Il Gierusalemme

LIBRO PRIMO

Pietro eremita ritornando da Gierusalemme, ove avea veduto i Cristiani di quel paese menar sotto la tirannide de’ Turchi vita acerbissima e miserabile, e le sacre reliquie esser dall’insolenzia de’ barbari avute in dispregio e profanate, narra queste cose a i Cristiani d’Europa, e quindi prendendo occasione con molte publiche e ardenti orazioni gli esorta all’acquisto di Terra Santa: sì che molti principi e molti cavalieri con privato consiglio da varie parti a questa impresa s’inviaro: i quali finalmente congiuntisi insieme, dopo aver date molte rotte a’ Turchi e a’ Persiani, s’accostaro a Gierusalemme. Onde il principio dell’opera si prende.

1
L’armi pietose io canto, e l’alta impresa
Di Gotifredo e de’ cristiani eroi;
Da cui Gierusalem fu cinta e presa
E n’ebbe impero illustre origin poi.
Tu Re del ciel, come al tuo foco accesa
La mente fu di quei fedeli tuoi,
Tal me n’accendi; e se tua santa luce
Fu lor nell’opre, a me nel dir sia duce.
2
E tu che forse a rinovar gli esempi
Del famoso Goffredo eletto fusti,
E puoi Giudea non pur, ma i Persi e gli empi
Mauri e gl’Indi domare e i Traci ingiusti,
Sì che l’invidia omai de i prischi tempi
Cessi, e la gloria de i romani Augusti,
Ascolta quel che d’altrui scrivo e canto,
E fra me di te stesso auguro intanto.
3
Questa che spiego or de i gran fatti altrui
Antiqua tela, e parte adorno e fingo,
È verace pittura e certa, in cui
Le tue future glorie adombro e pingo.
Febo a sé mi rapisce, ed io di lui
Ripien sue voglie a seguitar m’accingo:
E l’acceso pensier scorge or palese
I simolacri di vicine imprese.
4
Già mi par di veder la Quercia d’auro
Spiegata trionfar per l’Asia intorno,
E ’l gran Nilo inchinarsi al bel Metauro,
Ed arricchirgli de’ suoi fregi il corno.
Già d’andarne mi par cinto di lauro
Fra’ tuoi, ch’avran di palme il crine adorno,
E fra le trombe e fra il romor de l’armi
Sonar mia cetra e ’ miei non rozzi carmi.
5
Or mentre quasi novo augel ch’apprenda
Formar le note, e gir volando a stuolo,
Fo di me prova, onde sicuro io prenda
Di te cantando poi solingo volo,
Sovra me la gran Quercia i rami estenda,
Che questo schermo incontra i fati ho solo.
Così sua scorza le sue lodi stesse
In sé riserbi eternamente impresse.
6
Già scorrea vincitor per l’Oriente
L’esercito cristian da Dio condutto;
E Tarso in suo poter novellamente
E d’Antiochia il regno avean ridutto;
E vinta e morta innumerabil gente
De’ Persi, e quasi Persia in lei distrutto;
Indi Tripoli presa, in quella parte
S’eran le schiere sue fermate e sparte;
7
Quando il chiaro Goffredo, a cui commesso
Lo scettro fu de l’onorata impresa,
Scorgendo egual desire in tutti espresso
Ch’omai Gierusalem sia cinta e presa,
E sentendo egli ancor l’affetto istesso
Di maggior fiamma aver sua mente accesa,
Tutte le genti sparse in un raccolse,
E vèr le sacre mura il campo volse.
8
Allor ch’a Febo in oriente sono
Del ciel dischiuse l’indorate porte,
Di trombe udissi e di tamburri un suono,
Ond’al camino ogni guerrier s’esorte.
Non è sì grato a mezzo agosto il tuono
Che speranza di pioggia al mondo apporte,
Come fu grato a l’animose genti
L’alto romor de’ bellici strumenti.
9
Tosto ciascun da gran desio compunto
Veste le membra de l’usate spoglie.
E tosto appar di tutte l’arme in punto,
Tosto sotto i suoi duci ognun s’accoglie:
E l’ordinato stuolo in un congiunto
Tutte le sue bandiere al vento scioglie,
E nel vessillo imperiale e grande
La trionfante croce al ciel si spande.
10
La vincitrice insegna in mille giri
Alteramente si rivolge intorno:
E par ch’in lei più riverente spiri
L’aura, e che splenda in lei più chiaro il giorno;
E che lungi la polve indi si tiri,
Né le macchi de l’aria il manto adorno,
E che nel suo passar l’altere fronti
Pieghino umìli d’ogn’intorno i monti.
11
Intanto il sol, che de’ celesti campi
Va più sempre avanzando, e in alto ascende,
L’armi percuote, e ne trae fiamme e lampi
Tremuli e chiari, ond’ogni vista offende:
L’aria par di faville intorno avampi,
E di stellato ciel sembianza rende,
E con fieri nitriti il suon s’accorda
Del ferro scosso, e le campagne assorda.
12
Il capitan, che de’ nimici aguati
Le proprie schiere assicurar desia,
Molti a cavallo leggermente armati
A scoprir il paese intorno invia:
E inanzi i guastatori avea mandati,
Da cui si debba agevolar la via,
E i vòti luoghi empire e spianar gli erti,
E da cui siano i chiusi passi aperti.
13
Conduce ei sempre a le maritime onde
Vicino il campo per sicure strade,
Sapendo ben che le propinque sponde
L’amica armata costeggiando rade:
La qual può far che sempre il campo abonde
De i necessari arnesi e de le biade,
E di ciò che la vita altrui sostiene,
Quello arrecando da remote arene.
14
Geme il vicino mar sotto l’incarco
Di mille curvi abeti e mille pini,
E per esso omai più sicuro varco
In luogo alcun non s’apre a i saracini.
Ch’oltra quei c’ha Georgio armati e Marco
Ne i veneziani e liguri confini,
Altri Inghilterra e Scozia, ed altri Olanda
Ed altri Francia, e Grecia altri ne manda.
15
E questi, che son tutti insieme uniti
Con saldissimo laccio in un volere,
S’eran carchi e provisti in varii liti
Di ciò ch’ è d’uopo a le terrestri schiere.
Le quai trovando liberi e sforniti
I passi de’ nimici a le frontiere,
In corso velocissimo sen vanno
Là ’ve Cristo soffrìo mortale affanno.
16
Non v’è gente pagana insieme accolta,
Non muro cinto di profonda fossa,
Non monte alpestre, o gran torrente, o folta
Selva che ’l lor viaggio arrestar possa:
Così de gli altri fiumi il re talvolta
Quando superbo oltra misura ingrossa
Fuor de le sponde ruinoso scorre,
Né cosa è mai che se gli ardisca opporre.
17
Giunse il campo a Mausse, ove a le sue
Piaggie fann’ombra d’alto monte i gioghi;
Con doni indi a Labilla accolto fue,
Perché su quel terren l’ira non sfoghi:
Vide o Serepta poi le mura tue,
Ed arrivò di Tiro a i cólti luoghi,
Tiro di Cadmo albergo, e intorno intorno
Di vive fonti e di giardini adorno.
18
Indi partito andò per strada angusta
Sin che d’Accona al lieto pian ne venne;
Ove d’Accona il re con dritta e giusta
Condizione amico lor divenne.
Scorser Cesarea poi, ch’a la vetusta
Etate ebbe altro nome, e nol ritenne,
Fra il Carmelo passando e fra l’arena
Di marine cochiglie e d’alghe piena.
19
Antipatrida poscia (a destra mano
Lasciando di Nettun l’onde spumose)
Gli accolse e Ioppe, e per lo steril piano
Passaro a Lida, ove son l’ossa ascose,
L’ossa onorate del guerrier cristiano
Che ’l vorace serpente a morte pose.
Quivi spesso in suo onor si mira et ode
Vaporar tempi e cantar inni e lode.
20
Quinci per dritta e spaziosa strada
La bramata città siede non lunge;
E perch’uom mova a lenti passi, e vada
Onusto e grave, in un dì sol vi giunge.
O quanto intender questo a tutti aggrada,
O quanto più il disio gl’instiga e punge:
O quanto, o quanto a lor sorge molesta
La notte poi, che dal camin gli arresta.
21
– Invida notte, a che veloce torni?
A che t’opponi a i desideri nostri?
Forse di giugno or son scemati i giorni?
Cieli, e serbate or sì gli ordini vostri?
Deh, perché almen tu più lucente i corni
Non scopri, o luna, o la via n’apri e mostri?
O fosse il tempo ch’a i tuoi rai sen fugge
L’ombra, ch’or noi, non pur la terra adugge.
22
Ma lasso, che più sempre orrido velo
C’involve, né vagar gli occhi consente.
Mira che cieco abisso, e come il cielo
Le belle faci d’ogn’intorno ha spente.
Perché non arde in noi quel vivo zelo
Onde altri il dì fu d’arrestar possente,
Tal che s’ei non restasse almen l’imago
Rimanesse di lui nell’aer vago? –
23
Così parla ciascun, né più rifugi
Trova da quel desio che ’l petto accende:
Anzi tutto sdegnoso i pigri indugi
De la notte fra sé biasma e riprende;
E mira ad or ad or, dove pertugi
S’apran nel padiglion, se ’l dì risplende;
Ed ingannando ad or ad or se stesso
Dice: – Omai deve il giorno essern’appresso –.
24
E fuori esce sovente al cielo aperto
Per veder se pur anco il dì si schiare,
O s’ha l’aurato crine a noi scoperto
La stella che dinanzi a l’alba appare:
E se pur dorme alcun, nel sogno certo
La bramata città veder gli pare;
Ed inchinar le sacre mura, e ’l santo
Terren baciar ed innondar di pianto.
25
Ma queste vision tosto ha interrotte
Con ingrata favella un de’ compagni,
Che chieggia altrui se molto ancor di notte
Spazio vi resti, e si lamenti e lagni;
O che divisi come vinte e rotte
Le forze ostil faranno ampi guadagni;
O che pien d’ardimento a gli altri giuri
D’esser fra’ primi ad assaltar que’ muri.
26
Non quando al giorno nubiloso e breve
S’inchina il sol mentre crediam che poggi,
Ed inasprir di ghiaccio e d’alta neve
Si veggion biancheggiar d’intorno i poggi,
Sembra la notte così lunga e greve
A peregrin che traviato alloggi
In duro bosco, e sotto ’l freddo Giove
Esposto giaccia ov’egli tuona e piove;
27
Come allor questa fredda notte estiva,
Che per un breve giro a la sua meta
I veloci corsier spronando giva,
Lunga parve a ciascuno ed inquieta.
Ma quando l’alba fastidita e schiva
Del suo vecchio Titon se n’uscì lieta,
Tosto ciascuno il suo camin riprese
Né suon di tromba o di tamburro attese.
28
Del lor desio l’impetuoso corso
L’accorto capitan segue e seconda:
Che più lieve saria di porre il morso
A l’oceàn quando erge al ciel più l’onda;
O frenar Borea, allor che scuote il dorso
De l’Apennino, e i legni in mare affonda:
Pur che vadino uniti e con misura
Cangino i ratti passi egli procura.
29
Ali ha ciascuno al core ed ali al piede,
Né del suo ratto andar però s’accorge;
Ma quando il sol gli aridi campi fiede
Con via più crudi strali, e in alto sorge,
Ecco apparir Gierusalem si vede,
Ecco additar Gierusalem si scorge,
Ecco da mille voci unitamente
Gierusalemme salutar si sente.
30
Così di naviganti audace stuolo,
Che mova a ricercar estranio lido,
E in mar dubbioso e sotto ignoto polo
Provi spesso il furor del vento infido,
Se alfin discopre il disiato suolo
Lo saluta da lunge in lieto grido,
E l’uno a l’altro il mostra, e ’ntanto oblia
La noia e ’l mal de la passata via.
31
Al gran piacer che quella prima vista
Dolcemente spirò nell’altrui petto,
Alta contrizion successe, mista
Di timoroso e riverente affetto.
Non osan pur d’assicurar la vista
Là ’v’ebbe il vero Dio lungo ricetto,
Dove morì, dove sepolto fue,
Dove poi rivestì le membra sue.
32
Sommessi accenti e tacite parole,
Rotti singulti e flebili sospiri
De la gente che in un s’allegra e duole,
Fan che per l’aria un mormorio s’aggiri
Come per l’alte selve udir si suole
S’avien che tra le fronde il vento spiri;
O come in fra gli scogli o presso a i lidi
Freme il percosso mar con rauchi gridi.
33
Nudo ciascuno il piè calca il sentiero,
Che l’esempio de’ duci ogni altro move.
Serico fregio o d’or, piuma o cimiero
Superbo dal suo capo ognun rimove;
Ed insieme del cor l’abito altiero
Depone, e calde e pie lagrime piove.
Pur quasi al pianto abbia la via rinchiusa
Vèr Dio parlando ognun se stesso accusa.
34
– Dunque ove tu Signor di mille rivi
Sanguinosi il terren lasciasti asperso,
D’amaro pianto almen due fonti vivi
In sì acerba memoria oggi io non verso?
Agghiacciato mio cor, che non derivi
Per gli occhi, e stilli in lagrime converso?
Duro mio cor, che non ti spetri e frangi?
Pianger ben merti ognor, s’ora non piangi. –
35
Così col guardo in vèr la terra vòlto,
E col pensiero in verso il ciel levato,
Parla ciascuno, e ’l riverente volto
Di pietoso pallor porta segnato.
Intanto il campo dal camin distolto
E presso la città s’era fermato;
E intorno il capitan mira, e discorre
Gli alloggiamenti ove sia meglio a porre.
36
Siede Gierusalem sovra duo monti,
Né molto spazio di larghezza prende;
E mira intorno il pian con quattro fronti,
Ma l’una più de l’altre in lungo estende.
La terra, ov’egli sta, non vive fonti,
Non lago o fiume o rio feconda rende;
Di selve e paschi è priva, e secca ed arsa,
E in più luoghi di valli orride sparsa.
37
Ha da quel lato donde il giorno appare
Del famoso Giordan le placid’onde.
E da la parte occidental, del mare
Mediterraneo l’arenose sponde.
Verso Borea è Betèl, che drizzò l’are
Al vitel d’oro, e la Samària; e d’onde
Austro move talor piovoso nembo
Betelem, che ’l gran parto accolse in grembo.

Qui manca una stanza dello accamparsi dell’esercito.

38
Il dì seguente, allor che l’aura estiva
Più dolce schermo è dal solare sdegno,
Veggion cinti venir di verde oliva
L’ignude tempie, d’amicizia in segno,
Due cavalier, che da rimota riva
Giungean di novo al palestino regno:
E intende il capitan ch’alte ambasciate
Recan da Solimano a lui mandate;
39
Da Soliman, che ’l Nilo e i campi regge
Fecondi e lieti per la negra arena,
Più potente di quanti iniqua legge
Di reo profeta a danno eterno mena.
Sembra questi pastor che l’altrui gregge
Soffrir viste da’ lupi amara pena,
De le sue teme, e ’l già vicin periglio
Tenta fuggir con l’arte e col consiglio.
40
Ed a ragione i miseri successi
De’ Persi e Turchi a lui temenza danno
Che ’l fier nimico ne i suoi regni stessi
Non rechi un giorno ancor l’istesso danno;
Né può soffrir che più vicin s’appressi,
E divenendo di Giudea tiranno
Maggior si faccia, e con più certe forze
Contra l’imperio suo s’erga e rinforze;
41
E tanto più che d’alto amor congiunto
Era col re de la provincia ebrea,
E già sovra di sé giurando assunto
Di conservarlo in stato ei preso avea.
Da queste cure stimolato e punto
Continuamente nel pensier volgea
Come salvando i regni altrui potesse
Assicurar le sue provincie stesse.
42
Pur egli è saggio, e con diritta lance
Sue forze e le nimiche insieme pesa;
Né vuol prima adoprar spade né lance,
Che tardi è spenta guerra tosto accesa,
Ma con minaccie e lusinghevol ciance
Tentar se distornar potrà l’impresa.
E sol per questo effetto in messaggieri
Manda al chiaro Buglione ambo i guerrieri.
43
Alete è l’uno, a cui soave asperse
Di dolce mèl Calliopea la lingua,
Che sa come con voci adorne e terse
Mova gli affetti, e come poi gli estingua.
Uomo timido e cauto, e di perverse
Maniere, e cui sol l’altrui danno impingua,
Cui sempre invidia turba il cor maligno,
E i sembianti asserena amico ghigno.
44
Argante l’altro ha nome, il più gagliardo
Cavallier de l’Egitto e ’l più feroce,
Di gigantea statura e d’empio sguardo,
D’orribili fattezze e d’aspra voce;
Ruvido in atto e ne i costumi, e tardo
Di lingua sì, come di man veloce.
A cui sua spada è Dio, sua spada è legge,
E ciò che brama quasi onesto elegge.
45
Chieser questi udienza, ed al cospetto
Del famoso Goffredo ammessi entraro,
E in umil seggio ed in vestire schietto
Fra i suoi duci sedente il ritrovaro:
Che verace valor, benché negletto,
Fa di se stesso a sé fregio sì chiaro,
Ch’uopo non è ch’uom lo circondi e cinga
Di gemme e d’auro, o tirio succo il tinga.
46
Come fu dentro Alete, e ’l capitano
Scorse, e quei chiari suoi mastri di guerra,
Mentre il compagno del suo orgoglio insano
Fa mostra, e come suol vaneggia ed erra,
Sovra il petto ei posò la destra mano,
E piegò il capo, e chinò gli occhi a terra.
Poi gravemente sollevolli; e in tardo
Giro a torno rivolse umile il guardo.
47
Rivolge il guardo, e le straniere genti
E le strane maniere intento ammira;
Gli abiti in lor diversi, e i portamenti
E le sembianze varie e gli anni mira,
Ma l’istesso vigor da gli occhi ardenti
E da gli atti feroci in tutti spira:
E qual la gioventude ancor robusta
Qui si mostra fra lor l’età vetusta.
48
Con ruvidezza militare incolti
Stanno, e con signoril decoro altieri.
L’elmo, il sole, il sudor, la polve i volti
Lor tinto ha di colori adusti e neri.
Ivi le cicatrici, ed ivi scolti
Sono i trionfi ancor de i vinti imperi,
E lor natia beltà, non già sì vaga,
Ma con più maestà, le viste appaga.
49
Ma sovra tutti con severa e dolce
Ed ampia fronte il capitan riluce:
E mostra ben che degnamente ei folce
Sì nobil pondo, e che de gli altri è duce.
Bionde ha le chiome, azzurri gli occhi, e molce
Suo guardo i cori, e riverenza induce.
Regale il naso e curvo alquanto s’erge,
E vivace color le gote asperge.
50
Nell’ampio petto e nelle spalle assembra
Te, Marte, e nelle sciolte e lunghe braccia:
Muscolose ed ossute ha l’altre membra,
Né parte è in lui che non s’ammiri e piaccia.
Fiso il contempla Alete, e intanto membra
Gli alti suoi fatti, e doppia il cor gli agghiaccia
Meraviglia, ed impetra: alfin si scosse
Da stordigion sì lunga, e i detti mosse.
51
– O vincitor di perigliosa guerra,
Principe eccelso che tanto osi e puoi;
O di gloria maggior d’ogni altro in terra,
Ma non egual di gloria a i pregi tuoi:
Il nome tuo, che termine non serra,
Celebrato risuona ancor fra noi,
E la fama d’Egitto in ogni parte
Chiare del tuo valor novelle ha sparte.
52
Né v’è fra tanti alcun che non l’ascolte
Com’egli suol le meraviglie estreme;
Ma dal mio re con istupore accolte
Sono non sol, ma con diletto insieme:
Ed altrui raccontarle anco più volte
S’appaga, ed ama in te ciò ch’altri teme.
Ama il valore, e volontario elegge
Teco unirsi d’amor, se non di legge.
53
Da sì bella cagion dunque sospinto
L’amicizia e la pace a te richiede:
E ’l mezzo onde l’un resti a l’altro avinto
Sia la virtù, s’esser non può la fede.
Ma perché intese che già t’eri accinto
Armato ad assalir ciò ch’ei possede,
Volse pria ch’altro male indi seguisse
Ch’a te la mente sua per noi s’aprisse.
54
E la sua mente è tal, che s’appagarti
Vorrai di quanto hai fatto in guerra tuo,
Né Giudea molestar, né l’altre parti
Le quali accolte ha sotto il favor suo,
Ei promette all’incontro assicurarti
Il non ben fermo stato: e se voi duo
Sarete uniti, or quando i Turchi o i Persi
Potranno unqua sperar di riaversi?
55
Gran cose, o sire, in picciol tempo hai fatte,
Che mai dal tempo non saran conquise:
Tante prese città, tante disfatte,
Tante squadre fugate e tante uccise;
Tante sol col tuo nome esterrefatte
Strane genti, e dal ciel nostro divise:
E se ben acquistar puoi novi imperi,
Acquistar nova gloria indarno speri.
56
Giunta è tua gloria al sommo, e per l’inanzi
Fuggir l’incerte guerre a te conviene:
Ch’ove tu vinca, sol di stato avanzi,
Né tua gloria maggior per ciò diviene.
E gl’imperi acquistati e presi inanzi
Perdi, e la fama, se ’l contrario aviene:
Né dee chi drittamente opra e discorre
Il molto incontra ’l poco a rischio porre.
57
Ma l’aver sempre vinto in ogni impresa
E l’ardor de l’età, che bolle e ferve,
E ’l sentir l’alma d’ingordigia accesa
Di tributarie far provincie e serve,
E ’l consiglio d’alcun, cui forse pesa
Ch’altri gli acquisti suoi sempre conserve,
Faran peraventura a te la pace
Fuggir più che la guerra altri non face.
58
T’esorteranno a seguitar la strada
Che t’è da’ fati largamente aperta;
A non ripor questa onorata spada,
Al cui valore ogni vittoria è certa,
Sin che la legge di Macon non cada,
Sin che l’Asia per lei non sia deserta:
Dolci cose ad udir, e dolci inganni,
Ond’escon poi sovente estremi danni.
59
Ma quando affetto alcun nol ti contenda,
Né il lume adombri in te de la ragione,
Vederai ch’ove tu la guerra imprenda
Hai di temer, non di sperar cagione:
Che Fortuna qua giù varia, a vicenda
Mandandoci avventure or triste, or buone,
Né grandezza durar può lungamente
Se ’l principio e se ’l mezzo è violente.
60
Dimmi, s’a’ danni tuoi l’Egitto move,
D’oro e d’armi potente e di consiglio;
E s’avien che la guerra anco rinove
Il Perso, il Turco e di Cassano il figlio;
Quai forze opporre a sì gran furia, o dove
Ritrovar potrai scampo al tuo periglio?
T’affida forse il re malvagio greco,
Lo qual da’ sacri patti unito è teco?
61
La fede greca a chi non è palese?
Tu da un sol tradimento ogni altro impara,
Anzi da mille: ch’a te mille ha tese
Insidie già l’infida terra avara.
Adunque chi già il passo a voi contese
Per voi la vita esporre or si prepara?
E chi le vie, ch’altrui comuni sono,
Negò, del proprio sangue or farà dono?

Qui si ragionerà de gli aiuti di Francia.

62
Ma forse hai, sir, locata ogni tua speme
In queste squadre ond’ora cinto siedi;
E quei ch’ad uno ad un vincesti, insieme
Di vincer anco agevolmente credi:
Se ben le schiere tue già molto sceme
Da quel che allora fur tu stesso vedi;
Se ben novo nemico a te s’accresce,
E gli Egizii co’ Persi e Turchi mesce.
63
Or, se tu pur istimi esser fatale
Che non ti possa il ferro vincer mai,
Siati concesso, e siasi a punto tale
Il decreto del ciel qual tu lo fai;
Vinceratti la fame: a questo male
Che difesa per Dio, che schermo avrai?
Vibra contra costei la spada, e stringi
La lancia, e la vittoria anco ti fingi.
64
Ogni campo d’intorno arso e distrutto
Ha la provida man de gli abitanti;
E in alte mura e in chiuse torri il frutto
Riposto al tuo venir più giorni inanti.
Tu, ch’ardito sin qui ti sei condutto,
Onde speri nudrir cavalli e fanti?
Dirai: l’armata in mar cura ne prende.
Da’ venti dunque il viver tuo depende?
65
Impera forse tua fortuna a’ venti,
E gli avvince a sua voglia e gli dislega,
E ’l mar sordo a le preci ed a i lamenti
Mutato stile al suo voler si piega?
O non potranno pur l’egizie genti
E le perse e le turche unite in lega
Così potente armata in un raccorre,
Ch’a questi legni tuoi si possa opporre?
66
Doppia vittoria a te, signor, bisogna,
S’hai de l’impresa a riportar l’onore:
Una perdita sola alta vergogna
Può cagionarti, e danno anco maggiore:
Ch’ove la nostra armata in rotta pogna
La tua, qui poi di fame il campo more:
E se tu sei perdente, indarno poi
Saran vittoriosi i legni tuoi.
67
Ora se in stato tal tu pur rifiuti
Col re del grande Egitto e pace e tregua,
Si dirà poi che a l’altre tue virtuti
La giovenil prudenza or non s’adegua.
Ma piaccia al ciel che ’l tuo pensier si muti,
Se a guerra è vòlto, e che ’l contrario segua,
Ch’alte fatiche hai sin ad or sofferte
Per le strade d’onor spinose ed erte.
68
Chi per maggior periglio in pregio salse
Men de’ tesori o de la vita scarso?
Chi sudò mai più sotto l’armi, ed alse?
Chi l’altrui sangue o ’l suo più volte ha sparso?
Le piaggie e i monti il sanno, e l’onde salse
Ove sei vincitor sì spesso apparso.
Tempo è già di riposo, e ’l chiede e ’l brama
Chiunque i tuoi gran merti onora ed ama.
69
Né voi, che ne i perigli e ne gli affanni
E nella gloria a lui sète consorti,
Il favor di fortuna or tanto inganni,
Che nove guerre a provocar v’esorti.
Ma qual nocchier che da’ marini inganni
Ridutto ha i legni a i desiati porti,
Raccòr devreste omai le sparse vele,
Né fidarvi di novo al mar crudele. –
70
Qui tacque Alete, e ’l suo parlar seguiro
Con basso mormorar quei forti eroi:
E ben ne gli atti dispettosi apriro
Quanto ciascun quella proposta annoi.
Il capitan rivolse gli occhi in giro
Tre volte e quattro, e mirò in fronte i suoi;
E poi nel volto del pagan gli affisse,
E stendendo la man così gli disse:
71
– Perch’io ben sappia ch’uom più tosto aggiunga
A quell’ultimo fine ov’egli intende
Se del determinar lo spazio allunga,
Che se veloce a l’operar discende;
Non vo’ però che la dimora lunga
Sospenda voi, poi che né me sospende
Tua dolce lingua, sì che in dubbio torni
Quel che s’è stabilito ha già più giorni.
72
Sappi che tanto abbiam sin or sofferto
Solo accioché ne fosse il calle aperto
In mar e in terra, a l’aria chiara e scura,
A queste sacre e venerabil mura,
Per acquistarci apo Dio grazia e merto
Togliendo lor da servitù sì dura;
Né mai, pur che s’adempia opra sì pia,
Regno o vita arrischiar grave ne fia.
73
Che non ambiziosi avari affetti
Sprone ci furo in questa impresa o guida
(Sgombri il Padre del ciel da’ nostri petti
Peste sì rea, se in alcun pur s’annida,
Né soffra che l’asperga e che l’infetti
Di velen dolce, che piacendo ancida),
Ma la Sua man che i duri cuor penètra
Soavemente, e gli ammollisce e spetra.
74
Questa ha noi mossi, e questa ha noi condutti,
D’ogni periglio tratti e d’ogni impaccio;
Questa fa piani i monti e i fiumi asciutti,
L’ardor toglie a la state, al verno il ghiaccio;
Questa placa del mar gli orridi flutti,
Questa i venti ristringe in duro laccio;
Quindi son l’alte mura e prese ed arse,
Quindi l’armate schiere uccise e sparse.
75
Quindi l’ardir, quindi la speme nasce,
Non da le frali nostre forze e stanche,
Non da l’armata, non da quante pasce
Genti la Grecia, e non da l’armi franche:
Pur che costei non ci abbandoni e lasce
Che dobbiamo curar ch’altri ci manche?
Chi sa come difende e come fère
Soccorso a’ suoi perigli altro non chere.
76
Ma quando di sua aita ella ne privi
Per gli error nostri, o per giudicii occulti,
Chi fia di noi ch’esser sepulto schivi
Ove i membri di Dio fur già sepulti?
Noi morirem, né invidia avremo a i vivi;
Noi morirem, ma non morremo inulti:
Né l’Asia riderà di nostra morte,
Né piangeremo noi la nostra sorte.
77
Non creder già che noi fuggiam la pace
Come guerra mortal si fugge e pave:
Che l’amicizia del tuo re ne piace,
Né l’unirci con lui ci sarà grave:
Ma s’al suo scettro la Giudea soggiace
Tu ’l sai; dunque perché tal cura n’have?
De’ regni altrui l’acquisto ei non ci vieti,
E regga in pace i suoi felici e lieti. –
78
Qui finì di parlar, e sdegno e rabbia
Per tai detti ad Argante il cor traffisse.
Né ’l celò già, ma con enfiata labbia
Si trasse inanti al capitano e disse:
– Chi la pace non vuol la guerra s’abbia,
Che penuria giamai non fu di risse:
E ben la pace ricusar tu mostri,
Se non t’acqueti a i primi detti nostri. –
79
Indi il suo manto per il lembo prese,
E ’l curvò in mezzo; e quello inanzi sporto
Col braccio insieme, a dir così riprese
Al capitan, mirando bieco e torto:
– O vincitor de le più dubbie imprese,
In questo seno istesso ecco io t’apporto
E pace e guerra: or tu di lor t’apprendi
A quella che per te miglior comprendi. –.
80
L’atto altiero e ’l parlar tutti commosse
A chiamar guerra in un concorde grido,
Non attendendo che risposto fosse,
Com’ei già s’accingea, dal buon Goffrido.
Allor quel crudo spiegò il seno e scosse
Il manto, e disse: – A guerra omai vi sfido. –
E ’l disse in atto sì feroce ed empio,
Che parve aprir di Giano il chiuso tempio.
81
Parve ch’aprendo il seno indi traesse
Il Furor pazzo, e la Discordia fiera:
E che ne gli occhi suoi lucenti ardesse
Orrida face d’infernal Megera.
Forse già quel ch’or da tre monti oppresse
Scuote le membra, incontra i dei tal era.
Tal forse e tanto il vide Flegra al cielo
Giove sfidando alzar la faccia e ’l telo.
82
Così sendo fra lor risposto e detto
La coppia de’ pagan congedo tolse.
E ’l magnanimo duce, a cui nel petto
Cortesia pari al gran valor s’accolse,
Di spada Argante, e di lucente elmetto
Ornare Alete a la partita volse.
Finissimo era l’elmo, e già lo scelse
Tra mille prede, e propria spoglia felse.
83
Vi sorge per cimiero orrido e grande
Serpe che si dislunga e ’l collo snoda;
Su le zampe s’innalza, e l’ali spande,
E piega in arco la forcuta coda;
Par che faville fuor da gli occhi mande,
Fumo dal naso, e che ’l suo fischio s’oda.
D’argento è la materia, e in più colori
Da gli smalti distinta appar di fuori.
84
La spada ancora è d’artificio egregio,
Ma nell’opre miglior che bella in vista;
Pesante e lunga, e di torneo fu pregio,
Ove col sangue e non con l’or s’acquista.
La si prese l’altier quasi in dispregio,
E poi che l’ebbe disnudata e vista
Disse: – Potrà la man, ch’or la riceve,
Con lei pagar ciò che per lei ti deve. –
85
Ahi che festi, Goffredo? ahi che crudele
Armi contra i tuoi stessi iniqua mano?
Con quai lamenti, oimè, con quai querele
Sospirerai quest’empio don, ma in vano?
O di che generoso, e che fedele
Sangue per tal cagion fia sparso il piano.
Sparso il piano sarà del sangue altrui,
Ma più del pianto assai de gli occhi tui.
86
Pensoso Alete a la città ritorno
Fece, e lieto colui che ’l mondo sdegna;
E ’l capitan per lo seguente giorno
Le genti invita a general rassegna:
Che veder vuol come d’arnesi adorno
Ciascuno, e di destrieri instrutto vegna,
Per far ch’a quelli, il cui bisogno il chieggia,
Quanto in lei fia, l’armata indi proveggia.
87
Già coronato di purpurei fiori
Sorto se n’era il sol dal salso letto,
E quasi in bel zafir dolci colori
S’accoglievan del ciel nel vago aspetto;
Quando ordinatamente usciron fuori
Tutte le schiere al designato effetto;
E più volte girando un largo piano
Mostra fér di se stesse al capitano.
88
Spiega primiero Ugon la Fiordiligi
Tra cinquemila cavalier c’ha scelti,
Parte d’amici suoi, parte di ligi
Ne gli aquitani popoli e ne i celti,
E Ligeri, e Garona, e ’l gran Parigi
E i dolci alberghi dal pensiero svelti,
Pensa ognun sol come vittoria o morte
Gli apra del ciel le meritate porte.
89
Di pensieri e d’onori e d’armi pieno,
E d’ingegno e di lingua e d’or potente,
Segue Odoardo, a cui commesso ha il freno
L’inglese re de la sua fiera gente:
Gente che ’l mar col procelloso seno
Ha dal mondo divisa, e differente
La feo natura ed invecchiata usanza,
D’abiti, di costumi e di sembianza.
90
Tre mila fanti ha qui, che già le sponde
Pressero di Tamigi e di Sabrina;
E che videro il capo alzar su l’onde
Tarvedo, e i piè lavarsi a la marina.
Altretanti con lor d’archi e di fionde
Armati, e cinti di pelle ferina,
Da gli aspri monti e da le selve manda
Ebuda e Tile e la rimota Irlanda.
91
Gli seconda Argilan, qual presso a Tebe
Già Capaneo con orgoglioso volto;
Minacciosa d’Elvezii audace plebe
Seco el conduce in grosso stuolo e folto:
Che ’l ferro uso a far solchi e franger glebe
In nove forme e in più degne opre ha vòlto,
E con la man, che guardò rozzi armenti,
Par che i regi sfidar nulla paventi.
92
Né l’Eremita affaticar lo stanco
Corpo rifiuta sotto ferrea salma,
Che dal peso terren lo spirto franco
S’alza, qual da gran fascio oppressa palma;
Né sì natura indebilir può il fianco,
Come il vero valor rinforza l’alma:
Vecchio onorato, onde felici esempi
Prenda ogni etade, e gli erga altari e tempi.
93
Crespa ei la fronte, e di pel bianco ha mista
La chioma, e gli occhi irsuto ciglio adombra:
La rabuffata barba in doppia lista
Divisa cade, e ’l ventre e ’l seno ingombra.
Cotal già forse, e sì pensoso in vista
Le quercie e i tassi sotto pallid’ombra
Accolser Paulo; e per diserte rupi
L’udiro inni cantar cinghiali e lupi.
94
Schiera è con lui, che in lunghe vesti avvolte
Portò le membra un tempo, e ’l capo rase;
E chiuse celle, e tra le selve folte
Contemplando abitò solinghe case.
Questi, cangiati studi, han l’armi tolte,
Come voce del ciel lor persuase.
Pochi ora sono, e già fur molti, e morto
L’ Ungaro ingiusto ha ’l rimanente a torto.
95
Né te Gusman dentro al pudico letto
Potuto ha ritener la sposa amata.
Pianse, squarciò i bei crin, percosse il petto
Per distornar la tua fatale andata.
– Dunque, – dicea – crudel, più che ’l mio aspetto
Del mar l’orrida faccia a te fia grata?
Fian l’armi al braccio tuo più caro peso
Che ’l picciol figlio, a’ dolci scherzi inteso? –
96
Regge costui l’aragonesi schiere,
E di sei mila fanti è capitano;
Genti di corda i piè calzate, e nere
Le chiome e i volti, e di rapace mano:
Che videro il Salone e l’onde ibere
Gir mormorando per lo steril piano;
E ’l mare, a cui Mallorca il nome diede,
Mugghiar superbo, e far de’ legni prede.
97
Con virtù pari appresso, e con maggiore
Numero a doppio il bel Clotareo viene:
Clotareo or de la Francia illustre onore,
E de la Francia allor surgente spene:
Giovinetto regal, d’invitto core,
Cui più d’altri Goffredo in pregio tiene;
Ed a lui caro è sì, che i suoi vassalli
Ed i suoi mercenari in cura dalli.
98
Di questi parte è Leuca, e nacque e crebbe
In Tullo e Nanzi, e ne’ confini loro;
Parte, che ’l Reno e l’Istro algente bebbe,
Corse al ferro non men pronta ch’a l’oro:
Né le tiepide stuffe ad essi increbbe
Lasciar, né i prandi, ove sì lieti foro;
Ove mandando coronate attorno
Le colme tazze, consumaro il giorno.
99
Ecco l’Italia segue, ecco il vessillo
Con la mitra real, con l’auree chiavi.
Ecco da Pietro eletto il gran Camillo
Move squadre d’acciar lucenti e gravi,
Lieto ch’a tanta impresa il ciel sortillo,
Ove col sangue altrui le macchie lavi
Nostre e di Roma, o degnamente almeno
Apra cadendo a nobil morte il seno.
100
Gente non è che stringa spada, o ruote
Fionda, che d’agguagliar questi si vanti.
Ristretti vanno, e intorno il ciel percuote
Un orrido fragor d’arme sonanti.
Pista geme la terra, e ’l tergo scuote
Sotto il gran peso di cavalli e fanti.
Lampeggia il ferro al sol, qual Tauro o Libra
Lucente, e incontra lui suoi raggi vibra.
101
Guida costui non pur Sennoni e Buoi,
Piceni e Toschi e Rutuli e Sabini,
E quei che, Roma, ne i gran colli tuoi
Nudristi, e ne i bei campi a te vicini,
Ma gli concede ancor Tancredi i suoi
Bruzii, Marsi, Peligni e Salentini,
E i Peuceti e ’ Lucani, a cui famose
Spiegò già Pesto l’odorate rose;
102
E quei che la Sirena in sen nudrìo,
Nel molle sen di fior vago e di fronde;
O ’l fumante Pozzuol, là dove aprìo
Natura le sulfuree e tiepide onde;
E chi lasciato ha il dolce aer natio
Di Linterno, che l’ossa illustri asconde;
E chi da’ carchi rami i frutti colse
Nel bel Sorento, e i pesci in rete accolse.
103
A lui pur anco il glorioso conte
Di Montefeltro i suoi guerrier concede;
I suoi guerrier, cui la canuta fronte
Del gran padre Apennin ricetto diede,
Là ’ve scendendo dal paterno fonte
Drizza il Metauro a i liti d’Adria il piede,
E l’uno e l’altro nelle parti estreme
Vien con gli erranti cavallieri insieme.
104
Di possenti cavalli e di diverse
Imprese adorna, e ’n lucide armi altiera,
Ultimamente al capitan s’offerse
De gli erranti guerrier la bella schiera.
Né Simoenta mai né Xanto scerse
Sì magnanimi eroi, né la primiera
Nave mai tali al vello d’or gli addusse
Perché Alcide tra quelli o Teseo fusse.
105
Con questi alcun non va, cui palma o lauro
La vincitrice destra e ’l crin non fregi;
Alcun non va, che scosso il Perso o ’l Mauro
Non abbia, o ’l Turco, de i maggior suoi pregi.
Che potran contra questi il ferro e l’auro,
O pur gl’inganni de gli egizii regi?
Speran tant’oltra andar vincendo a gara
Che lor del Nilo il capo ignoto appara.
106
Il coraggioso Otton de gli altri è duce,
Cui sovra l’Istro la vezzosa Flora
Furtivamente a la mondana luce
Produsse, a un re commista umil pastora:
E qual fuor de le nubi il sol traluce
Sorgendo, e i pini a gli alti monti indora,
Tal parve ch’egli il suo valore aprisse
Mentre in povero stato occulto visse.
107
Or del romano re palese figlio
Un feroce corsier saltando move,
E ’n cima l’elmo scopre, e nel vermiglio
Scudo, l’imperiale augel di Giove,
Che presi i polli entro a l’adunco artiglio
Al sol gli volge, e fa le certe prove,
Credendo solo a la virtù del lume
Più ch’a l’ugne ed al rostro ed a le piume.
108
Immerso in profondissimo pensiero
Da lui Tancredi alquanto iva in disparte:
Che nel suo petto Amor s’apre il sentiero
Tra i santi affanni e nel fervor di Marte.
Il bel tempio di Vesta è il suo cimiero,
Ond’escon molte fiamme al cielo sparte,
E scritto appar nel più sublime loco:
«Esca ognor si rinova al mio gran foco».
109
Ornan lo scudo al castigliano Ernando
Cinque di mori incoronati capi,
De’ suoi fatti memoria; ed al normando
Roberto il pinge industre schiera d’api,
Che par che vada in verde prato errando,
Ed in sua preda i più bei fior si capi;
Ed un leone ad una quercia avvinto
Ha nello scudo il Bonarel dipinto.
110
Con lor s’accoppia il longobardo Astolfo,
E gli ondeggia sul capo azzurra piuma.
Etna ha costui, che da l’acceso solfo
Vome faville incontra il cielo, e fuma.
Porta Gonzaga un tempestoso golfo,
Che tra gli scogli è rotto, e ferve e fuma.
Al fiamingo Roberto orrida spiega
Medusa i crini, e al collo i serpi lega.
111
Ha Vincilao Rangon la bella conca
Onde Venere solca ignuda il mare;
E in quattro parti una spezzata ronca
Sovra l’elmetto di Currado appare:
La destra a lui spietato ferro ha tronca,
E sol può la sinistra in guerra oprare;
E così l’opra ognor, che i suoi nimici
Prendon dal suo apparir sinistri auspici.
112
Segue Ermiferro, e non ha ’l braccio carco
Di scudo, né di spada adorna il fianco,
Ma gli suonano a tergo i dardi e l’arco,
E gli pende la mazza al lato manco.
Di cimiero e di piume ha l’elmo scarco,
Candide l’armi sono e ’l destrier bianco,
E mostra ancora alta letizia in viso
D’aver con man pietosa il frate ucciso.
113
Porta l’Orse il Visconte, a cui non lice
Lavarsi i velli entro ’l marino sale;
Nello scudo d’Arbante aurea fenice
Di purpura si fascia il capo e l’ale.
È in quel di Claramon pinta Euridice,
A cui morde il talone aspe fatale:
Nel cimier d’Eberardo apre le corna
Dorate il tauro, e i piè di stelle adorna.
114
Gli è giunta al fianco la sua fida moglie,
Che in atto militar se stessa doma:
Animo altier, pietose e caste voglie
Quai non Atene mai vide né Roma;
Che soffrìo di lasciar l’usate spoglie
E soffrìo di lasciar la bella chioma
Sol per lui non lasciar, e féssi audace
Non men di Marte che di lui seguace.
115
Con questi e con molti altri insieme ir volle
Il chiaro Ubaldo, che de gli Umbri è conte:
Chiaro da l’Orse insin dove più bolle
La Libia a i rai del fervido Fetonte:
E sovra tutti alteramente estolle
Le spalle e ’l petto e l’onorata fronte;
E da tre mete d’or purpurei lampi
Sparge, e del cielo illustra i lieti campi.
116
Qual tauro, che se stesso in guerra accende
Solingo errando ove più l’ira il mena,
Su le gran corna d’adirarsi apprende,
D’urtar possente, e di ferir con lena;
Co’ vani colpi irrita i venti, e fende
Co’ piè la terra, e spande al ciel l’arena;
Salta e mugge saltando, e già li sembra
Con l’altrui piaghe insanguinar sue membra;