Torquato Tasso ai lettori.
Non m’era nuovo, benignissimi lettori, che sì come nessuna azione umana mai fu in ogni parte perfetta, così ancora a nessuna mai mancaro i suoi reprensori. Laonde, quando diedi principio a quest’opera, la qual ora è per venir a le vostre mani, e quando di stamparla mi disposi, chiaramente previdi ch’alcuno, anzi molti, sarebbono stati, i quali l’una e l’altra mia deliberazione avriano biasimata, giudicando poco convenevole a persona che per attender agli studii de le leggi in Padova dimori, spendere il tempo in cose tali; e disconvenevolissimo ad un giovine de la mia età, la quale non ancora a XIX anni arriva, presumere tant’oltre di se stesso ch’ardisca mandare le primizie sue al cospetto de gli uomini ad esser giudicate da tanta varietà di pareri. Nulla di meno, spinto dal mio genio, il quale alla poesia sovra ad ogn’altra cosa m’inchina, e dall’esortazioni de l’onoratissimo messer Danese Cattaneo, non meno ne lo scrivere che ne lo scolpire eccellente; essendo poi in questa opinione confermato da messer Cesare Pavesi, gentiluomo e ne la poesia e ne le più gravi lettere di filosofia degno di molta lode, osai di pormi a quest’impresa, ancorché sapessi che ciò non sarebbe per piacere a mio padre, il quale e per la lunga età, e per li molti e varii negozii che per le mani passati gli sono, conoscendo l’instabilità de la fortuna e la varietà de’ tempi presenti, averebbe desiderato ch’a più saldi studii mi fossi attenuto, co’ quali quello m’avesse io potuto acquistare ch’egli con la poesia, e molto più col correr de le poste in servigio de’ principi, avendo già acquistato, per la malignità de la sua sorte perdé, né ancora ha potuto ricuperare; sì ch’avendo io un sì fermo appoggio com’è la scienza delle leggi, non dovessi poi incorrere in quegli incomodi ne’ quali egl’è alcuna volta incorso. Ma sendo stata di maggior forza in me la mia naturale inchinazione, il desiderio di farmi conoscere (il che forse più facilmente succede per lo mezzo de la poesia che per quello de le leggi) e l’esortazioni de’ molti amici miei, cominciai a dare effetto al mio pensiero, cercando di tener quello ascoso a mio padre; ma non era giunto ancora di grande spazio a quel termine che ne la mente preposto m’avea, ch’egli ne fu chiarissimo, ed ancorché molto gli pesasse, pure si risolvé a la fine di lasciarmi correre dove il giovenil ardor mi trasportava. Sì ch’avendo ne lo spazio di dieci mesi condutto a fine questo poema (come il signor Tommaso Lomellino, gentiluomo onoratissimo e di pulitissimi costumi, ed altri molti render ne possono testimonio) e mostrandolo a i clarissimi signor Molino e Veniero, il valor de’ quali supera di gran lunga la grandissima fama, fui da loro esortato caldamente a darlo fuori; e si può veder una lettera del predetto signor Veniero scritta in questa materia a mio padre, il quale, senza l’auttorità ed il parere di questi dottissimi e giudiziosissimi gentiluomini, non m’avrebbe giamai ciò permesso, ancorché dal Danese e dal Pavese, il giudizio de’ quali è però da lui molto stimato, ne gli fosse prima stato scritto, non avendo egli veduto se non parte de l’opera mia. Viene dunque il mio Rinaldo a dimostrarsi al vostro conspetto, sicuro sotto lo scudo di tali auttorità da l’arme de le maledicenze altrui: pregherò ben voi, gentilissimi lettori, che lo vogliate considerare come parto d’un giovinetto, il qual se vedrà che questa sua prima fatica grata vi sia, s’affaticherà di darvi un giorno cosa più degna di venire ne le vostre mani, e ch’a lui loda maggior possa recare. Né credo che vi sarà grave che io, discostatomi alquanto da la via de’ moderni, a que’ miglior antichi più tosto mi sia voluto accostare, ché non però mi vedrete astretto a le più severe leggi d’Aristotile, le quali spesso hanno reso a voi poco grati que’ poemi che per altro gratissimi vi sarebbono stati; ma solamente que’ precetti di lui ho seguito i quali a voi non togliono il diletto: com’è l’usare spesso gl’episodii, ed introducendo a parlar altri, spogliarsi de la persona di poeta, e far che vi nascano l’agnizioni e le peripezie o necessariamente o verisimilmente, e che vi siano i costumi e ’l discorso espressi. È ben vero che ne l’ordir il mio poema mi sono affaticato ancora un poco, in far sì che la favola fosse una, se non strettamente, almeno largamente considerata; e ancora ch’alcune parti di essa possano parere oziose, e non tali che sendo tolte via il tutto si distruggesse, sì come tagliando un membro al corpo umano quel manco ed imperfetto diviene, sono però queste parti tali che, se non ciascuna per sé, almeno tutte insieme fanno non picciolo effetto, e simile a quello che fanno i capelli, la barba e gli altri peli in esso corpo, de’ quali s’uno n’è levato via, non ne riceve apparente nocumento, ma se molti, bruttissimo e difforme ne rimane. Ma io desiderarei che le mie cose né da severi filosofi seguaci d’Aristotile, c’hanno innanzi gl’occhi il perfetto essempio di Virgilio e d’Omero, né riguardano mai al diletto ed a quel che richieggiono i costumi d’oggidì, né da i troppo affezionati de l’Ariosto fossero giudicate; però che quelli conceder non mi vorranno ch’alcun poema sia degno di loda, nel qual sia qualche parte che non faccia apparente effetto, la qual tolta via non però ruini il tutto; ancorché molti de’ tai membri siano nel Furioso e ne l’Amadigi, ed alcuno ne gli antichi greci e latini. Quest’altri gravemente mi riprenderanno che non usi ne’ principii de’ canti quelle moralità e que’ proemii ch’usa sempre l’Ariosto; e tanto più che mio padre, uomo di quell’autorità e di quel valore ch’il mondo sa, anch’egli talvolta da quest’usanza s’è lasciato trasportare. Benché da l’altra parte né il principe de’ poeti Virgilio, né Omero, né gli altri antichi gli abbiano usati, ed Aristotile chiaramente dica, ne la sua Poetica (la qual ora con gloria di sé e stupore ed invidia altrui espone in Padoa l’eloquentissimo Sigonio) che tanto il poeta è migliore quanto imita più, e tanto imita più quanto men egli come poeta parla e più introduce altri a parlare: il qual precetto ha benissimo servato il Danese, in un suo poema composto ad imitazione de gli antichi e secondo la strada ch’insegna Aristotile, per la quale ancor me egli esortò a caminare. Ma non l’han già servato coloro che tutte le moralità e le sentenze dicono in persona del poeta, né solo in persona del poeta, ma sempre nel principio de’ canti, ch’oltre che ciò facendo non imitino, pare che siano talmente privi d’invenzione e che non sappiano tai cose in altra parte locare che nel principio del canto. E come questo ad alcuni potrebbe parere soverchia ambizione di volere mostrarsi dotto, o pur d’esser, scherzando, piacevole e faceto tenuto dal vulgo, così forse non è senza affettazione. Ed io credo che vero sia ciò ch’il dottissimo signor Pigna dice in questa materia, che l’Ariosto tai proemi non avrebbe fatto, se non avesse stimato che trattando di varii cavalieri e di varie azioni, e tralasciando spesso una cosa e ripigliandon’un’altra, gli era necessario render talvolta docili gli auditori, il che quasi sempre in tai proemii si fa, preponendo quel che nel canto si dee trattare, e congiungendo le cose che s’hanno a dire con quelle che già dette si sono; e la medesima cagione, oltre l’usanza, ha mosso mio padre ad imitarlo. Ma io che tratto d’un sol cavaliero, ristringendo (per quanto i presenti tempi comportano) tutti i suoi fatti in un’azione, e con perpetuo e non interrotto filo tesso il mio poema, non so per qual cagione ciò mi dovessi fare: e tanto più che vedeva la mia opinione dal Veniero, dal Molino e dal Tasso essere approbata, l’auttorità de’ quali può molto appo ciascuna persona. Sapeva oltra ciò quest’essere prima stata opinione de lo Sperone, il qual tutte l’arti e le scienze interamente possiede. Non vi spiaccia dunque di vedere il mio Rinaldo parte ad imitazion de gli antichi e parte a quella de’ moderni composto; il quale, se da voi serà benignamente accolto, un’altra volta in molte parti migliorato e senza tanti errori di stampa si lasciarà vedere; e perché molti de quelli potreste a me imputare, vi prego che talvolta la tavola degli errori riguardiate, anzi ogni volta ch’il senso oscuro ed intricato vi paresse.