Discorso primo
[1] A tre cose deve aver riguardo ciascuno che di scriver poema eroico si prepone: a sceglier materia tale che sia atta a ricever in sé quella più eccellente forma che l'artificio del poeta cercarà d'introdurvi; a darle questa tal forma; e a vestirla ultimamente con que' più esquisiti ornamenti ch'alla natura di lei siano convenevoli. Sovra questi tre capi dunque, così distintamente come io gli ho proposti, sarà diviso tutto questo discorso: peroché, cominciando dal giudicio ch'egli deve mostrare nell'elezione della materia, passarò all'arte che se gli richiede servare prima nel disporla e nel formarla, e poi nel vestirla e nell'adornarla.
[2] La materia nuda (materia nuda è detta quella che non ha ancor ricevuta qualità alcuna dall'artificio dell'oratore e del poeta) cade sotto la considerazion del poeta in quella guisa che 'l ferro o 'l legno vien sotto la considerazion del fabro; peroché, sì come colui che fabrica le navi non solo è obligato a sapere qual debba esser la forma delle navi, ma deve anco conoscere qual maniera di legno è più atta a ricever in sé questa forma, così parimente conviene al poeta non solo aver arte nel formare la materia, ma giudicio ancora nel conoscerla; e sceglierla dee tale che sia per sua natura d'ogni perfezione capace.
[3] La materia nuda viene offerta quasi sempre all'oratore dal caso o dalla necessità, al poeta dall'elezione; e di qui avviene ch'alcune fiate quel che non è convenevole nel poeta è lodevole nell'oratore. È ripreso il poeta che faccia nascer la commiserazione sovra persona che abbia volontariamente macchiate le mani nel sangue del padre; ma del medesimo avvenimento trarrebbe la commiserazione con somma sua lode l'oratore: in quello si biasma l'elezione, in questo si scusa la necessità e si loda l'ingegno; percioché, sì come non è alcun dubio che la virtù dell'arte non possa in un certo modo violentar la natura della materia, sì che paiano verisimili quelle cose che in se stesse non son tali, e compassionevoli quelle che per se stesse non recarebbono compassione, e mirabili quelle che non portarebbono meraviglia, così anco non v'è dubio che queste qualità molto più facilmente e in un grado più eccellente non s'introduchino in quelle materie che sono per se stesse disposte a riceverle. Onde presuponiamo che co 'l medesimo artificio e con la medesima eloquenza altri voglia trarre la compassione d'Edippo, che per simplice ignoranza uccise il padre, altri da Medea, che molto bene consapevole della sua sceleraggine lacerò i figliuoli; molto più compassionevole riuscirà la favola tessuta sovra gli accidenti d'Edippo che l'altra composta nel caso di Medea: quella infiammarà gli animi di pietà, questa a pena sarà atta ad intepidirli, ancora che l'artificio, nell'una e nell'altra usato, sia non solo simile, ma eguale. Così similmente la medesima forma del sigillo molto meglio fa sue operazioni nella cera che in altra materia più liquida o più densa; e più sarà in pregio una statua di marmo o di oro ch'una di legno o di pietra men nobile, benchè in ambedue parimente s'ammiri l'industria di Fidia o di Prassitele. Questo mi giova aver toccato accioché si conosca quanto importi nel poema l'eleggere più tosto una ch'un'altra materia. Resta che veggiamo da qual luogo ella debba esser tolta.
[4] La materia, che argomento può ancora comodamente chiamarsi, o si finge, e allora par che il poeta abbia parte non solo nella scelta, ma nella invenzione ancora, o si toglie dall'istorie. Ma molto meglio è, a mio giudicio, che dall'istoria si prenda, perchè, dovendo l'epico cercare in ogni parte il verisimile (presupongo questo come principio notissimo), non è verisimile ch'una azione illustre, quali sono quelle del poema eroico, non sia stata scritta e passata alla memoria de' posteri con l'aiuto d'alcuna istoria. I successi grandi non possono esser incogniti; e ove non siano ricevuti in iscrittura, da questo solo argomentano gli uomini la loro falsità; e falsi stimandoli, non consentono così facilmente d'essere or mossi ad ira, or a terrore, or a pietà, d'esser or allegrati, or contristati, or sospesi, or rapiti, e in somma non attendono con quella espettazione e con quel diletto i successi delle cose, come farebbono se que' medesimi successi, o in tutto o in parte, veri stimassero. Per questo, dovendo il poeta con la sembianza della verità ingannare i lettori, e non solo persuader loro che le cose da lui trattate sian vere, ma sottoporle in guisa a i lor sensi che credano non di leggerle, ma di esser presenti e di vederle e di udirle, è necessitato di guadagnarsi nell'animo loro questa opinion di verità; il che facilmente con l'auttorità della istoria li verrà fatto. Parlo di quei poeti che imitano le azioni illustri, quali sono e 'l tragico e l'epico, perochè al comico, che d'azioni ignobili e popolaresche è imitatore, lecito è sempre che si finga a sua voglia l'argomento, non repugnando al verisimile che dell'azioni private alcuna contezza non s'abbia fra gli uomini, ancora che della medesima città sono abitatori. E se ben leggiamo nella Poetica d'Aristotele che le favole finte sogliono piacere al popolo per la novità loro, qual fu tra gli antichi il Fior d'Agatone, e tra noi altri le favole eroiche del Boiardo e dell'Ariosto, e le tragiche d'alcuni più moderni, non dobbiamo però lasciarci persuadere che favola alcuna finta in poema nobile sia degna di molta commendazione, come per la ragione tolta dal verisimile s'è provato, e con molte altre ragioni da altri è stato concluso; oltre le quali tutte si può dire che la novità del poema non consiste principalmente in questo, cioè che la materia sia finta e non più udita, ma consiste nella novità del nodo e dello scioglimento della favola. Fu l'argomento di Tieste, di Medea, di Edippo da varii antichi trattato, ma, variamente tessendolo, di commune proprio e di vecchio novo il facevano; sì che novo sarà quel poema in cui nova sarà la testura de i nodi, nove le soluzioni, novi gli episodii che per entro vi saranno traposti, ancorachè la materia sia notissima e da altri prima trattata; e all'incontra novo non potrà dirsi quel poema in cui finte sian le persone e finto l'argomento, quando però il poeta l'avviluppi e distrighi in quel modo che da altri prima sia stato annodato e disciolto; e tale per avventura è alcuna moderna tragedia, in cui la materia e i nomi son finti, ma 'l groppo è così tessuto e così snodato come presso gli antichi Greci si ritrova, sì che non vi è nè l'auttorità che porta seco l'istoria, nè la novità che par che rechi la finzione.
[5] Deve dunque l'argomento del poema epico esser tolto dall'istorie; ma l'istoria o è di religione tenuta falsa da noi, o di religione che vera crediamo, quale è oggi la cristiana e fu già l'ebrea. Nè giudico che l'azioni de' gentili ci porgano comodo soggetto onde perfetto poema epico se ne formi, perchè in que' tali poemi o vogliamo ricorrer talora alle deità che da' gentili erano adorate, o non vogliamo ricorrervi; se non vi ricorriamo mai, viene a mancarvi il meraviglioso, se vi ricorriamo, resta privo il poema in quella parte del verisimile. Poco dilettevole è veramente quel poema che non ha seco quelle maraviglie che tanto movono non solo l'animo de gli ignoranti, ma de' giudiziosi ancora: parlo di quelli anelli, di quelli scudi incantati, di que' corsieri volanti, di quelle navi converse in ninfe, di quelle larve che fra' combattenti si tramettono, e d'altre cose sì fatte; delle quali, quasi di sapori, deve giudizioso scrittore condire il suo poema, perchè con esse invita e alletta il gusto de gli uomini vulgari, non solo senza fastidio, ma con sodisfazione ancora de' più intendenti. Ma non potendo questi miracoli esser operati da virtù naturale, è necessario ch'alla virtù sopranaturale ci rivolgiamo; e rivolgendoci alle deità de' gentili, subito cessa il verisimile, perchè non può esser verisimile a gli uomini nostri quello ch'è da lor tenuto non solo falso, ma impossibile; ma impossibil è che dal potere di quelli idoli vani e senza soggetto, che non sono e non furon mai, procedano cose che di tanto la natura e l'umanità trapassino. E quanto quel meraviglioso (se pur merita tal nome) che portan seco i Giovi e gli Apolli e gli altri numi de' gentili sia non solo lontano da ogni verisimile, ma freddo e insipido e di nissuna virtù, ciascuno di mediocre giudicio se ne potrà facilmente avvedere leggendo que' poemi che sono fondati sovra la falsità dell'antica religione.
[6] Diversissime sono, signor Scipione, queste due nature, il meraviglioso e 'l verisimile, e in guisa diverse che sono quasi contrarie fra loro; nondimeno l'una e l'altra nel poema è necessaria, ma fa mestieri che arte di eccellente poeta sia quella che insieme le accoppi; il che, se ben è stato sin ora fatto da molti, nissuno è (ch'io mi sappia) il quale insegni come si faccia; anzi alcuni uomini di somma dottrina, veggendo la ripugnanza di queste due nature, hanno giudicato quella parte ch'è verisimile ne' poemi non essere meravigliosa, nè quella ch'è meravigliosa verisimile, ma che nondimeno, essendo ambedue necessarie, si debba or seguire il verisimile, ora il meraviglioso, di maniera che l'una all'altra non ceda, ma l'una dall'altra sia temperata. Io per me questa opinione non approvo, che parte alcuna debba nel poema ritrovarsi che verisimile non sia; e la ragione che mi move a così credere è tale. La poesia non è in sua natura altro che imitazione (e questo non si può richiamare in dubbio); e l'imitazione non può essere discompagnata dal verisimile, perochè tanto significa imitare, quanto far simile; non può dunque parte alcuna di poesia esser separata dal verisimile; e in somma il verisimile non è una di quelle condizioni richieste nella poesia a maggior sua bellezza e ornamento, ma è propria e intrinseca dell'essenza sua, e in ogni sua parte sovra ogn'altra cosa necessaria. Ma bench'io stringa il poeta epico ad un obligo perpetuo di servare il verisimile, non però escludo da lui l'altra parte, cioè il meraviglioso anzi giudico ch'un'azione medesima possa essere e meravigliosa e verisimile; e molti credo che siano i modi di congiungere insieme queste qualità così discordanti; e rimettendo gli altri a quella parte ove della testura della favola si trattarà, la quale è lor proprio luogo, dell'uno qui ricerca l'occasione che si favelli.
[7] Attribuisca il poeta alcune operazioni, che di gran lunga eccedono il poter de gli uomini, a Dio, a gli angioli suoi, a' demoni o a coloro a' quali da Dio o da' demoni è concessa questa podestà, quali sono i santi, i maghi e le fate. Queste opere, se per se stesse saranno considerate, maravigliose parranno, anzi miracoli sono chiamati nel commune uso di parlare. Queste medesime, se si avrà riguardo alla virtù e alla potenza di chi l'ha operate, verisimili saranno giudicate; perchè, avendo gli uomini nostri bevuta nelle fasce insieme co 'l latte questa opinione, ed essendo poi in loro confermata da i maestri della nostra santa fede (cioè che Dio e i suoi ministri e i demoni e i maghi, permettendolo Lui, possino far cose sovra le forze della natura meravigliose), e leggendo e sentendo ogni dì ricordarne novi essempi, non parrà loro fuori del verisimile quello che credono non solo esser possibile, ma stimano spesse fiate esser avvenuto e poter di novo molte volte avvenire. Sì com'anco a quegli antichi, che viveano negli errori della lor vana religione, non deveano parer impossibili que' miracoli che de' lor dei favoleggiavano non solo i poeti, ma l'istorie talora; chè se pur gli uomini scienziati impossibili (com'essi erano) li giudicavano, basta al poeta in questo, com'in molte altre cose, la opinion della moltitudine, alla quale molte volte, lassando l'esatta verità delle cose, e suole e deve attenersi. Può esser dunque una medesma azione e meravigliosa e verisimile: meravigliosa riguardandola in se stessa e circonscritta dentro a i termini naturali, verisimile considerandola divisa da questi termini, nella sua cagione, la quale è una virtù sopranaturale, potente e avezza ad operar simili meraviglie. Ma di questo modo di congiungere il verisimile co 'l meraviglioso privi sono que' poemi ne' quali le deità de' gentili sono introdotte, sì come all'incontra commodissimamente se ne possono valere que' poeti che fondano la lor poesia sovra la nostra religione. Questa sola ragione, a mio giudicio, conclude che l'argumento de l'epico debba esser tratto da istoria non gentile, ma cristiana od ebrea. Aggiungasi ch'altra grandezza, altra dignità, altra maestà reca seco la nostra religione, così ne' concilii celesti e infernali come ne' pronostichi e nelle cerimonie, che quella de' gentili non portarebbe; e ultimamente, chi vuol formar l'idea d'un perfetto cavaliero, come parve che fosse intenzione d'alcuni moderni scrittori, non so per qual cagione gli nieghi questa lode di pietà e di religione, ed empio e idolatra ce lo figuri. Che se a Teseo o s'a Giasone o ad altro simile non si può attribuire, senza manifesta disconvenevolezza, il zelo della vera religione, Teseo e Giasone e gli altri simili si lassino, e in quella vece di Carlo, d'Artù e d'altri somiglianti si faccia elezione. Taccio per ora che, dovendo il poeta aver molto riguardo al giovamento, se non in quanto egli è poeta (chè ciò come poeta non ha per fine), almeno in quanto è uomo civile e parte della republica, molto meglio accenderà l'animo de' nostri uomini con l'essempio de' cavalieri fedeli che d'infedeli, movendo sempre più l'essempio de' simili che de i dissimili, e i domestici che gli stranieri.
[8] Deve dunque l'argomento del poeta epico esser tolto da istoria di religione tenuta vera da noi. Ma queste istorie o sono in guisa sacre e venerabili, ch'essendo sovr'esse fondato lo stabilimento della nostra fede, sia empietà l'alterarle, o non sono di maniera sacrosante ch'articolo di fede sia ciò che in esse si contiene, sì che si conceda, senza colpa d'audacia o di poca religione, alcune cose aggiungervi, alcune levarne, e mutarne alcun'altre. Nell'istorie della prima qualità non ardisca il nostro epico di stender la mano, ma le lassi a gli uomini pii nella lor pura e simplice verità, perchè in esse il fingere non è lecito; e chi nissuna cosa fingesse, chi in somma s'obligasse a que' particolari ch'ivi son contenuti, poeta non sarebbe, ma istorico. Tolgasi dunque l'argomento dell'epopeia da istorie di vera religione, ma non di tanta auttorità che siano inalterabili.
[9] Ma le istorie o contengono avvenimenti de' nostri tempi, o de' tempi remotissimi, o cose non molto moderne nè molto antiche. L'istoria di secolo lontanissimo porta al poeta gran commodità di fingere, perochè, essendo quelle cose in guisa sepolte nel seno dell'antichità ch'a pena alcuna debole e oscura memoria ce ne rimane, può il poeta a sua voglia mutarle e rimutarle e, senza rispetto alcuno del vero, com'a lui piace, narrarle. Ma con questo commodo viene un incommodo per avventura non picciolo, perochè insieme con l'antichità de' tempi è necessario che s'introduca nel poema l'antichità de' costumi; ma quella maniera di guerreggiare o d'armeggiare usata da gli antichi, e quasi tutte l'usanze loro, non potriano esser lette senza fastidio dalla maggior parte de gli uomini di questa età; e l'esperienza si prende da i libri d'Omero, i quali, come che divinissimi siano, paiono nondimeno rincrescevoli. E di ciò in buona parte è cagione questa antichità de' costumi, che da coloro c'hanno avezzo il gusto alla gentilezza e al decoro de' moderni secoli, è come cosa vieta e rancida schivata e avuta a noia. Ma chi volesse poi con la vecchiezza de' secoli introdurre la novità de' costumi, potrebbe forse parer simile a poco giudicioso pittore che l'imagine di Catone o di Cincinnato vestite, secondo le foggie della gioventù milanese o napolitana ci rappresentasse, o, togliendo ad Ercole la clava e la pelle di leone, di cimiero e di sopraveste l'adornasse.
[10] Portano le istorie moderne gran commodità in questa parte ch'a i costumi e all'usanze s'appartiene, ma togliono quasi in tutto la licenza di fingere, la quale è necessariissima a i poeti e particolarmente a gli epici; perochè di troppo sfacciata audacia parrebbe quel poeta che l'imprese di Carlo Quinto volesse descrivere altrimenti di quello che molti, ch'oggi vivono, l'hanno viste e maneggiate. Non possono soffrire gli uomini d'esser ingannati in quelle cose ch'o per se medesmi sanno, o per certa relazione de' padri e de gli avi ne sono informati. Ma l'istorie de' tempi nè molto moderni nè molto remoti non recano seco la spiacevolezza de' costumi, nè della licenza di fingere ci privano. Tali sono i tempi di Carlo Magno e d'Artù e quelli ch'o di poco successero o di poco precedettero; e quinci avviene che abbiano porto soggetto di poetare ad infiniti romanzatori. La memoria di quelle età non è sì fresca che, dicendosi alcuna menzogna, paia impudenza, e i costumi non sono diversi da' nostri; e se pur sono in qualche parte, l'uso de' nostri poeti ce gli ha fatti domestici e familiari molto. Prendasi dunque il soggetto del poema epico da istoria di religione vera, ma non sì sacra che sia immutabile, e di secolo non molto remoto nè molto prossimo alla memoria di noi ch'ora viviamo.
[11] Tutte queste condizioni, signor Scipione, credo io che si richieggiano nella materia nuda, ma non però sì che, mancandogliene una, ella inabile divenga a ricever la forma del poema eroico. Ciascuna per sè sola fa qualche effetto, chi più e chi meno, ma tutte insieme tanto rilevano che senza esse non è la materia capace di perfezione. Ma oltre tutte queste condizioni richieste nel poema, una n'addurrò simplicemente necessaria: questa è che l'azioni che devono venire sotto l'artificio dell'epico siano nobili e illustri. Questa condizione è quella che constituisce la natura dell'epopeia, e in questo la poesia eroica e la tragica confacendosi, sono differenti dalla comedia, che dell'azioni umili è imitatrice. Ma, perochè par che communemente si creda che la tragedia e l'epopeia non siano differenti fra loro nelle cose imitate, imitando l'una e l'altra parimente l'azioni grandi e illustri, ma che la differenza di spezie ch'è fra loro nasca dalla diversità del modo, sarà bene che ciò più minutamente si consideri.
[12] Pone Aristotele nella sua Poetica tre differenze essenziali e specifiche (per così chiamarle), per le quai differenze l'un poema dall'altro si separa e si distingue. Queste sono: le diversità delle cose imitate, del modo d'imitare, de gli istrumenti co' quali s'imita. Le cose sono l'azioni. Il modo è il narrare e il rappresentare: narrare è ove appar la persona del poeta, rappresentare ove occulta è quella del poeta e appare quella de gli istrioni. Gli istrumenti sono il parlare, l'armonia e 'l ritmo. Ritmo intendo la misura de' movimenti e de' gesti che ne gli istrioni si vede. Poi che Aristotele ha constituite queste tre differenze essenziali, va ricercando come da loro proceda la distinzion delle spezie della poesia, e dice che la tragedia concorda con la comedia nel modo dell'imitare e ne gli istrumenti, perochè l'una e l'altra rappresenta, e l'una e l'altra usa, oltra il verso, il ritmo e l'armonia; ma quel che le fa differenti di natura è la diversità dell'azioni imitate: le nobili imita la tragedia, le ignobili la comedia. L'epopeia poi è conforme con la tragedia nelle cose imitate, imitando l'una e l'altra l'illustri, ma le fa differenti il modo: narra l'epico, rappresenta il tragico; e gli istrumenti: usa il verso solamente l'epico, e il tragico, oltre il verso, il ritmo e l'armonia.
[13] Per queste cose, così dette da Aristotele con quella oscura brevità ch'è propria di lui, è stato creduto il tragico e l'epico in tutto conformarsi nelle cose imitate; la quale opinione, benchè commune e universale, vera da me non è giudicata, e la ragione che m'induce in così fatta credenza è tale. Se l'azioni epiche e tragiche fossero della istessa natura, produrrebbono gli istessi effetti, perochè dalle medesime cagioni derivano gli effetti medesimi; ma non producendo i medesimi effetti, ne seguita che diversa sia la natura loro. Che gli istessi effetti non procedano da loro, chiaramente si manifesta. Le azioni tragiche movono l'orrore e la compassione, e ove lor manchi questo orribile e questo compassionevole, tragiche più non sono. Ma l'epiche non son nate a mover nè pietà nè terrore, nè questa condizione in loro si richiede come necessaria; e se talora ne' poemi eroici si vede qualche caso orribile o miserabile, non si cerca però l'orrore e la misericordia in tutto il contesto della favola, anzi è quel tal caso in lei accidentale e per semplice ornamento. Onde se si dice parimente illustre l'azione del tragico e quella dell'epico, questo illustre è in loro di diversa natura: l'illustre del tragico consiste nell'inespettata e sùbita mutazion di fortuna, e nella grandezza de gli avvenimenti che portino seco orrore e misericordia; ma l'illustre dell'eroico è fondato sovra l'imprese d'una eccelsa virtù bellica, sovra i fatti di cortesia, di generosità, di pietà, di religione; le quali azioni, proprie dell'epopeia, per niuna guisa convengono alla tragedia. Di qui avviene che le persone che nell'uno e nell'altro poema s'introducono, se bene nell'uno e nell'altro sono di stato e di dignità regale e soprema, non sono però della medesima natura. Richiede la tragedia persone nè buone nè cattive, ma d'una condizion di mezzo: tale è Oreste, Elettra, Iocasta. La qual mediocrità, perchè da Aristotele più in Edippo che in alcun altro è ritrovata, però anco giudicò la persona di lui più di nissun'altra alle favole tragiche accomodata. L'epico all'incontra vuole nelle persone il sommo delle virtù, le quali eroiche dalla virtù eroica sono nominate. Si ritrova in Enea l'eccellenza della pietà, della fortezza militare in Achille, della prudenza in Ulisse, e, per venire a i nostri, della lealtà in Amadigi, della constanza in Bradamante; anzi pure in alcuni di questi il cumulo di tutte queste virtù. E se pur talora dal tragico e da l'epico si prende per soggetto de' lor poemi la persona medesima, è da loro diversamente e con varii rispetti considerata. Considera l'epico in Ercole e in Teseo il valore e l'eccellenza dell'armi; gli riguarda il tragico come rei di qualche colpa, e perciò caduti in infelicità. Ricevono ancora gli epici non solo il colmo della virtù, ma l'eccesso del vizio con minor pericolo assai che i tragici non sono usi di fare. Tale è Mezenzio e Marganorre e Archeloro, e può essere e Busiri e Procuste e Diomede e gli altri simili.
[14] Da le cose dette può esser manifesto che la differenza ch'è fra la tragedia e l'epopeia non nasce solamente dalla diversità de gli istrumenti e del modo dello imitare, ma molto più e molto prima dalla diversità delle cose imitate; la qual differenza è molto più propria e più intrinseca e più essenzial dell'altre; e se Aristotele non ne fa menzione, è perchè basta a lui in quel luogo di mostrare che la tragedia e l'epopeia siano di spezie differenti; e ciò a bastanza si mostra per quell'altre due differenze, le quali a prima vista sono assai più note che questa non è. Ma perchè questo illustre, che abbiamo sottoposto all'eroico, può esser più e meno illustre, quanto la materia conterrà in sè avvenimenti più nobili e più grandi, più sarà disposta all'eccellentissima forma dell'epopeia; chè, bench'io non nieghi che poema eroico non si potesse formare di accidenti meno magnifici, quali sono gli amori di Florio, e quelli di Teagene e di Cariclea, in questa idea nondimeno, che ora andiamo cercando, del perfettissimo poema, fa mestieri che la materia sia in se stessa nel primo grado di nobiltà e di eccellenza. In questo grado è la venuta d'Enea in Italia: ch'oltra che l'argomento è per se stesso grande e illustre, grandissimo e illustrissimo è poi avendo riguardo all'Imperio de' Romani che da quella venuta ebbe origine; alla qual cosa il divino epico ebbe particolar considerazione, come nel principio dell'Eneida ci accenna:
Tantae molis erat Romanam condere gentem.
[15] Tale è parimente la liberazion d'Italia dalla servitù de' Goti, che porse materia al poema del Trissino, tali sono quelle imprese che o per la dignità dell'Imperio o per essaltazione della fede di Cristo furo felicemente e gloriosamente operate; le quali per se medesime si conciliano gli animi de' lettori e destano espettazione e diletto incredibile, e, aggiuntovi l'artificio di eccellente poeta, nulla è che non possino nella mente de gli uomini.
[16] Eccovi, signor Scipione, le condizioni che giudizioso poeta deve nella materia nuda ricercare, le quali (repilogando in breve giro di parole quanto s'è detto) sono queste: l'auttorità dell'istoria, la verità della religione, la licenza del fingere, la qualità de' tempi accomodati e la grandezza e nobiltà de gli avvenimenti. Ma questa che, prima che sia caduta sotto l'artificio dell'epico, materia si chiama, doppo ch'è stata dal poeta disposta e trattata, e che favola è divenuta, non è più materia, ma è forma e anima del poema; e tale è da Aristotele giudicata; e se non forma semplice, almeno un composto di materia e di forma il giudicaremo. Ma avendo nel principio di questo discorso assomigliata quella materia, che nuda vien detta da noi, a quella che chiamano i naturali materia prima, giudico che, sì come nella materia prima, benchè priva d'ogni forma, nondimeno vi si considera da' filosofi la quantità, la quale è perpetua ed eterna compagna di lei, e inanzi il nascimento della forma vi si ritrova e doppo la sua corruzione vi rimane, così anco il poeta debba in questa nostra materia, inanzi ad ogni altra cosa, la quantità considerare, perochè è necessario che, togliendo egli a trattare alcuna materia, la toglia accompagnata d'alcuna quantità, sendo questa considerazione da lei inseparabile. Avvertisca dunque che la quantità ch'egli prende non sia tanta che, volend'egli poi, nel formare la testura della favola, interserirvi molti episodii e adornare e illustrar le cose che semplici sono in sua natura, ne venga il poema a crescer in tanta grandezza che disconvenevol paia e dismisurato; però che non deve il poema eccedere una certa determinata grandezza, come nel suo luogo si trattarà; che s'egli vorrà pure schivare questa dismisura e questo eccesso, sarà necessitato lassare le digressioni e gli altri ornamenti che sono necessarii al poema, e quasi ne' puri e semplici termini dell'istoria rimanersene. Il che a Lucano e a Silio Italico si vede esser avvenuto, l'uno e l'altro de' quali troppo ampia e copiosa materia abbracciò: perchè quegli non solo il conflitto di Farsaglia, come dinota il titolo, ma tutta la guerra civile fra Cesare e Pompeo, questi tutta la seconda guerra africana prese a trattare. Le quali materie, sendo in se stesse ampissime, erano atte ad occupare tutto quello spazio ch'è concesso alla grandezza dell'epopeia, non lassando luogo alcuno all'invenzione e all'ingegno del poeta. E molte volte, paragonando le medesime cose trattate da Silio poeta e da Livio istorico, molto più asciuttamente e con minor ornamento mi par di vederle nel poeta che nell'istorico, al contrario a punto di quello che la natura delle cose richiederebbe. E questo medesimo si può notare nel Trissino, il qual volse che fosse soggetto del suo poema tutta la spedizione di Belisario contra a i Goti, e perciò è molte fiate più digiuno e arido ch'a poeta non si converrebbe; che s'una parte solamente, e la più nobil di quella impresa, avesse tolta a discrivere, peraventura più ornato e più vago di belle invenzioni sarebbe riuscito. Ciascuno in somma, che materia troppo ampia si propone, è costretto d'allungare il poema oltre il convenevol termine (la qual soverchia lunghezza sarebbe forse nell'Inamorato e nel Furioso, chi questi due libri, distinti di titolo e d'auttore, quasi un sol poema considerasse, come in effetto sono), o almeno è sforzato di lassare gli episodii e gli altri ornamenti, i quali sono al poeta necessariissimi. Meraviglioso fu in questa parte il giudizio d'Omero, il quale, avendo propostasi materia assai breve, quella, accresciuta d'episodii e ricca d'ogni altra maniera d'ornamento, a lodevole e conveniente grandezza ridusse. Più ampia alquanto la si propose Virgilio, come colui che tanto in un sol poema raccoglie quanto in due poemi d'Omero si contiene; ma non però di tanta ampiezza la scelse che 'n alcuno di que' duo vizii sia costretto di cadere. Con tutto ciò se ne va alle volte così ristretto e così parco ne gli ornamenti che, se ben quella purità e quella brevità sua è maravigliosa e inimitabile, non ha per avventura tanto del poetico quanto ha la fiorita e faconda copia d'Omero. E mi ricordo in questo proposito aver udito dire allo Sperone (la cui privata camera, mentre io in Padova studiavo, era solito di frequentare non meno spesso e volontieri che le publiche scole, parendomi che mi rappresentasse la sembianza di quella Academia e di quel Liceo in cui i Socrati e i Platoni aveano in uso di disputare), mi ricordo, dico, d'aver udito da lui che 'l nostro poeta latino è più simile al greco oratore ch'al greco poeta, e 'l nostro latino oratore ha maggior conformità co 'l poeta greco che con l'orator greco, ma che l'oratore e 'l poeta greco aveano ciascuno per sè asseguita quella virtù ch'era propria dell'arte sua, ove l'uno e l'altro latino avea più tosto usurpata quell'eccellenza ch'all'arte altrui era convenevole. E in vero chi vorrà sottilmente essaminare la maniera di ciascun di loro, vedrà che quella copiosa eloquenza di Cicerone è molto conforme con la larga facondia d'Omero, sì come ne l'acume e nella pienezza e nel nerbo d'una illustre brevità sono molto somiglianti Demostene e Virgilio.
[17] Raccogliendo dunque quanto s'è detto, deve la quantità della materia nuda esser tanta, e non più, che possa dall'artificio del poeta ricever molto accrescimento senza passare i termini della convenevole grandezza. Ma poichè s'è ragionato del giudicio che deve mostrare il poeta intorno alla scelta dello argomento, l'ordine richiede che nel seguente discorso si tratti dell'arte con la quale deve essere disposto e formato.