XVII [V 15, G 38]

A Scipione Gonzaga

[1] Nella lettera che da me fu scritta a Vostra Signoria illustrissima mi sforzai di mostrare che non ne era né possibile né necessario né forse convenevole che la necessità di Rinaldo consistesse nella perdita e rotta de’ cristiani; e, quando ciò scrivea, presupponeva che la mia attione fosse tale a punto quale è l’omerica. [2] Nell’altre mie scritture e lettere poi, distinguendo fra l’attione una d’uno numero et una di molti in uno, ho concluso, o mi è paruto di farlo, che fosse, non solo convenevole, ma necessario il non attribuire ogni cosa a Rinaldo, ma lasciare anco a gli altri alcuna parte. [3] Ora, ancorché io sia più che mai fermo nella mia credenza, nondimeno la stima ch’io fo del giudizio di Vostra Signoria, al quale piacque l’opposizione, e la gelosia c’ho della sua buona opinione, m’han fatto pensare e ripensare se fosse possibile, senza ruinar la mia fabrica e senza discordar da i miei principii, di sodisfare in tutto o ’n parte al giudizio suo; et ho trovato il modo facilissimo, senza repugnanza de’ miei principii: e non solo ho pensato, ma eseguito ancora il pensato; nel che solo mi rincresce aver mescolata la mia letteruccia con la sua.

[4] Il modo è questo: che nel settimo canto, da poi che Argante è volto in fuga, io non aspetto che i demoni aspettino a mover il turbine sin che sian rotte le genti di Clorinda ancora, ch’erano ferme a mezzo il colle; ma movono il turbine e la tempesta inanzi che i primi pagani fuggittivi arrivino alle genti di Clorinda. [5] Di maniera che Clorinda prende l’occasione et, inanimando le sue genti (le quali non erano troppo offese da’ venti e dalle grandini ricevendole nelle spalle), assalta i cristiani, che avendo i turbini e le gragnuole ne gli occhi, sono rotti e fuggono cacciati sin al vallo; dove, per valor solo di Goffredo, senza grandissimo danno si salvano; e ’l capitano, poiché tutti gli altri sono nel vallo, cede anch’egli la vittoria e si ritira, e tornano in dietro i saracini. Questo modo non ha portato seco se non la giunta di tre o quattro stanze e la mutazion di due. [6] È ben vero ch’io conosco che bisognarebbe dire alcuna cosa alquanto più particolarmente; ma nella seconda impressione si farà.

[7] Et a confessare il vero, mi sono per altro compiacciuto del conciero infinitamente: prima, perch’era verisimile e quasi necessario che i demoni auttori della violazion del patto fossero un poco più solleciti in aiutar i saracini; poi, perché questa rotta, non essendo universale, ma d’una parte sola delle genti, non potea impedire il disegno dell’assalto. [8] Et anco, perch’essendo in absenza non solo di Rinaldo ma de gli altri aventurieri, non riguarda così semplicemente la lontananza di Rinaldo che non possa avere anco alcun riguardo a gli altri: il che è necessario, se la loro partita non è introdotta in vano. Mi piace per ultimo, peroché in quel modo che i greci, sempre che son rotti, son rotti per disfavor di potenza sopranaturale, in quel modo a punto i nostri sono perditori.

[9] Nel nono e nell’undecimo io muterò come scrissi; e credo che sarà non solo a bastanza, ma da vantaggio: né credo ch’una sola vittoria, e sanguinosa, de’ cristiani, e vittoria riportata d’essercito imbelle, accompagnata da tante altre sciagure, possa pregiudicare a Rinaldo, se le prosperità de’ greci non pregiudicano ad Achille; il quale però è solo nell’Iliade, ove Rinaldo non è solo nel mio poema.

[10] Aspetto d’udire che non piaccia che Raimondo e Tancredi prendano la rocca, perché questo aviene in conseguenza dalla prima opposizione; o forse anco vorreste che ’l campo egittio assediasse il nostro: ma a me pare d’aver risposto a i fondamenti e sto nella mia credenza.

[11] Segnerò nella Poetica del Castelvetro tutti i luoghi ove si parla dell’istoria e della fama, ne’ quali egli attribuisce loro più che non fo io; e segnerò parimente alcun luogo ov’Aristotele dice che la epopeia non è così una come la tragedia, né ciò può dire in rispetto de gli episodii solo; et avisarò Vostra Signoria in quali pagine siano, accioché possa vederli, se vorrà.

[12] Se Vostra Signoria legge con tanto gusto i miei versi con quanto io vagheggio il suo carattere e la diligenza dell’ortografia, o me beato! E le bacio le mani.