, la grandezza de’ pontefici romani, perché prediceva per conseguenza la destruzione de gli idoli suoi e de’ tempi e de gli altari e de’ molti sacrifici; e, quel che è peggio, la predizione è fatta a Venere, non s’accorgendo il poeta che niun aspetto e niuna congiunzione di Giove con Venere, niuna genealogia de gli dei, niuna favola, niuna istoria faceva tolerabili queste cose nel suo poema; le quali in Virgilio sono meravigliose per l’opinione avuta da’ Romani d’esser discesi da Enea, figliuolo di Venere e d’Anchise, e particolarmente da Giulio Cesare e dalla gente Iulia, della quale Iulo, figliuolo di Enea, era stato progenitore. Per tutte queste cagioni le poesie di Virgilio son degne di tanta laude quanta può darsi a poeta di quella età nella quale egli scrisse. Oltre a ciò, chi vuol formare l’idea d’un perfetto cavaliere, non so per qual cagione gli nieghi questa lode di pietà e di religione. Laonde proporrei di gran lunga la persona di Carlo e d’Artù a quella di Teseo e di Giasone. Ultimamente, dovendo il poeta aver molto riguardo al giovamento, molto meglio accenderà l’animo de' nostri cavalieri con l’essempio de’ fideli che de gli infideli, movendo sempre più l’autorità de’ simili che de’ non simili, e de’ domestici che degli stranieri. E se noi consideriamo il Panegirico d’Isocrate, conosceremo di leggieri la cagione per la quale la poesia d’Omero fosse tanto cara a’ popoli della Grecia ne’ suoi tempi: e quest’altra non fu che la inimicizia antichissima tra Greci e barbari, per la quale più volentieri dell’altre cose erano lette le vittorie de’ Greci e cantate ne gli inni; ma per le morti de’ medesimi si fecero i lamenti e l’altre poesie sì fatte. Per queste cagioni medesime a i nostri tempi le vittorie de’ fideli contro gli infideli porgeranno gratissimo e nobilissimo argumento di poetare.

[7] Dee dunque l’argumento del poema epico esser derivato da vera istoria e da non falsa religione. Ma l’istorie e le scritture sono sacre o non sacre; e delle sacre alcune hanno maggiore, altre minore autorità: maggior autorità hanno l’ecclesiastiche e le spirituali, se così è lecito il dire, perché tutte le cose spirituali son sacre, come parve a san Tomaso, ma non tutte le sacre spirituali; l’altre senza fallo sono meno autorevoli. Nelle istorie della prima qualità a pena ardisca il poeta di stender la mano; ma si possono lasciare nella pura e semplice verità, perché non si fa fatica alcuna nel trovare, e a pena par ch’il fingere ivi sia lecito; e chi non fingesse e non imitasse, obligandosi a que’ particolari medesimi che ivi sono contenuti, poeta non sarebbe, ma più tosto istorico.

[8] In queste medesime istorie si può fare un’altra distinzione: perché o contengono avenimenti de’ nostri tempi, o de’ tempi remotissimi, o cose non molto moderne né molto antiche. L’istoria di secolo o di nazione lontanissima pare per alcuna ragione soggetto assai conveniente al poema eroico, peroché, essendo quelle cose in guisa sepolte nell’antichità ch’a pena ne rimane debole e oscura memoria, può il poeta mutarle e rimutarle e narrarle come gli piace. Ma con questo commodo è un incommodo pera ventura, e non picciolo, perché insieme con l’antichità de’ tempi è quasi necessario che s’introduca nel poema l’antichità de’ costumi; ma quella maniera di guerreggiare usata da gli antichi, i conviti, le ceremonie e l’altre usanze di quel remotissimo secolo paiono alcuna volta a' nostri uomini noiose e rincrescevoli anzi che no, come aviene ad alcuni idioti che leggono i divinissimi libri d’Omero trasportati in altra lingua. E di ciò in buona parte è cagione l’antichità de’ costumi, la quale da coloro c’hanno avezzo il gusto alla gentilezza e al decoro di questa età è schivata come cosa vieta e rancida. Ma chi volesse con l’antichità de’ secoli descriver l’usanze moderne, potrebbe torsi parere simile alcuna volta a poco giudizioso pittore che ci mostrasse l’imagine di Catone o di Cincinnato vestito secondo le foggie della gioventù milanese o napolitana, o, togliendo ad Ercole la clava e la pelle del leone, l’adomasse di sopraveste e di cimiero, come fece il Giraldo nel suo poema, ma non senza grande essempio, perché prima Esiodo avea descritte l’arme e lo scudo di Ercole quasi gareggiando con Omero, e la battaglia fatta da lui con Cigno, figliuolo di Marte.

[9] Portano l’istorie moderne gran comodità e molta convenevolezza in questa parte de’ costumi e delle usanze, ma togliono quasi in tutto la licenza di fingere e d’imitare, la quale è necessariissima a’ poeti, particolarmente a gli epici. Oltre a ciò, per un'altra ragione par che nieghi Aristotele al poeta tragico l’argumento delle cose moderne: perché la tragedia è imitazione di uomini più eccellenti che non sono i moderni; e per l'istessa ragione non deono le cose presenti, o quelle che sono passate di poco tempo, esser soggetto del poema eroico. Ma nell’azioni di Carlo Quinto dee esser più tosto considerata la prima ragione, o le prime, avenga che troppo ardito parrebbe colui che volesse descriverle altrimenti di quello che molti sanno esser avvenute, o per se medesimi o per certe relazioni de gli avi o de’ padri, che ne sono informati. Oltre a ciò, l’azioni di Carlo sono state così grandi e così laudevoli, anzi cosi meravigliose c’hanno più tosto tolta che data a’ poeti l’occasione d'accrescerle. Ma non si dee trapassare in questo luogo senza considerare quel che scrive Isocrate nell'Evagora : «Sarebbe dunque officio de gli altri il lodar gli uomini eccellenti della sua età, acciò che coloro i quali possono ornar con le parole gli egregi fatti de gli antichi, dicessero il vero a gli altri i quali hanno notizia delle cose, e incitassero i giovani con maggior emulazione della virtù, sapendo di dover esser più lodati di quelli antichi, la cui virtù hanno superata. Ora chi non perde l’animo veggendo coloro i quali vissero nella guerra troiana, o avanti quel tempo, esser celebrati con divine laudi, e le cose fatte da loro messe inanzi a gli occhi per spettacolo della tragedia, e sappia, benché avanzasse la virtù di quegl’istessi, di non dover mai essere stimato degno di laude somigliante? Il che si dovrebbe imputare all’invidia». Ma delle cose ch’egli poi soggiunge si raccoglie che ’ fatti de gli uomini presenti, o vicini alla nostra memoria, possono esser trattati da gli oratori, benché cedano in molte cose a’ poeti : intendeva nondimeno, per mio aviso, delli scrittori de’ panegirici e dell’ode che solevano cantarsi, fra’ quali fu Pindaro; perché, degli epici e de' tragici parlando, manifestò la sua opinione assai chiaramente nel Panatenaico, quando egli disse che Agamennone, dopo le cose fatte da lui e l’essempio lasciato a gli altri, era defraudato della gloria per colpa di coloro che prepongono i portenti a’ benefizii e la bugia alla verità ; e, per mio aviso, intende Isocrate delle cose mirabili fatte da Achille con molto favor di Giove e con poca riputazione d’Agamennone, divenuto supplichevole ad un giovane adirato. Si può a queste cose aggiungere l'autorità d’Aristotele ne’ Problemi, e la ragione che egli adduce perché ci piaccia più la narrazione delle cose non troppo nuove né troppo vecchie ; la quale è questa : che noi diffidiamo delle cose troppo lontane, ma non possiamo aver diletto di quelle nelle quali non abbiamo fede ; ma l’altre che sono troppo nuove pare che ancora le sentiamo, però n’abbiamo minor diletto.

[10] Tutte queste condizioni, illustrissimo Signore, si richiedono nella materia nuda o informe, ma non però in guisa che, mancandogliene una, ella divenga inabile a ricever la forma del poema eroico. Ciascuna per sé sola fa qualche effetto, chi più e chi meno, ma tutte insieme tanto rilevano che senz’esse non sarebbe capace di perfezione. Ma oltre queste, richieste nel poema per maggior eccellenza, una n’addurrò semplicemente necessaria, come si può raccorre dalla sua definizione: quest’è che l’azione che dee venire sotto l’artificio dell’epico sia nobile e illustre e abbia grandezza; e non altra differenza è quella la quale costituisce la forma dell’epopeia. Convengono in ciò la poesia eroica e la tragica, ma sono differenti dalla comedia, ch’è imitatrice delle basse e popolaresche azioni. Ma communemente si crede che la tragedia e l’epopeia non siano differenti fra loro nelle cose imitate, imitando l’una e l’altra parimente l’azioni grandi e illustri, ma che la differenza fra loro nasca dalla diversità del modo ; è dunque necessario che ciò più minutamente si consideri.

[11] Costituisce Aristotele nella sua Poetica tre differenze essenziali e specifiche per le quali un poema dall’altro si separa e si distingue, e con poche parole sono da lui espresse in questa guisa: ἢ γὰρ τῷ γένει ἑτέροις μιμεῖσζαι, ἢ τῷ ἕτερα, ἢ τῷ ἑτέρως καὶ μὴ τὸν αὐτὸν τρόπον le quali significano nella nostra lingua: «imitano o con le cose diverse di genere, o cose diverse, o in modo diverso». Le cose imitate sono l’azioni. Il modo è il narrare o il representare: narrare si dice quello nel quale appare la persona del poeta, rappresentare ove è occulta quella del poeta e si manifesta quella delli istrioni; e l’uno si dice da’ Greci δι᾿ἀπαγγελιαν, l’altro di questi modi è detto drammatico. Le cose con le quali s’imita, cioè l’instrumenti dell’imitazione, sono il parlare, il ritmo e l’armonia: parlare è la composizione di molte parole significatrici de’ nostri concetti secondo il nostro compiacimento; l’armonia si può difhnire una concordia di voci discordi; per il ritmo intendo la misura de’ movimenti e di gesti che fanno gli istrioni. Poi che Aristotele ha poste le tre differenze essenziali, dice che la tragedia è simile alla comedia nel modo dell'imitare e nelle cose con le quali imitano, peroché l’una e l’altra rappresenta, e ambedue, oltre il verso, si vagliono del ritmo e dell’armonia; ma quel che le fa differenti di natura è la diversità delle cose imitate, perché la comedia imita gli umili, la tragedia uomini più eccellenti ch’oggi non sono. L'epopeia è poi conforme alla tragedia in quello in che la comedia è dissimile, ma le fa differenti il modo : narra l’epico, rappresenta il tragico ; e narra il primo μόνον τοῖς λόγοις ψιλοῖς ἢ τοῖς μέτροις, cioè col parlar nudo e non condito, e co' versi ; il tragico, oltre il verso, usa il ritmo e l’armonia, ch’è quasi condimento delle parole.

[12] Con queste cose dette d’Aristotele brevemente, ma con quella oscura brevità ch’è propria di lui, è stato creduto il tragico e l’epico in tutto conformarsi nelle cose imitate; la qual opinione, benché commune e universale, si può nondimeno considerare più esquisitamente. Se l’azioni epiche e tragiche fossero dell’istessa natura, produrrebbono gli istessi effetti, peroché dalle medesime cagioni sono derivati gli effetti medesimi; ma producendo diverse passioni, ne seguita che diversa sia la natura. Muovono l’azioni tragiche l’orrore e la compassione, e dove manchi il miserabile e lo spaventoso, non sono più tragiche. Ma gli epici non sogliono nell’istesso modo contristar gli animi, né questa condizione in loro si richiede come necessaria; imperoché dice Aristotele che il rallegrarsi della pena delli scelerati, quantunque piaccia a gli spettatori, non è proprio della favola tragica, ma nell’eroica si loda senza fallo; e se talora ne’ poemi eroici si vede qualche caso orribile o compassionevole, non si cerca però l’orrore e la compassione in tutto il contesto della favola; nella quale ci rallegriamo della vittoria de gli amici e della perdita de' nemici, ma de’ nemici, come sono i barbari e gl’infideli, non si dee avere egualmente misericordia. Non è ancora illustre parimente l’azione del tragico e quella dell’epico, o quello illustre è quasi diverso di natura e di forma : l’uno consiste nella inaspettata e sùbita mutazione di fortuna, e nella grandezza de gli avvenimenti che muovono misericordia e terrore ; ma l’illustre dell’eroico è fondato sovra l’eccelsa virtù militare e sopra il magnanimo proponimento di morire, sovra la pietà, sovra la religione e sovra l’azioni nelle quali risplendono queste virtù, che sono proprie dell’epopeia e non convengono tanto nella tragedia. E quinci aviene che le persone le quali nell’uno e nell’altro poema s’introducono, non sono della medesima natura, quantunque siano de’ re e de’ prencipi grandi. Richiede la tragedia persone né buone né cattive, ma d’una condizione di mezzo : tale è Oreste, Elettra, Giocasta, Eteocle, Edippo la cui persona fu da Aristotele giudicata attissima alla favola tragica. L’epico all’incontro vuole il sommo delle virtù ; però le persone sono eroiche come è la virtù. Si ritrova in Enea l’eccellenza della pietà, della fortezza militare in Achille, della prudenza in Ulisse. E se alcuna volta il tragico e l’epico prendono per soggetto la persona medesima, è da loro considerata diversamente e con vari rispetti. Considera l’epico in Ercole, in Teseo, in Agamennone, in Aiace, in Pirro il valore e l’eccellenza dell’armi; gli risguarda il tragico come caduti per qualche errore nell’infelicità. Ricevono ancora gli epici non solo il colmo della virtù nelle persone da lor descritte, ma l’eccellenza del vizio con minor pericolo assai che i tragici non sono usi di fare. Tale è Mezenzio, Busiri, Procuste, Diomede, Tersite e gli altri somiglianti ; tali, o non molto diversi, sono Ciclopi e Lestrigoni, ne’ quali la ferità è in vece del vizio, ma molto più terribile del vizio e più spaventosa.

[13] Per le cose dette può esser manifesto che la differenza ch’è fra la tragedia e l’epopeia non nasce solamente dalla diversità de gl'instrumenti e del modo deH’imitare, ma prima dalla varietà delle cose imitate, la quale è molto più propria dell’altre, e d’Aristotele ancora è accennata in quelle parole: ὥστε τῇ μὲν ὁ αυτὸς αν εἴη μιμητὴς Ὁμήρω Σοφοκλῆς, μιμοῦνται γὰρ ἄμφω σπουδαίους perché se Omero in qualche modo non è diverso da Sofocle, imitando l’uno e l’altro gli uomini eccellenti, non ne segue però che sia affatto simile. Bastò ad Aristotele accennar questa differenza, perché l’altre due sono in guisa note che non lasciano luoco a dubbio alcuno. Ma quell’illustre ch’abbiamo detto esser proprio dell’eroico, può esser più o meno illustre : quanto la materia conterrà in sé avenimenti più nobili e più grandi, tanto sarà più disposta all’eccellentissima forma dell’epopeia. Però disse Aristotele ch’Omero oltre tutti gli altri fu eroico e, per cosi dire, principalmente eroico; e, mossi dalla sua autorità, alcuni portano opinione che l’amore non sia convenevol materia dell’eroico o del tragico, e dicono ch’egli in due poemi, dell'Iliade e dell'Odissea, a pena si ricorda d’amore. Il medesimo provano con l’autorità di Sofocle, il quale fra l'altre sue tragedie non ne scrisse pur una de soggetti amorosi. Questi medesimi non lodavano Virgilio, che avesse finto Didone inamorata d’Enea, riprendendoci del soverchio diletto con que’ versi del nostro poeta toscano :

Taccia il vulgo ignorante ! io dico Dido,
ch’amor pio del suo sposo a morte spinse,
non quel d’Enea, com’è publico grido.

Parea nondimeno a costoro che Virgilio fosse stato più ristretto e parco che non siamo noi altri, perché molte cose e’ poteva dire dell’amor d’Enea, molte di quello d’Iarba, molte di quello di Turno e di Lavinia, le quali da lui sono taciute o a pena accennate. Aggiungevano la ragione all’autorità, dicendo che l’uno e l’altro poema è gravissimo, laonde non pare ch’in lor si convenga l’amore in modo alcuno, avenga ch’egli sia passione di animo leggiero ; onde si legge :

Ei nacque d’ozio e di lascivia umana,
nudrito di pensier dolci e soavi,
fatto signore e dio da gente vana.

Assegnavano dunque l’amore più tosto alla comedia. Ma io fui sempre di contrario parere, parendomi ch’ai poema eroico fossero convenienti le cose bellissime ; ma bellissimo è l'amore, come stimò Fedro appresso Platone ; ma s’egli non fosse né bello né brutto, come fu più tosto giudizio di Diotima, non però conviene alle comedie, le quali dilettano con le cose brutte, e con quelle muovono a riso. Laonde la comedia vecchia dee esser peraventura più lodata, come credeva il Maggio, perché la nova ci ha depinto alcuna volta l’amore così bello che per poco non si poteva descrivere nel poema eroico con più be’ colori. Ma non si può negare che l’amor non sia passione propria de gli eroi, perché a duo affetti furono principalmente sottoposti, come stima Proclo, gran filosofo nella setta de’ platonici : all’ira e all’amore ; e se l’uno è convenevole nel poema eroico, l’altro non dee esser disdicevole in modo alcuno ; ma convenevolissima è l’ira per giudizio di tutti e d’Omero medesimo, il quale dall’ira d'Achille prese il soggetto del suo nobilissimo poema ; dunque l’amore è convenevole similmente, e amore fu quello d’Achille e di Patroclo, come parve a Platone. Laonde nell’istesso poema non solamente è descritta l’ira d'Achille contra Agamennone e contra Ettore e gli altri Troiani, ma l’amor suo verso Patroclo. Taccio di Criseida e di Briseida, benché quelli abbracciamenti amorosi non fussero senza amore ; ma l'amore non fu nobile, come disse il Petrarca :

Tu sai che il grande Atride e l’alto Achille,
.................
e di tutti il più chiaro
un altro e di virtute e di fortuna,
.................
lasciai cadere in vii amor d’ancille.

Taccio, dico, l’amore che non è nobile, ma non posso trapassare sotto silenzio l’amor d’Elena, nobilissimo e forse bellissimo quantunque ingiusto : perché la causa del bello è superiore a quella del giusto, come stima l’istesso Proclo, tra i platonici filosofo di grandissima stima, il quale pone nel grado superiore il buono o il bene, nel secondo il bello, nel terzo il giusto. Ma ciò si dee intendere solamente ne’ principii delle cose, perché nell’anima nostra non può esser bellezza senza giustizia. Nondimeno Isocrate ancora stimò che tutta la grazia e la venustà de’ poemi d’Omero nascesse dalla bellezza d’Elena. Laonde non è meraviglia se i Troiani, per ritenerla, guerreggiarono tanti anni contra la giustizia, non ascoltando il consiglio de’ più savi, i quali persuadevano che si rendesse a Menelao, come nota Aristotele ne’ suoi libri morali, alla cui autorità debbiamo prestar maggior fede ch’a quella d’ogni altro filosofo. Ma, per suo giudizio, non è negato al poema eroico, e per opinione de gli altri è conceduto. E se gravissima è la tragedia, niun’altra avrebbe maggior bisogno che la sua soverchia severità fosse temperata con la piacevolezza d’amore; né questa piacevolezza ricusò di darle Euripide nella sua Fedra, dopoi Seneca nell'Ippolito ; e Sofocle medesimo sparse l'Antigone de gli amorosi affetti e del pietoso amore di Emone, e le Trachine e l’Ercole in Eta delle passioni amorose di Dianira. Laonde Demetrio Falereo nel libro suo Dell’elocuzione scrisse che niuna cosa fa più graziose le tragedie dell’amore. Ma noi parliamo dell’amor di cavaliero, qual fu o potè esser quel d’Achille con Polissena, accennato a pena da’ tragici; e di questo non si potrebbe dubitare, s’egli fosse convenevole al poema eroico, ma qual delle due passioni fosse più conveniente, l’ira o l’amore. Omero stimò senza dubbio piu conveniente l’ira, perché altrimente avrebbe formato il poema dell’amor d’Achille e di Polissena. E oltre ciò, la ragione e l’autorità di Platone par che più ci confermi quella d’Omero, perché tra le tre potenze dell’animo nostro, io dico la ragione e l’appetito irascibile e ’l concupiscibile, senza fallo nobilissima è la ragione, e quasi regina dell’altre ; ma il concupiscibile appetito somiglia più tosto al rubbello popolare, il qual, sollevandosi e facendo tumulto nell’animo, nega di prestare obedienza alla ragione, là dove l’irascibile è quasi guerriero e ministro della ragione in raffrenare l’altro che le fa contrasto. Dunque dell’ira più tosto che dell’amore dee prendere soggetto il poeta eroico. E ciò peraventura sarebbe vero se gli eroi fossino tutti e sempre soggetti alle passioni ; ma se l’amore è non solo una passione e un movimento dell’appetito sensitivo, ma uno abito nobilissimo della volontà, come volle san Tomaso, l’amore sarà più lodevole ne gli eroi, e per conseguente nel poema eroico. Ma gli antichi o non conobbero questo amore, o non volsero descriverlo ne gli eroi ; ma se non onorarono l’amore come virtù umana, l’adorarono quasi divina; però niuna altra dovevano stimar più conveniente a gli eroi. Laonde azioni eroiche ci potranno parer, oltre l’altre, quelle che son fatte per amore. Ma i poeti moderni, se non vogliono descriver la divinità dell’amore in quelli ch’espongono la vita per Cristo, possono ancora, nel formarvi un cavaliere, descriverci l’amore come un abito costante della volontà ; e così gli hanno formati, oltre tutti gli altri, quegli scrittori spagnuoli i quali favoleggiarono nella loro lingua materna senza obligo alcuno di rime, e con sì poca ambizione ch’a pena è passato alla posterità nostra il nome d’alcuno. Ma qualunque fosse colui che ci descrisse Amadigi amante d’Oriana, merita maggior lode ch’alcuno degli scrittori francesi ; e non traggo di questo numero Arnaldo Daniello, il quale scrisse di Lancillotto, quantunque dicesse Dante :

Rime d’amore e prose di romanzi
soverchiò tutti ; e lascia dir gli stolti
che quel di Limosi credon ch’avanzi.

Ma s’egli avesse letto Amadigi di Gaula o quel di Grecia o Primaleone, peraventura avrebbe mutata opinione, perché più nobilmente e con maggior costanza sono descritti gli amori da’ poeti spagnuoli che da’ francesi, se pur non merita d’esser tratto da questo numero Girone il Cortese, il quale castiga cosi gravemente la sua amorosa incontinenza alla fontana ; ma senza fallo è maggiore lode avere in guisa disposto l’animo ch’alcuno affetto non possa prender l’arme contea la ragione. Laonde più perfetta sarebbe stata l’amicizia di Girone con Danaino s’ella non fosse stata perturbata dall’amore. Assai men grave nondimeno è 'l fallo di Girone che quello del Biscaglino nel Furioso, anzi non può quasi fra loro esser fatta alcuna comparazione ; e se Girone non fosse stato cosi vicino al commetter fallo, la sua virtù ci parrebbe maggior senza dubbio ; ma non sarebbe cosi piacevole il poema in quella parte. La virtù nondimeno di Leone nel Furioso supera tutti gli altri essempi ch’io abbia letto ; laonde mi pare che scioccamente si dubiti qual sia maggiore cortesia, quella di Leone o quella di Ruggiero, perché non è cortesia quella ch’è fatta contra l’onesto e contra il dritto ; ma non era onesto che Ruggiero ingannasse Bradamante ; non fu dunque cortesia quella di Ruggiero ; però non doveria contendere con quella del prencipe greco, alla quale si può paragonare in qualche modo quella di Gisippo, uomo dell’istessa nazione, ma non della medesima fortuna ; perché quell’altra di messere Ansaldo fu similmente una generosa pazzia, ma degna di riprensione più tosto che di lode. In somma l’amore e l’amicizia sono convenevolissimo soggetto del poema eroico ; e se vogliam chiamare amicizia quella d’Achille e di Patroclo, niun’altra potea dar materia di poetar più eroicamente. Ma non dee l’opinione di Dante esser tralasciata, perché la sua autorità, in questa lingua, non mediocre, può esser fondamento della nostra opinione. Egli dice ne’ libri Della volgare eloquenza che tre sono le cose che deono esser cantate nel sommo stile : la salute e l’amore e la virtù ; la salute come utile, l’amor come piacevole, la virtù come onesta. Ma s’il sommo stile è il tragico, in quanto è l’istesso con l’eroico o in quanto il contiene, l’amore senza fallo dee esser cantato dal poema eroico. Ma egli considera l’amore come piacevole, e si potrebbe considerare ancora come onesto o come virtù cavaleresca, cioè come abito della volontà. Concedasi dunque che ’l poema epico si possa formar di soggetto amoroso, com’è l’amor di Leandro e d’Ero, de’ quali cantò Museo, antichissimo poeta greco ; e quel di Giasone e di Medea, dal qual prese il soggetto Apollonio fra’ Greci e Valerio Fiacco tra’ Latini ; o quel di Alessandro e d’Elena descritto da Coluto Tebano e dal cardinale Sfondrato padre di Gregorio XIV, non solo a’ suoi tempi grandissimo prelato, ma grandissimo poeta ; o quelli di Teagene e di Cariclea, e di Leucippe e di Clitofonte, che nella medesima lingua furono scritti per Eliodoro e per Achille Tazio ; o gli altri d’Arcita e di Palemone, e di Florio e di Biancofiore, di cui nella nostra lingua poetò il Boccaccio ; o gli avenimenti di Piramo e di Tisbe, i quali diedero materia ad un picciol poema del Tasso mio padre ; o la pazzia di Narcisso, da cui prese soggetto l’Alemanno. Ma in questa idea, ch’ora andiamo cercando, del perfettissimo poema, fa mestieri ch’abbiamo riguardo alla nobiltà e all'eccellenza più ch’a tutte le cose. Però debbiamo scegliere azione in cui la nobiltà sia in sommo grado, come è nell’impresa de gli Argonauti che passarono al vello d’oro, di cui fecero i loro poemi Orfeo prima e dapoi Apollonio. È parimente questa condizione nella guerra di Troia e negli errori di Ulisse cantati da Omero, e in quella di Tebe e nella fanciullezza d’Achille scritta da Stazio, e nella guerra civile e nella seconda africana ridotte in versi da Lucano e da Silio Italico e dal Petrarca, il quale negli amori di Masinissa superò il primo di gran lunga ; ma oltre tutte l’altre è nobilissima azione la venuta di Enea in Italia, perché l’argumento è per sé grande e illustre, ma grandissimo e illustrissimo avendo riguardo all'Imperio romano ch’ebbe origine da quella, come nel principio dell'Eneide accenna il divino poeta :

Tantae molis erat Romanam condere gentem.

Tale era la liberazione d’Italia da’ Goti, che porse materia al poema del Trissino, tali sono quelle imprese che per la confermazion della fede, o per l’essaltazione della Chiesa o dell'Imperio furono felicemente e gloriosamente adoperate ; le quali per se medesime acquistano gli animi de’ lettori e muovono aspettazione e diletto meraviglioso, e, aggiontovi l’artificio dell’eccellente poeta, non è cosa che non possano ne gli animi nostri.

[14] Dee dunque il poeta schivar gli argomenti fìnti, massimamente si finge esser avvenuta alcuna cosa in paese vicino e conosciuto, e fra nazione amica, perché fra’ popoli lontani e ne’ paesi incogniti possiamo finger molte cose di leggieri senza toglier autorità alla favola. Però di Gotia e di Norveggia e di Suevia e d’Islanda o dell’Indie Orientali o di paesi di nuovo ritrovati nel vastissimo Oceano oltre le Colonne d’Ercole si dee prender la materia de sì fatti poemi. Non tocchi ancora il poeta quelle cose che non possono esser trattate poeticamente, e nelle quali non ha luogo la finzione e l’artefìcio; rifiuti le troppo rozze, a cui non si può quasi aggiongere splendore, e si ricordi di quel precetto d’Orazio :

et quae
desperas tractata nitescere posse, relinque.

Rifiuti le male ordinate, a guisa di tronco troppo torto il quale non sia buono per la fabrica ; ricusi le materie troppo asciutte e troppo aride, le quali non danno molte occasioni all’ingegno e all’arte del poeta, e quelle che sono noiose e rincrescevoli soverchiamente, e l’infelici, com’è la morte de’ paladini e la rotta di Roncisvalle ; perché fra’ Greci ancora o fra’ Latini niuno è che celebrasse in poema eroico la sconfitta de gli Ateniesi o de gli Spartani, e le vittorie di Persiani o pur quelle de’ Francesi ; anzi Allia per l’occisione de’ nostri fu riputato nome infausto e infelice, come dovrebb’esser quel di Roncisvalle. Figuri la morte e l’occisioni fra gli avversari, come fece Omero che l’accrebbe fra' Troiani e fra’ barbari. Men savio consiglio veramente fu quello di Stazio, che celebrò la calamità de gli Argivi e la morte o la rotta dell’essercito condotto da’ sette regi, perché quello è soggetto tragico anzi che no, e fra i Greci fu trattato da Euripide, il quale, come dice Aristotele, è τραγίκώτατος Non s’invaghisca il poeta delle materie troppo sottili e convenienti più tosto alle scuole de’ teologi o de’ filosofanti ch’a’ palagi de' principi e a’ teatri ; non si mostri ambizioso nelle questioni naturali e teologice, e non dimentichi quello che dice Orazio lodando Omero e proponendolo a molti filosofi i quali avevano scritto delle virtù e dell’onesto, come si legge nella seconda epistola a Lollio :

Troiani belli scriptorem, Maxime Lolli,
dum tu declamas Romae, Praeneste relegi ;
qui, quid sit pulchrum, quid turpe, quid utile, quid non,
plenius et melius Chrysippo et Crantore dicit.

Non si mostri troppo curioso nella cognizione dell’antichità oscura e quasi nascosta, ove l’oscurità non fosse di cose grandissime e degne della cognizione ; delle cose minute sia sprezzatore anzi che no, nell'acute magnifico, nelle riposte aperto, e in tutte meraviglioso ; non sia troppo lungo nelle cerimonie delle cose sacre o profane, e ne' giuochi sia ornato, efficace, e ponga le cose inanzi gli occhi, e non descriva tutti quelli che si fanno, ma i più celebri e illustri, e quelli che sono quasi simulacri della guerra o sua essercitazione, come fecero Virgilio e Omero, l’uno nell’essequie di Patroclo, l’altro nella sepoltura d’Anchise. Ma ora in vece di giuochi sono succeduti torniamenti e giostre, che magnificamente furono descritti da’ nostri poeti, come fu dall’Ariosto quello di Damasco, dal Tasso quella di Cornovaglia più convenevolmente : perché nell’Inghilterra solevano usarsi, ma non era costume de' Turchi o de’ Saracini il giostrare ; laonde soleva dire Geme, fratello de Salim imperatore de’ Turchi, mentre egli fu prigioniero in Roma, che era troppo da scherzo e poco da dovero. Abbia ancora risguardo il poeta alla gloria della nazione, all’origine delle città e delle famiglie illustri, a’ principi de’ regni e degl’imperi, come ebbe, oltre tutti gli altri, Virgilio ; non sia troppo licenzioso nel fingere le cose impossibili, le mostruose, le prodigiose, le sconvenevoli, come fece colui il quale volle imitare la favola di Tiresia che, percotendo e ripercotendo i serpenti, di maschio divenne femina, e poi di femina maschio, ma poco felicemente trasmutò Rinaldo in una donna ; ma consideri il poter dell’arte maga e della natura istessa quasi rinchiuso dentro a certi conimi e ristretto sotto alcune leggi, e gli antichi e i vecchi prodigi, e l'occasioni delle meraviglie e de’ miracoli e de’ mostri, e la diversità delle religioni, e la gravità delle persone ; e cerchi di accrescere quanto egli può fede alla meraviglia senza diminuire il diletto. Però non dee rifiutar gl’incanti, non le caccie, benché elle fossero di fiere terribili e rare volte vedute, come fu quella che fece Agramante in Biserta ; e in questa parte possiamo seguir l'autorità de gli antichi nella caccia del porco ucciso da Atalanta, che diede occasione all’infelicità di Meleagro, celebrato da greci e da latini poeti, e in quella del toro che fu domato da Teseo, o del serpente ucciso da Ercole. Descriva le tempeste, gl’incendi, le navigazioni, i paesi e i luoghi particolari ; si compiaccia nella descrizione delle battaglie terrestri e maritime, de gli assalti delle città, dell’ordinanza dell’essercito, e del modo di alloggiare ; ma in questo schivi il soverchio e temperi il rincrescimento di troppa esquisita dottrina, perché non abbiamo essempio di Virgilio o da Omero o d’altro antico poeta, ma dal Trissino solamente. Non sia troppo lungo ne gli ammaestramenti dell’arte militare, ne’ quali il Tasso imitò Claudiano, inducendo Perione ch’ammaestra Galaoro in quel modo che Teodosio imperatore avea tenuto con Onorio suo figliuolo. Simile avertimento potrebbe mostrare ove descrive la fame, la sete, la peste, il nascer dell’aurora, il cader del sole, il mezzo giorno, la mezza notte, le stagioni dell’anno, la qualità de’ mesi o di giorni o piovosi o sereni o tranquilli o tempestosi ; ma ne’ consigli e nelle rassegne può distendersi più securamente con l’autorità de gli antichi poeti ; e nel descriver Tarme, l'imprese, i cavalli, le navi, i tempii, i palagi, i padiglioni, le tende, le pitture e le statue e l’altre cose somiglianti, abbia sempre riguardo a quel che conviene, e schivi la noia che porta seco la soverchia lunghezza. Nelle morti cerchi la varietà, l’efficacia, l’affetto, nell’incontri di lancia e ne' colpi di spada la verisimilitudine, non passando troppo quel ch’è avvenuto, o che può avvenire, o che si crede, o che si racconta. Nelle minaccie sia altero e acerbo, ne' lamenti breve e affettuoso, ne gli scherzi piacevole e grazioso ; non asconda le cose vere nell’antichità e quasi nelle nuvole ; non mostri le finte al sole, ma più tosto al buio, quasi merci che in quel modo si vendono di leggieri ; e fra i nostri tempi e gli antichissimi secoli scelga quelli che sono lontani dalla nostra memoria con distanza conveniente, a guisa di pittore che non metta le pitture sotto gli occhi, né ancora tanto lontane che non possano essere raffigurate, ma le disponga al lume in parte alta convenevolmente. Elegga fra le cose belle le bellissime, fra le grandi le grandissime, fra le meravigliose le meravigliosissime ; e alle meravigliosissime ancora cerchi d’accrescere novità e grandezza ; lasci da parte le necessarie, come il mangiare e l’apparecchiar le vivande, o le descriva brevemente, come descrisse Virgilio in que’ versi :

Illi se praedae accingunt dapibusque futuris:
tergora diripiunt costis et viscera nudant,
pars in frusta secant verubusque trementia fìgunt,
littore ahena locant alii flammasque ministrant.
Tum victu revocant vires fusique per herbam
implentur veteris Bacchi pinguisque ferinae.

E in quegli altri :

At domus interior regali splendida luxu
instruitur, mediisque parant convivia tectis :
arte laboratae vestes ostroque superbo,
ingens argentum mensis caelataque in auro
fortia facta patrum, series longissima rerum,
per tot ducta viros antiquae ab origine gentis.

E ne’ seguenti :

Dant famuli mani bus lymphas Cereremque canistris
expediunt tonsisque ferunt mantilia villis.
Quinquaginta intus famulae, quibus ordine longo
cura penum struere et flammis adolere penates ;
centum aliae totidemque pares aetate ministri,
qui dapibus mensas onerent et pocula ponant.

Ma queste descrizioni tanto sono più lodevoli quanto sono più lontane di luogo e più diverse d’apparecchio. Sdegni ancora il nostro poeta tutte le cose basse, tutte le populari, tutte le disoneste, com’è la novella della Fiammetta e quella del dottore ; alle mediocri aggiunga altezza, all’oscure notizia e splendore, alle semplici artificio, alle vere ornamento, alle false autorità ; e se pur alcuna volta riceve i pastori, i caprari, i porcari e l’altre sì fatte persone, deve aver riguardo non solo al decoro della persona, ma a quello del poema, e mostrarli come si mostrano ne’ palazzi reali e nelle solennità e nelle pompe.

[15] Ecco, illustrissimo Signore, le condizioni che giudizioso poeta dee nella materia ricercare, le quali (repilogando in breve giro di parole quanto s’è detto) sono queste : l’autorità dell’istoria, la verità della religione, la licenza del fingere, la qualità de’ tempi accomodati e la grandezza de gli avvenimenti. Ma questa, prima che sia caduta sotto l'artificio dell’epico, materia si chiama ; dopo ch’è stata dal poeta disposta e trattata, e con l’elocuzione è vestita, se ne forma la favola, la qual non è più materia, ma è forma e anima del poema ; e tale è da Aristotele giudicata. Ma il poema non è forma semplice, perché egli è composto di materia e di forma. Ma avendo nel principio di questo discorso assomigliata quella materia, che fu detta nuda, a quella che chiamano i naturali materia prima, giudico che, sì come nella materia prima, benché priva d’ogni forma, nondimeno vi si considera da’ filosofi la quantità, la quale è perpetua ed eterna compagna di lei, e inanzi il nascimento della forma vi si ritrova, e doppo la sua corruzione vi rimane, così anco il poeta debba in questa nostra materia, inanzi ad ogn’altra cosa, la quantità considerare, peroché è necessario che, togliendo egli a trattare alcuna materia, la toglia accompagnata d’alcuna quantità. Avertisca dunque che la quantità ch’egli prende non sia tanta che, volend'egli poi, nel formare la testura della favola, interserirvi molti episodii e adornare e illustrare le cose che semplici sono in sua natura, il poema cresca in tanta grandezza che disconvenevol paia e dismisurato ; peroché non dee il poema eccedere una certa determinata grandezza, come nel suo luogo si tratterà ; che s’egli vorrà pure schivare questa dismisura e questo eccesso, sarà necessitato lasciare le digressioni e gli altri ornamenti che sono necessarii al poema, e quasi rimanersi ne’ puri e semplici termini dell’istoria. Il che a Lucano e a Silio Italico si vede in qualche parte avvenuto, l’uno e l’altro de’ quali troppo ampia e copiosa materia abbracciò : perché quegli non solamente la giornata di Farsaglia, come dinota il titolo, ma tutta la guerra civile fra Cesare e Pompeo, questi tutta la seconda guerra africana prese a trattare. Le quali materie, sendo in se stesse ampissime, erano atte ad occupare tutto quello spazio ch’è conceduto alla grandezza dell’epopeia, non lasciando luogo alcuno all’invenzione e all’ingegno del poeta. E alcune volte, paragonando le medesime cose trattate da Silio poeta e da Livio istorico, molto più asciuttamente e con minor ornamento mi par di vederle nel poeta che nell’istorico, al contrario a punto di quello che la natura delle cose richiederebbe. Di questa riprensione non è affatto sicuro Stazio : benché abbia l’invenzione poetica, nondimeno, cominciando da i primi principii della guerra, disprezza l’ammaestramento d’Orazio e spende molti libri prima ch’abbia condotti i Greci sotto Tebe ; e la venuta di Teseo nel fine, e la battaglia che si fa per dar sepoltura a i morti pare quasi soggetto d’un altro poema. A questa medesima è soggetto il Trissino. Ciascuno in somma, che materia troppo ampia si propone, è costretto d’allungare il poema oltre il convenevol termine (la qual soverchia lunghezza sarebbe forse ne l'Inamorato e nel Furioso, chi questi due libri, distinti di titolo e d’autore, quasi un sol poema considerasse, come in effetto sono), o almeno è sforzato di lasciare gli episodii e gli altri ornamenti, i quali sono necessari al poeta. Meraviglioso fu in questa parte il giudizio d’Omero, il quale, avendo propostasi materia assai breve, quella, accresciuta d’episodii e ricca d’ogn’altra maniera d’ornamento, a lodevole e conveniente grandezza ridusse. Più ampia alquanto la si propose Virgilio, come colui che tanto in un sol poema raccoglie quanto in due poemi d’Omero si contiene ; ma non però di tanta ampiezza la scelse che ’n alcuno di que’ duo vizii sia costretto di cadere. Con tutto ciò se ne va alle volte così ristretto che, se ben quella gravità e brevità sua è meravigliosa e inimitabile, non ha peraventura tanto del poetico quanto la faconda copia d’Omero. E mi ricordo in questo proposito aver udito dire dallo Sperone (uomo eccellentissimo, la cui privata camera, mentre io in Padova studiava, era solito di frequentare non meno spesso e volentieri che le publiche scuole, parendomi che mi rappresentasse la sembianza di quella Academia e di quel Liceo in cui Socrate e Platone aveano in uso di disputare), mi ricordo d’aver udito da lui che ’l nostro poeta latino è più simile al greco oratore ch’al greco poeta, e 'l nostro latino oratore ha maggior conformità col poeta greco che con l’orator greco, ma che l’oratore e ’l poeta greco aveano ciascuno per sé conseguita quella virtù ch’era propria dell’arte sua, ove l’uno e l’altro latino avea più tosto usurpata quell’eccellenza che all’arte altrui era conveniente. E in vero chi vorrà sottilmente essaminare la maniera di ciascun di loro, vedrà che quella copiosa eloquenza di Cicerone è molto conforme con la larga facondia d’Omero, sì come nell’acume e nella pienezza e nel nervo d’una illustre brevità sono molto somiglianti Demostene e Virgilio.

[16] Raccogliendo dunque quanto s’è detto, dee la quantità della materia nuda esser tanta, e non più, che possa dall’artificio del poeta ricever molto accrescimento senza passare i termini della convenevole grandezza. Ma poiché s’è ragionato del giudizio che dee mostrare il poeta intorno alla scelta dello argomento, l’ordine richiede che nel seguente discorso si tratti dell’arte con la quale deve esser disposto e formato.